martedì 30 novembre 2010

PostHeaderIcon In Un Giorno Qualunque

I libri vanno e vengono, sono come le foglie di questo autunno invadente e impreciso. Quasi li si vede, appesi con mollette in legno ai rami degli alberi, le pagine che frusciano, scricchiolano, sbattute incessantemente dal vento. Come dei sogni racchiusi nella morsa del tempo, che cercano di fuggire urlando, ma le loro catene li tengono ancorati al palo arrugginito del fato; loro si ritraggono spauriti nel loro cantuccio, per poi tentare la libertà una volta di più. Un libro è un sogno prigioniero delle sue stesse parole.

I libri vanno e vengono. Alla fine, ciò che resta di loro è solo un’emozione. L’emozione che si prova quando si legge, o quando si è appena finita una storia: quel sentore alla bocca dello stomaco, proprio lì, quel brivido che ogni tanto ti percorre le dita delle mani, il viso che si avvicina alle parole e alle frasi, risucchiato. Un senso di noia che profuma di nebbia, una tranquillità celata che si trascina dietro il peso di una storia che non si riesce a narrare. L’indifferenza iniziale, l’approccio, che poi talvolta si tramuta in invaghimento, e raggiunge una passione indecente… si può amare così tanto un pezzo di carta?

Questo pomeriggio l’aria è come un buon libro, ti trasporta nell’amplesso delle sue trame, ma lo fa piano, dolcemente. Quasi non ti accorgi che, a un certo punto, è stata lei a guidarti in quel luogo, a muovere i tuoi stessi passi.

È fresca, leggera. Le foglie umide invadono a tratti i sentieri del parco, impiastricciate come lo schizzo di un bambino, si appiccicano fastidiosamente alle suole, e là restano, mezze marcite, con quell’odore persistente e intriso di pioggia e di sole. Pizzica appena il naso e libera i polmoni dal fumo dei ricordi, si insinua per la gola come tante praline di cioccolato piccante.

Un uomo cammina su quelle vie, il capo chino, il passo lento di un fantasma che si è smarrito fra i meandri del suo castello. Anche i capelli, di un biondo cenere, sono smorti come quelli di uno spirito. Si stringe un po’ nel suo paltò del colore delle caldarroste. È fatto di un tessuto morbido e rigato, due ampie tasche ai lati per contenere un altro mondo, magari più bello, fatto di primavere e di gite nei boschi. L’uomo sente il freddo pungergli la pallida pelle, e ha le braccia incrociate, le mani che sfregano la stoffa del cappotto alla ricerca di un granello di calore. Una di esse stringe un libro, il pollice e l’indice che impugnano il dorso sbiancando attorno all’unghia, e i polpastrelli rossi come se immersi in succo di lampone.

Si siede su una panchina, e comincia a leggere. Pagina dopo pagina, il freddo lo abbandona per rifugiarsi in altre lande desolate, forse nelle steppe del nord, o nei pressi di qualche baita scandinava, a gelare fra le volpi artiche e a sussurrare segreti alle miti alci. Gli occhi non guardano che la storia, la sua storia, e i passanti che scorrono davanti a lui sono solo una cornice appena percepita dalle iridi incantate. Una cornice d’autunno su cui scorrono anonime scene, fotografie in negativo. Una madre si ferma un attimo per aggiustare la copertina in pizzo e lana del suo bambino, infagottato in una carrozzella che fra un po’ sarà troppo piccola per lui, poi prosegue veloce per la sua breve camminata. Un nonno accompagna la nipote a dar da mangiare alle anatre e ai cigni in riva al lago artificiale, passeggiano lenti, lei aggrappata al suo braccio rinsecchito che a sua volta si sostiene a un bastone. Due innamorati mano nella mano, il lampo più fugace che l’occhio riesce a scorgere – fotogrammi di vita.

Il tempo è relativo, scorre, si ferma, poi riprende impetuoso, un orologio sincronizzato con il battito d’ali di una civetta. Il segnalibro è un rametto di mimosa raccolto la primavera prima, gli steli verdognoli sottili come fili di raso. Nei primi tempi, ogni tanto restava sulla carta una polverina giallognola dal sapore acre, e dal ricordo amabile.

Il tempo va. Le nubi in cielo si scuriscono, è un nastro argento che si trasforma in onice, lentamente, sfumando come un carboncino su tela, la mano imprecisa di un cieco pittore.

Lui si sfrega le mani sul jeans consunto, poggiando il romanzo sul resto della panchina vuota al suo fianco. Per quel che ne sa, è sempre rimasta così, senza nessun occupante se non lui, nell’angolo, a sedere nel minimo spazio in quel gelo di ferraglia verde. Si alza, esce dal giardinetto. Torna a casa, con l’animo un po’ più leggero, nonostante l’aria immobile dia l’impressione di una cappa pesante e opprimente.

Percorrendo la strada, su un marciapiede trova un colombo che prende subito il volo. Dall’alto, il parco pare un’oasi in una giungla di palazzi alti e grigi, la sua forma tondeggiante immersa nella solitudine della sera.

Ogni libro riflette i particolari della vita, ingloba la giovinezza terrena e la rende eterna. Deforma e incanta, persuade, insinua la sua lingua fra i paesi del pensiero. Un lettore è un cacciatore, l’autore un cacciato, preda delle sue stesse parole – armi e fucili dell’insaziabile immaginazione. La voce dell’anima, che viene a galla e rimanda alle vicissitudini dell’inconscio, gioca con i sentimenti. Uno, due, tre, stella! Vizio solitario, la lettura. E quando ti giri, vedi solo le foglie cadute e spostate dalla brezza passeggera che, impietosita, ha portato avanti qualche fronda. Ma è una giocatrice inesperta, non si ferma, o si ferma troppo presto, o sbaglia mira…

Uno specchio enorme che inghiotte chiunque, questo è un libro.

Questa mattina, l’acqua del laghetto è così. Piatta, incantevole superficie dai riverberi venati di azzurro cielo. Ogni tanto si vedono galleggiare briciole di pane, piccoli soli senza luce, che volteggiano e ritornano poi fra le profondità del lago.

Una donna, il cappuccio del giubbotto di cotone violetto calato sul volto, supera la polla d’acqua e percorre uno dei tanti vialetti in ghiaia. Il rumore dei suoi stivali fra le pietruzze è come lo spezzarsi di una tavoletta di cioccolato.

L’aria le si condensa a poco dal viso, tante nuvolette di nebbiolina leggera e umettata, il suo respiro che diventa palpabile e poi si scioglie di nuovo nel nulla dell’esistenza. Sotto le calze di nylon sente il freddo pungerle le gambe, ma non vi presta attenzione.

È presto, c’è poca gente a percorrere le strade del parco. I barboni hanno già lasciato le loro postazioni notturne, mentre gli spazzini hanno da poco completato il loro lavoro. È la fascia oraria in cui l’isolamento si fa più netto, in cui i pochi transitanti restano in un silenzio religioso, cauto. Il parco diventa un luogo quieto, ma venato di malinconia, un cimitero senza morti – i morti nell’anima, quelli inevitabili, quanti ne passano, quanti camminano ancora per ogni via e ogni goccia di vita.

Trova una panchina libera, all’ombra di un grande olmo. Un libro giace al suo fianco, sottile, la copertina in brossura sui toni dell’acquamarina, apparentemente dimenticato. Lei lo prende, lo apre, nonostante nella borsa di cuoio avesse con sé un altro romanzo che era intenzionata a leggere. Lo sfoglia con cura, e un ramo di mimosa le scivola in grembo, imbrattandole la gonna di polvere dorata – è la speranza, la fantasia, che le intinge le vesti di filigrana d’oro.

Usa una bandella della coperta per segnare la pagina da cui era sfuggita la frasca. Esce il suo libro dalla tracolla, schiude la facciata dove c’è il suo segnalibro. Un petalo di rosa essiccata, in passato di un rosa acceso, ma che col tempo ha perso gran parte del suo colore. Delicatamente, tiene in mano entrambi, quasi ponderando un pensiero nascosto e lontano, che però si sta facendo spazio nella sua mente e, come la corsa di una bambina, giunge a una conclusione avventata.

Decide di portare con sé il libro dimenticato. Lo infila nella borsa, di fretta, è una ladra, una ladra di storie. Invece lascia il suo sulla panchina, il suo libro profumato di fiori, carezzato come la tastiera di un pianoforte, la mano che ne percorre il dorso allo stesso modo del musicista, con cautela e passione.

Qualcosa le dice che lo troverà. Qualcuno, presto.

Pomeriggio. L’aria è cambiata.

Frizzante, animata, ha lo stesso sapore di mele e cannella di una lettura incompiuta. Si trascina in raffiche violente che cessano all’improvviso, la calma dell’occhio del ciclone – ti guardano, gli angeli, dall’alto delle nuvole, il respiro sospeso. Poi il soffio riprende, e ancora sconquassa gli alberi nei vortici di fogliame, ti getta addosso le memorie delle stagioni.

L’uomo tossisce. Alza gli occhi al cielo, e s’accorge che grumi scuri di nubi minacciano pioggia, a breve. Ha con sé un ombrello, nella tasca del paltò. Affretta il passo verso la sua panchina, implorando a mente che uno scherzo del destino abbia fatto in modo di preservare il suo libro. Magari sotto il ventre di una gatta, che vi si è seduta sopra, e che l’ha protetto dalle ingiurie del mondo. Oppure in un cerchio di folletti che l’hanno reso invisibile, fino al suo sperato arrivo.

Forse la mano di una giovane ne ha lisciato il risvolto, il guanto lilla ad avvolgere dita lunghe e affusolate.

Un libro c’è. Un romanzo in cartonato blu, la copertina tolta a darne un aspetto anonimo. Lui sfoglia le prime pagine per trovare l’occhiello, e sotto, inaspettatamente, trova una scritta a matita. Vergata con premura, imprigiona il suo sguardo più del titolo dell’opera: “Grazie!”

Le lettere sono affinate, curve, le vocali che sembrano parti di cerchi, il punto esclamativo un fiore con cinque petali, e una striscia cinerina per gambo. Sembra la scrittura di una donna.

Comincia a leggere, come è sua consuetudine, le spalle abbandonate sullo schienale freddo della panchina. Un giorno qualunque, un giorno d’ottobre che si ripete uguale, identico. Cambia il profumo della carta, ora dolciastro, cambia la data sul calendario. Ma il giorno è sempre lo stesso.

Dopo un po’, un petalo di rosa s’interpone alle pagine. È secco, delicato, pare potersi rompere al minimo tocco. Fra le venature, ci sono strati quasi trasparenti, appena rosati, fra le dita fruscia come lo scampolo di una tenda di seta.

Qualcuno, d’un tratto, interrompe il flusso di gente e d’ombre che lo attorniano di solito, e prende posto accanto a lui. È una ragazza, i capelli impregnati d’autunno, cinnamomo spruzzato di rame, che ricci le si attaccano al viso piacevolmente ambrato. Lei li discosta con un gesto lento della mano, e gli sorride.

Apre la borsa nera, e tira fuori un libro. Il suo libro. Fa per restituirglielo.

Lui la blocca, con un cenno tenero, il viso giovane passato da un bagliore di gioia che rimanda il sorriso. Uno scambio equo, la mia storia per la tua, il tuo segno di primavera per il mio, una reminiscenza alla volta. Lo stesso viale, gli stessi passi, che si sono incontrati in momenti diversi, sbiaditi sulla stessa ghiaia e le stesse foglie, forse più scure, forse più rovinate dal vento – lo stesso – l’aria – la stessa. I tempi, diversi, ma è il giorno che è uguale, e le coincidenze cambiano, viaggiano, la confusione rammenta… e il cuore, ricorda.

Comincia a piovere. I due si avvicinano, lui che la tiene al sicuro sotto il suo ombrello blu acciaio.

Piove cauto. Poche gocce alla volta, che s’uniscono fra le fronde dell’olmo, e poi ricadono in sorsi e flussi, campanelle che precipitano e risuonano, scontrandosi. Il mondo si trasforma in una macchia indistinta, flebile, dalle forme mutate, grondante di monotonia. O forse è la vista che s’offusca, e non riesce a vedere oltre, oltre questo loro piccolo universo, oltre la vita che ora si spande in un’isola di conforto.

Piove lieve. Il volto di lei affonda nel suo giubbotto, si poggia sulla spalla ad assaporare quel vago sentore di pino. Le lacrime si riversano dal cielo, non hanno fretta, sono gradevolmente amene, pure, una doccia fresca che lava via il male.

Piove lieto. Gli occhi di lui, cinerei, percorrono il suo volto, con calma, le labbra posate sulla sua chioma ondulata. Forse serve un po’ di tempo, un silenzio in più. Un giorno, i loro passi si confonderanno, uniti nello stesso destino. Ma, in fondo, oggi è un giorno qualunque. Solo un giorno qualunque.

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venerdì 26 novembre 2010

PostHeaderIcon Sentire

Dedicata a Fran, come premio (in lieve ritardo) del contest che ha vinto. Purtroppo non è delle mie migliori, mi scuso in anticipo…

(P.S.: sto lavorando sull’editing di un racconto, a breve posterò quello. Inoltre il Tyrsek subirà una pausa perché devo lavorare su una lunga fan-fiction natalizia ispirata a Merlin, e con cui spero di partecipare a un contest)

 

A Touch of Finland II

L’ululato distante

sulla cresta del mondo – graffiato -

fra strepitii di civette.

Par fuoco passione, calmante,

chiaro riaffiora dal fondo – lacero -

delle sterpaglie, fra lucide foglie.

Creatura, di tiglio, ginepro, amaranto

colore profumi, e un po’ di tormento.

 

Sei madre, mia lupa dal manto

argentino, che con una gelida luna – marmorea -

dai voce a un tiepido canto.

Più lieve, innalzi il tuo pianto

di cui disperan le fiere, dune – fasulle -

di sabbia, e rimembranze

serene, sei luce nel buio di stelle e di bosco

sei l’incanto, sei il sogno, ciò che conosco.

venerdì 12 novembre 2010

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo XIII

Bene, continuo.

Stavolta vi propongo un giochino. Ho bisogno di trovare un po’ uno schema in questo caos di informazioni, e sebbene stia facendo questo lavoro già per conto mio, d’altro canto mi serve il vostro aiuto. Allora: quali sono le domande che vi siete posti leggendo questi episodi? Quali sono le cose che vorreste sapere al più presto?

Vi pongo in specifico queste domande perché ho notato che, essendo una storia piuttosto complicata per i miei target, potrei finire col dare per scontato alcuni spunti lasciati qua e là, e quindi creare fastidiosi buchi neri nella trama. Spero vivamente nel vostro buonsenso ^^

Elynar era seduto sulla poltroncina della sala macchinari, i piedi poggiati su un tratto di scrivania scoperto. Aveva le mani poggiate dietro la nuca, un aspetto sereno che ben conciliava col sonno che pian piano si era impossessato delle sue membra. Oltre al ronzare degli strumenti, si sentiva solo il suo respiro rilassato, probabilmente perso in qualche dolce sogno.

D’improvviso però si riscosse, sentendo la presenza del Veggente alle sue spalle. Era entrato cercando di non far rumore, e si era appostato dietro al giovane, dando un’occhiata generale ai monitor delle telecamere di sorveglianza che sostavano sul tavolo di fronte. Il Luminare alzò gli occhi al contatto della mano dell’uomo che gli carezzava la guancia, liscia e priva di barba come quella di un bambino.

“Buonasera, capo.” Biascicò, bofonchiando di piacere.

“Svegliati, idiota.” Rispose il Veggente, e così facendo gli assestò un leggero schiaffo, sorridendo appena. I suoi canini brillarono sinistri nella penombra del locale. “Maledizione.” Aggiunse dopo un po’, lo sguardo che si adombrava, la bocca aperta in una smorfia di contrito stupore.

S’avvicinò ai piccoli schermi, chiudendo con forza i pugni.

“Cosa c’è?” chiese Elynar, appena preoccupato, quasi indifferente.

L’uomo non rispose, gli occhi puntati sulla figura femminile che si stava velocemente avvicinando all’uscita del grattacielo, passando da una visuale delle telecamere all’altra. Un mantello rovinato ne nascondeva a tratti le forme, una sacca di tela pendeva dalla spalla, assicurata come una tracolla da una semplice corda. Quindi la vista del Veggente si spostò sullo scorcio che si apriva sulla camera da letto di Kendra. Vuota, il letto sfatto, ogni oggetto personale scomparso.

Nel corridoio che portava agli Archivi, i faretti di luce erano ancora accesi.

Quando l’uomo si avviò quasi correndo verso il vano dell’ascensore, Elynar parve risvegliarsi dal tuo intontimento e realizzò in pochi istanti cosa stava accadendo. “Devo sguinzagliare la Sam-rjah?” domandò, noncurante.

“Non è un cane da tartufo, Elynar.”

 

Sentiva il petto bruciarle, come quando ai tempi dell’apprendistato nel Tempio si svegliava la mattina presto, e costretta dalle consorelle di grado più elevato, correva e esercitava il suo corpo ancora intorpidito dal sonno. Piccoli aculei che le si infilavano fra i seni, sempre la stessa sensazione di vago malessere, e quel respiro a scatti, talvolta troppo leggero, altre troppo violento, tanto da sconquassarle il viso con un rossore soffuso. Ma le gambe, sorrette dalla volontà, continuavano a correre, veloci, ostacolate dai tacchi che producevano quel rumore assordante e ignobile, e che la costringevano a rallentare, quando per caso sbagliava e inciampava, impantanandosi nel suo stesso mantello. L’agitazione rovina ogni idea di fuga, ne scuote le membra e fa risalire a galla ogni difetto o imprevisto.

Così come il dubbio che, come al solito, il Veggente fosse venuto a sapere fin troppo presto delle sue mosse, e che già ora fosse al suo inseguimento. Superò il portone in metallo che dava accesso al grattacielo con un sospiro trattenuto in gola. Per lei, Elynar e il Veggente era sempre aperto, attraverso il solito connubio fra scienza e magia, stavolta frutto di un’intensa collaborazione fra lei e il Luminare. Trappole per gli intrusi, libertà assoluta per loro tre. Quindi sorpasso il cancello con le alte grate in ferro, che agiva nella stessa maniera di riconoscimento personale, il filo spinato percorso dalla corrente in cima per dissuadere i malintenzionati, e finalmente concesse a quel sospiro di uscire. Libera. Per ora.

Un vento piuttosto insistente prese ad asciugarle le poche gocce di sudore dal viso. Il sentore di autunno era persistente nell’aria, il crepuscolo inoltrato che lasciava intendere come le giornate si stessero accorciando, e come le serate diventavano man mano più gelide.

Ma dove andare?

Il Tempio era il rifugio per le novelle, per le giovani, e non appropriava a quel luogo alcun principio di familiarità. Dei suoi parenti, nessuna traccia o ricordo, la madre un labile viso dai capelli neri e ricci, molto probabilmente confusa con la levatrice che l’accudì i primi tempi. No, il Tempio non faceva per lei, e in ogni caso le avrebbe chiuso i battenti prima che potesse anche solo chiedere asilo.

Non aveva casa, oltre quel palazzo angusto nella periferia della città dove aveva trascorso i suoi anni da dipendente del Veggente. Non aveva amici. In quel posto? Ma per favore. Gli amici erano l’ultima cosa che le sarebbe stata d’aiuto.

Il grattacielo si elevava austero su una collinetta, contornato da pochi, sparuti alberi malmessi. Non era poi così alto, rispetto a molti altri, ma data la sua posizione era possibile scorgere tutta la città che si srotolava ai suoi piedi. Era una sorta di faro ambiguo, piuttosto malandato dall’esterno, i vetri delle facciate sporchi e lerci, scuriti quasi volontariamente. Un occhio che guardava, pretendendo di non essere guardato. Kendra lasciò scorrere lo sguardo, quasi cercando affannata una direzione verso cui lanciarsi. Il tempo correva inesorabile, e la sua fu una sorta di ultima occhiata, una speranza di non vedere più il mondo attraverso quella prospettiva malsana. Restò immobile per un minuto circa, fuori sulla strada che scendeva dall’altura e s’inoltrava nel complesso urbano. Il respiro ancora lievemente affannato le si condensava nell’aria attorno. Si passò una mano sul viso per allontanare i capelli scarmigliati che continuavano ad andarle davanti agli occhi.

Nelle vicinanze c’erano le baracche dei poveri, costituite da normali palazzi con vani di scale bui e appartamenti dall’ampiezza di uno stanzino. Dopo il bombardamento, era la zona che sembrava aver subito meno mutamenti. Distrutta nell’animo fin dal principio, i crateri nell’asfalto e i palazzi dimezzati ne avevano portato alla luce il lato sfibrato e senza speranza, con le prostitute che si costringevano a vivere ancora in stanze che si affacciavano sul vuoto creato dai missili. Una vetrina sul dolore impossibile, dove le risate dei vecchi erano la derisione della gioventù rubata.

Era l’unica parte della città dove i detriti non erano ancora stati rimossi. Non si era nemmeno tentato di rimuoverli. Giacevano lì, proteggendo macerie e cadaveri. Fra essi, s’accampavano coloro a cui era stata sottratta dimora, tirando le lenzuola e le stoffe che spuntavano un po’ ovunque e creando con queste nuove e bizzarre tende.

In quella zona però sorgevano, come sempre, i soliti edifici intatti. Salvati miracolosamente da una mano altruista, lontana, una mano aliena che aveva calato le sue dita per proteggere i suoi figli dall’urto. Quella mano si chiamava Caso.

Uno di questi edifici era la Scuola Circense. Sviluppata su unico piano, era costituita da un ampio telone centrale e da cinque capanne più piccole, i colori prima vivaci ora resi oscuri dalla polvere e dalla sporcizia che continuava ad accumularsi da anni. Solo l’insegna, con luci al neon dagli schermi metà bruciati, riluceva a tratti intermittenti. Nel buio della notte non sarebbe stato possibile riconoscerne la scritta, che portava un nome semplicissimo, quello di Scuola Circense per l’appunto. Si era sempre pensato che non fosse necessario sostituire i faretti guasti. Tutti sapevano cosa avveniva lì dentro.

Kendra cominciò a discendere dalla collina, quasi correndo, la pendenza che le facilitava l’aumento di velocità. Finché non trovava le rovine del bombardamento a rallentarle il passo, tanto valeva approfittarne. All’incirca tre chilometri la distanziavano dalla Scuola.

domenica 7 novembre 2010

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo XII

Strano ma vero. Direi che il mostriciattolo di cui vi ho parlato ieri non mi dà ancora tregua. Non so quanto a lungo durerà, in effetti lo prendo come una sorta di esercizio per imparare a scrivere bene anche quando non ho ispirazione.

Infatti, come potete notare, non è che qui lo stile sia dei migliori… è che riesco a dare il meglio solo in certi casi, ovvero quando scrivo quelle scarse pagine che fanno il racconto mensile. Se mai volessi intraprendere una trama più lunga, da cui poterne trarre un romanzo, devo anche imparare a scrivere ogni giorno, e bene.

Perciò avete tutto il diritto di non leggere questi miei deliri ^^’

L’ascensore la portava nei piani interrati con una lentezza unica, spietata. Frattanto, Kendra batteva con il tacco degli stivali sul pavimento ricoperto da piastrelle in linoleum verdastro, superando con questo rumore ritmico anche lo strusciare delle corde, che sopra di lei lasciavano scivolare l’abitacolo nel basso. Finalmente i battenti in acciaio si aprirono, rivelando su un corridoio lungo e buio.

Kendra cominciò a camminare veloce, i faretti posti alle pareti che si accendevano al suo passare. I fasci di luce s’incrociavano formando particolari giochi di luci e ombre. Era la prima volta che la donna si dirigeva agli archivi, ma sapeva bene dove si trovassero e quindi accelerò il passo, decisa a far presto.

Prima non le sarebbe mai passato di mente di rinvangare le pratiche di quel posto, non ne aveva voglia, non ne valeva la pena. E poi, cosa mai poteva trovarci di tanto interessante? Solo scartoffie, quelle poche cose che Elynar non poteva tenere al sicuro nei suoi macchinari, forse fotocopie di documenti. Poco altro ci si aspettava da un luogo simile.

Ma ultimamente i suoi sospetti erano aumentati. Lavorava per il Veggente da due anni circa, e ancora non sapeva il suo nome. Un uomo giovane, attraente per quelle poche volte che concedeva agli altri la possibilità di vederlo senza un cappuccio calato sulla testa. Occhi enigmatici, indagatori. Un tipo laconico, soprattutto, e Kendra non sopportava il modo in cui pretendeva fiducia senza che gli altri lo conoscessero abbastanza per concedergliela. Fra loro non era mai corso buon sangue.

Finora i lavori che le erano stati commissionati erano pochi, concisi. Spesso lo accompagnava in viaggi stravaganti alla ricerca di strani manufatti, come era stato per l’impresa più recente su Keren’hir, tanto che a un certo punto si era quasi convinta che fosse un semplice cacciatore di tesori. Ma per quel che ne sapeva, non vendeva ciò che procurava, e le continue telefonate, i giri con cui si intratteneva… contatti che facevano supporre un impiego più importante, e forse anche meno onesto.

Capitava che sentisse, sussurrato, a mezza voce, quando credevano che non fosse nei paraggi, il nome di Gerda Blossom, il sindaco della Città. In verità udiva solo quell’epiteto, Gerda, come se fosse una persona vicina, un’amica, tanto che in fin dei conti poteva trattarsi di qualunque altra persona. Ma esistevano poi tante donne con quel nome e lo stesso sprezzo timoroso che vi si attaccava mentre lo si pronunciava? No, non proprio.

Quindi si era decisa. Doveva indagare. Giusto per curiosità, per divertirsi. E poi negli ultimi tempi le attenzioni morbose del Veggente nei suoi confronti erano diventate intollerabili. Un comportamento maniaco, ossessivo. Se non perveniva al più presto a informazioni interessanti, sarebbe fuggita. Che si cercasse un’altra Sacerdotessa, lei con lui aveva chiuso.

Arrivò davanti alla porta dell’archivio. Serrata, ovviamente. “Apriti, non ho voglia di perdere tempo.” Disse, accompagnando quelle battute inutili con la magia vera. Un segno tracciato con la mano nell’aria, e sentì il clangore della serratura che, accondiscendente, rispondeva al suo monito.

Spalancò l’anta, e si ritrovò in un ambiente rettangolare piuttosto piccolo, se confrontato con le altre stanze del grattacielo. Parte dell’aspetto angusto derivava anche dagli alti scaffali in metallo, muniti di cassetti con cartoncini scritti per la catalogazione in ordine alfabetico, e che affastellavano le pareti tutt’intorno e il centro della stanza, creando così stretti corridoi naturali. In un angolo, una piccola scrivania con una lampada da tavolo poggiata sopra, già accesa, e una sedia nera munita di rotelle.

Kendra cercò per prima cosa la V di Veggente. Gli occhi scrutavano per bene le file, percorrevano veloci i cartellini. Quindi, trovata le sezione giusta, s’inginocchiò e spalancò un cassetto rasente il pavimento, facendo stridere appena i cardini, i fogli che sbatacchiarono per l’onda d’urto. Credeva di trovare uno stanzone enorme letteralmente stipato di scartoffie, ma invece, anche se quello era il primo cassetto che apriva, non trovò che quattro o cinque cartelline di pochi fogli. Effettivamente, con la possibilità che avevano, attraverso Elynar, di conservare tutto su microchip e memorie tecnologiche, non era poi tanto stupefacente riconoscere che l’archivio scarseggiava di materiale.

In ogni caso fece presto a identificare che lì non c’era niente di ciò che le sarebbe piaciuto sapere, nessuna informazione sul Veggente. Con tutta probabilità era stato catalogato sotto un altro nome. Richiuse il tiretto con un colpo di tallone e si guardò attorno.

Di fronte a lei c’era la lettera S. Come Sacerdotessa… forse avrebbe trovato anche un fascicolo con tutti i suoi dati, chissà. Tanto valeva la pena dare un’occhiata.

Quel cassetto era più colmo degli altri. Trovò una strana cartellina piuttosto spessa, etichettata come “Sławomir”. Sembrava quasi un nome d’uomo. Kendra l’estrasse dal cassetto e l’aprì, incuriosita.

Sul primo foglio c’era appuntata con una graffetta una foto, piccola e rettangolare, che ritraeva un volto giovane e imbronciato, dei ciuffi castano scuro che ricadevano in una frangia scomposta sugli occhi neri. Occhi che non sembravano guardare il riflettore, ma che andavano oltre, l’iride dilatato in maniera inusuale. Non c’erano molti dubbi, si trattava del Veggente.

“Così è questo il tuo nome…” la donna lo riassaporò piano, nominandolo lentamente, un sorriso di compiacimento che le si apriva sul viso. “Sławomir… non male.” Poi proseguì nella lettura, concentrata, desiderosa di saperne di più.

Purtroppo molte informazioni le conosceva già, altre invece non le interessavano proprio. C’erano i documenti che gli intestavano la proprietà dell’intero palazzo, alcune fotocopie di spostamenti di denaro, una scheda per l’assoldamento di lei. Stranamente, non trovò quella di Elynar, nonostante fosse un Luminare e quindi avrebbe dovuto essere stato catalogato alla stessa maniera. Continuò a percorrere il fascicolo, girando le pagine nervosamente. Possibile non ci fosse nulla di un po’ più interessante? Nell’ultima pagina trovò un pezzo di carta appena stropicciata, a quadretti, strappata forse da un quaderno. Lo osservò con calma. Si trattava di una lista di nomi, e un titolo in stampatello sopra a tutti: Anti-Flag. Null’altro a spiegare cosa ciò significasse. La Sacerdotessa non perse tempo, richiuse di scatto il fascicolo e andò verso la A, immediatamente al fianco della scrivania, la mente che vagava cercando di ricordarsi se aveva mai sentito quel nome prima.

Non ci mise molto a trovarlo. Anti-Flag. Associazione libera antigovernativa. Avevano anche un logo, una stella in filo spinato rosso su cui spiccava la scritta bianca del nome, lo stesso carattere che di solito si usa per marcare le casse d’esplosivo. Ora il motivo del bombardamento prendeva una nuova forma, più crudele e spietata, inquietante. Se si trattava di un gruppo che combatteva contro il governo, allora perché uccidere tanti innocenti? Kendra aggrottò la fronte, preoccupata. Quando aveva chiesto al Veggente – no, a Sławomir – il motivo di tutto quel pandemonio che si andava organizzando, aveva sdegnato la sua domanda. “Obbedisci,” le aveva detto “in fondo sei o no alle mie dipendenze? O avresti preferito continuare a vagare con il peso di quel cadavere sulle spalle?”

Una minaccia. Il Veggente procedeva sempre a minacce. Un altro punto che la spingeva a cercarsi un altro lavoro, di certo più noioso, ma almeno sicuro.

Continuò a sfogliare il malloppo. Dentro vi scorse un nuovo elenco, che occupava almeno un centinaio di pagine, stavolta completo di nome, cognome, e una data affiancata da una croce. Talvolta il nome non era accompagnato da nessuna data. Persone uccise o, in alternativa, ancora da uccidere.

Fra essi, Kendra trovò quello di Gerda Blossom e, appena sotto, il suo.

sabato 6 novembre 2010

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo XI

06112010747

Il ritorno. Il grande, inatteso ritorno. Vi rimando qui, se siete nuovi e non conoscete i precedenti episodi, postati nel lontano 2009.

Non sono impazzita. O forse sì. Forse lo sono sempre stata, non saprei.

Comunque, se siete proprio curiosi di saperlo, un mostro mi ha rivoltato il cervello e mi ha costretto a continuare questa storia, attraverso uno stile semplice e lineare altrimenti da me definito prendingiro. Roba che scrivo solo per raccontare. Basta pensare allo stile, questa storia non ha mai preteso di farlo e mai lo farà.

P.S.: La foto d’inizio post dovevo metterla per forza. Sono io con un libro che ho tanto agognato, “The Tattoo Chronicles” di Kat Von D. Adorabile; fantastico.

I respiri affannati dei due e lo stridore delle armi ogni volta che si scontravano, i passi leggeri e veloci. Ombre sul pavimento lucido, e due figure che imbracciavano spade dal taglio affilato e dalla guardia semplice.

Una stanza ampia e vuota, degli armadi bianchi incassati nei muri candidi, nulla ad intralciare il passo. Una luce forte proveniente dal soffitto rendeva l’ambiente asettico, quasi simile ai lunghi corridoi di un ospedale.

“Non capisco perché Elynar se ne può stare tranquillo nella sua stanza, e invece io devo rimanere qui a stancarmi.” Kendra rispondeva affaticata ai colpi mirati del Veggente, vestita solo di un paio di pantaloni in pelle, un corpetto e degli stivali di cuoio. Aveva le spalle e le braccia completamente scoperte, i ricci sciolti che le coprivano parte della schiena. Piccole gocce di sudore le corrugavano la fronte, scivolando sul collo. Lo sguardo animato da uno sprezzo deciso, marcato sulle labbra increspate.

“Perché lui ha le sue armi, è già allenato e sa come cavarsela. In caso di pericolo, c’è bisogno che anche tu sappia resistere.”

“Io ho la magia dalla mia, e non è poco.” Ribatté la ragazza, inarcando la sopracciglia con fare orgoglioso.

“Ma non è ancora abbastanza.” E quasi come prova di ciò che disse, il Veggente incalzò ancora di più la compagna, costringendola a un angolo. Le stava per puntare la spada alla gola, quando lo squillare di un cellulare lo riscosse, vibrando nella tasca quasi implorante, ma egli esitò incerto al centro della sala.

“Su, rispondi.” Lo incitò Kendra, concedendogli un sorriso ambiguo, gli occhi che ammiccavano verso la tasca in cui sostava l’apparecchio.

Il Veggente abbassò l’arma, ma così facendo sorrise maliziosamente e per vendetta le lacerò i lacci del corpetto. Un colpo veloce e ben mirato, che tagliò i nastri di seta con facilità e precisione, stupendo la giovane. Lui si lasciò sfuggire una mezza risata compiaciuta, e si allontanò per rispondere alla chiamata. Lei gemette appena, ringhiando di rabbia, le braccia a coprirle il petto con quel che restava del bustino reciso. Sentì a stento l’uomo dire con tono duro, rivolto alla cornetta dell’apparecchio: “Chi è?”

 

“Chi è?”

“Nathaniel. Brutte notizie, signore.” La voce ovattata si confondeva con il ronzare di un elicottero.

“Quelle buone erano troppe, finora, non è così? E perché mai, dimmi, avete fatto partire il bombardamento così in anticipo?”

“Noi non abbiamo fatto nulla. È stata Gerda.”

“Bastarda…” sibilò il Veggente, piegando leggermente le labbra in una smorfia di odio e sconforto.

“Erano queste le brutte notizie.” Una pausa, un puro interrompersi a causa di un moto di paura improvviso. L’ira del Veggente incuteva timore a tutti. “Credo voglia precederci. Fa tutto quello che avremmo fatto noi, solo in anticipo.” Nathaniel tacque ancora, stavolta sperando che dall’altro capo del ricevitore provenisse una risposta. Invece vi fu solo il silenzio, finché con un ultimo sforzo non chiese, scoraggiato: “A che gioco sta giocando? Perché uccidere i nostri stessi nemici?”

In verità il Veggente aveva già una sua teoria, e avrebbe già risposto. Solo gli interessava conoscere i pareri dei suoi sottomessi, quando si arrischiavano a dire ciò che pensavano. In particolar modo se si trattava di importanti strateghi che nella maggior parte dei casi avevano buone teorie da esporre. Infine disse: “Per nascondere a noi stessi le sue vere intenzioni. Per non lasciarci la soddisfazione di marchiare il Male con il nostro nome.”

“Capo, come dobbiamo procedere?”

“Per ora nulla. Abbiamo tempo, in fondo.” E con questo la conversazione si concluse. Non ci furono commiati, non ce n’era il bisogno.

Il Veggente si voltò. Per tutto il tempo non aveva abbandonato la presa sulla spada. Tenerla in mano era confortante, e soprattutto vi era abituato. Oramai era come un prolungamento del suo braccio, palpitava dello stesso calore, a ritmo con il suo cuore deciso. Talvolta, senza prestarci caso, ne carezzava l’elsa liscia e anonima. Dolcemente, come tutti i guerrieri fanno prima di una battaglia, o rimirandone la lama splendente all’ombra di una candela che riusciva lo stesso a farne risplendere i contorni. Quella carezza era l’unica che il suo inconscio gli concedeva.

S’immaginava di trovare Kendra ancora a tremare di rabbia, mezza accucciata in terra. Non gli sarebbe dispiaciuto di affrontare la sua furia in un duello. Il fuoco che alimentava la donna dall’interno, quando scoppiava nella sua terribile fiamma, la rendeva invincibile, qualunque arma fosse stata costretta ad usare. Un combattimento con lei in quelle condizioni sarebbe stato davvero divertente.

Ma l’unica cosa che trovò fu il suo corpetto in pezzi che giaceva in terra. Lo raccolse lentamente. Era bello, ricamato con rose nere che sbocciavano sulle coppe per poi allungarsi fra spine morbide e foglie in pizzo sul busto, alcuni ciuffi ai bordi che ne ingentilivano il taglio semplice. Le stecche in metallo erano ancora tiepide del suo corpo. Sulla parete, una scritta luminescente, un graffito magico: “Stronzo!”

Dopotutto, era ancora arrabbiata.

lunedì 1 novembre 2010

PostHeaderIcon While Your Lips Are Still Red

Ecco a voi il racconto di Halloween. Sono in ritardo di un giorno, lo so bene. Ma per fortuna è ancora Ognissanti, perciò siamo pur sempre in tema ^^

Sappiate che non è colpa mia, io volevo postare già tempo fa, ma Vincenzo mi ha editato il racconto fino all’osso, facendomi riscrivere certe parti anche più di tre volte. Quindi, se ora non vi piace, e se non commentate in più di TRE individui, davvero lancio scintille.

Per altro, non ho avuto tempo di farlo nel primo pomeriggio perché oggi sono stata al vecchio cimitero della mia città. Non ci ero mai stata, di solito vado o al cimitero polacco o a quello nuovo di Matera, desolato, tutto a cassetti. Placidamente allegro nel suo cemento candido. Ho camminato un po', con il vento che mi sferzava il viso. Anche qui ci sono molte tombe a cassetti, con fazzoletti di terreno al centro occupati da tombe più serie. Niente emozioni, solo quel sentore di compostezza che t'impone la situazione.
Poi quel piccolo spazio basso, davvero un prato a forma di bambino, diviso per anni. 1997. Nata il 25.08.1997 - Morta il 25.08.1997. Lasciate che i bambini vengano a me.
Non ci sono foto, non ci sono mai. Solo cartellini, come quelli degli orti. Una rosa, forse... ma non sempre.
Mi sono fermata tanto tempo all'orto dei bambini. Erano docili, nel loro silenzio. Carini.

P.S.: la prima foto (quella qui sotto) è opera mia. Ritrae il cimitero in cui è ambientato il racconto, ovvero quello di Ćmińsk. Per le altre immagini, non sono molto soddisfatta. Ma fra un po’ rintocca la mezzanotte, e non credo sarei riuscita a trovare di meglio.

P.P.S: qui c’è la strega disegnata da Cry, che assomiglia in molto alla protagonista di questa storia. Trovate il disegno anche a fine post ;)

P.P.P.S: giuro, è l’ultimo. Il titolo è come sempre una canzone, da cui prende in parte ispirazione il racconto. Anche quello lo trovate a fine post u.u

Polonia 100

Trema il silenzio.

Una, due volte, s’offusca la vista. Due, tre volte, un gufo solca in volo i sepolcri.

Una, due volte, il vento sussurra: una, due volte, tace di nuovo.

E così il tempo trascorre, sbocciando nella notte fra ciclamini viola pallido e bacche di corbezzolo, fresco della sua natura sfuggente e imperscrutabile. Una luna imperlata di brina comincia a sorger nel cielo, piena, rorida di passione, a volte offuscata da nuvole sfilacciate e sparse come zucchero a velo. Oltre le nubi che fanno comparire qualche stella fra i loro trafori, nubi divorate da angeli di marmo, e oltre alla luna loro madre che impera là sopra, una candela accesa è l’unica luce che rischiara il cimitero. L’unica umana, contaminata, l’unica che si riversa come petrolio sulle chiome degli alberi e ne rischiara la corteccia scolata di resina, così come l’oro nero ne avrebbe oscurato i rami e il fogliame.

È un lucore tremulo, insistente ma cauto e forse anche un po’ tormentato, s’avvicina sempre più all’inferriata che delimita il camposanto. E arriva, quasi già preannunciato, il clangore del cancello che s’apre, un anelito d’accoglienza che contrasta con Loro che cercano di respingere colei che li usurpa. Nell’aria il profumo leggero delle foglie gelide si fa più intenso, un sapore che s’infila serpentino, per poi scomparire con una scia poco più che sospiro. E ancora, a qualche metro di distanza, si sente la frescura di una pioggia passata che rende morbido il terreno coperto d’autunno.

Il procedere della donna ora è l’archetto di un violino, forte e graffiante, deciso, le labbra che mormorano parole di antichi poeti e di romantiche poesie, ad accompagnare una musica che pare un canone inverso. La lingua si muove a creare suoni graffianti, una gaelica melodia dall’incedere caustico. O sono incantesimi? Incantesimi per legare gli spiriti fuori dalle loro tombe, poiché stanotte ciò è possibile, stanotte le loro bocche sanguineranno di nuovo, e i loro piedi potranno ancora camminare senza chiodi a perforarne il passo, o cappi a costringerli a un palo.

  Un sentiero tappezzato di foglie s’inerpica per tutta la triste necropoli, ai lati corridoi molesti mostrano lapidi immobili e fredde. Non un goccio di vita da dedicare ai morti, questa è la decisione del popolo, che stanotte non ha crisantemi da donare, né favole da raccontare agli spiritelli nascosti fra le fronde dei cipressi.

Dei sospiri increspano l’aria, sono le voci atone delle anime morte. Vagano fra la terra brulla del loro carcere ignaro, eterei, impalpabili. La donna li immagina, lì, seduti ognuno su del marmo freddo, ultima casa, ultimo terribile ristoro. E a un tratto li vede, sorridenti ad accarezzare – trapassare – i fiori secchi che li circondano. Tanti petali poggiati come una sindone, adagiati sulle bare a riscaldarle con teneri crepitii; privati del loro colore, terrei, reincarnano l’indifferenza dei visitatori saltuari. Gli spiriti osservano la ragazza, diffidenti, l’atmosfera tagliata da respiri gelidi. Quando passa fra le loro dimore, non allungano le mani per prenderla o toccarla, ma rimangono immobili. Ci sono donne, bambini. Non un vecchio. È il tratto di cimitero dei morti felici, dei morti giovani. C’è anche chi tiene in grembo piccoli involti come se fossero neonati in fasce, ma nelle braccia degli spettri non c’è nessuno da cullare, solo panni ripiegati con cura.

Lei prosegue, i suoi piedi che scorrono sulla ghiaia sovrastata dal fogliame putrido, che scricchiola e struscia, si lamenta sotto i suoi passi. Le anime scompaiono appena lei supera le loro tombe, affastellate le une sulle altre, un marasma confuso. Restano solo le foto, incrinate, con i vetri infranti, a ricordare come tante pallide ombre i defunti, a distinguere fra loro i mucchi di ossa. A smistare nomi senza più identità.

Ogni singolo crocifisso sanguina gocce vermiglie immobili in eterno sulla stessa caviglia, il taglio nel costato solo un luogo dove s’accumula polvere e sporcizia. Gli occhi perennemente socchiusi, le labbra sospiranti miracoli insinceri. Vivi, vivete! Sembrano urlare. Non attentate al simulacro che di voi si fa beffe, e ogni giorno spira sempre più all’inafferrabile Alto.

Come se fosse facile.

Una, due volte, gli spiriti tentano d’assicurare il richiamo: una, due volte, si fallisce e si riprova invano.

Lei arriva sulla sommità della collina, laddove le ultime tombe si confondono con una macchia boscosa. S’accoccola come un gatto randagio fra le braccia aperte di una statua d’angelo seduto, abbandonando la candela ai suoi piedi. L’angelo piange una lacrima sconsolata che le bagna i capelli color cannella, ma le sue mani, aperte ad accogliere gli sprovveduti, ghiacciate, martoriate dal muschio, non possono rifuggire all’abbraccio di morte che lei gli concede. Le vesti della donna sono nere come il carbone, nel carbone sembrano esser state intinte e poi immerse in una vernice vermiglia, che riga il tessuto come diluvi scagliati su un vetro appannato. La seta dell’ampia gonna fa da coperta alla pietra, il petto poggiato sul cuore di gesso dell’angelo, quasi ad affogarvi dentro la solitudine, cercando un rifugio nella fermezza divina. La testa giace sull’incavo fra la spalla e il collo, laddove la pietra è levigata e piana, accogliente.

Un tremolio scuote le spalle della strega, forse un singulto trattenuto che si perde nella pelliccia di lupo che le fa da mantella. Il pelo, bianco ai bordi e di un grigio argento al centro, è liscio e morbido, fra il manto sono imprigionate lacrime amare di un passato nascosto. E ora anche la donna piange, una pioggia di scintille dorate impresse nell’acqua che ne dipinge le guance arrossate, e ne fa concime per cascate copiose e terribilmente silenti. Non uno scrosciare che interrompa la quiete, solo il tremore d’anime, e la sensazione di non esser più soli. Né lei, né Loro, e né colui che s’appresta a cingerla in un nuovo fervore.

  E anche il pianto si calma, il legame si scioglie, pian piano le mani di lei abbandonano il collo dell’angelo e si riposano in grembo.

TwilightUna folata di vento è la rabbia degli spiriti che si scatena, improvvisa. Tu, impura… va’ via, lasciaci in pace. È lieve, qui tutto è attutito, forse dalle foglie d’autunno, forse dal respiro di Dio, che dà fiato a tutti Loro. Ed è quella folata, portata da lontano, l’unione di tanti respiri, a spegnere la candela della strega, accentuata da un lento sfrigolio e dall’ultima intensa fiammata. Il fumo si disperde, vola in alto a ricongiungersi con le nuvole, è un’organza che si stende e s’avviluppa su se stessa, decretando il termine di un gioco, di un sapore, di un atteso ritorno.

Si dice che chi provi ira sappia anche amare… e la donna sa amare, di questo ne è certa. In una maniera scontata, in una maniera mortale, ma è pur sempre amore, si dice, avvolgendosi un po’ più stretta nella pelliccia di lupo che le copre le spalle.

Tira lentamente degli oggetti fuori da una sacca di tela nera che porta a tracolla: polveri colorate costrette in ampolle dal collo sottile, una scatola di fiammiferi, del velluto blu notte che nasconde un cartoccio di rune. Con una indolenza studiata, ammucchia dei rami e accende un flebile fuoco alla base dell’angelo, che indaga tutto dall’alto, e approva, o forse no. La candela giace dimentica poco più in là, supina in terra, scruta e invidia la nuova e folgorante luce. La vampa che si scatena dal falò oscilla fortemente, è un guizzo nell’oscurità che danza su note solo sue. La strega attornia le rune intorno al piccolo rogo, in un cerchio magico, quindi apre le fiale, una a una, e ne riversa sopra spolverate rase del loro mistico contenuto.

Gesti nati da un egoismo dolente. La luna, il trentuno di ottobre, cala come un sipario sul senno del popolo, lo rende più ardito e avventato, trascina con sé anche un po’ di speranza da spargere assieme alla sua polvere di stelle. Ed è investita, la donna, da questo pulviscolo nuovo, che rianima e concede l’iniziativa di combattere, almeno una volta, il non lieto sapore di un futuro da trascorrere soli. Forse qualcuno resusciterà solo per lei. Se non sbaglierà, uno spirito allevierà il suo sconforto, e la solitudine sarà l’unica, stanotte, a morire.

È un sortilegio angosciato che nasce da un disperato affannarsi.

Una, due volte, del nero di morte. Due, tre volte, dell’acquasanta di vita.

Una, due volte, un rosso per riaccendere la passione: una, due volte, la fiamma a ritmo sfavilla.

Un ricordo di ghiacci lontani, un ricordo d’albore e di vecchia sevizia. Una baita in Siberia, in una Russia tinteggiata di rosso, una Russia dipinta col sangue sparso fra le nevi e pronto a macchiarne il candore. Ogni goccia lascia un solco leggero, il liquido caldo ne scioglie sempre un tratto, un rivolo che si costruisce il suo letto in un canale incavato, simile in tutto e per tutto ai fiumi che percorrono le steppe d’oriente. Il gelido inverno, quasi incessante, è come una dolcezza in cui cullarsi ogni notte: il bianco è la luce dell’anima, la corteccia nera degli alberi e delle case è un graffito fatto con il carboncino da una mano esperta, e delinea i contorni altrimenti impercettibili di un paesaggio da sogno, dove orsi e volpi polari si rincorrono fra dune e calanchi in cui si sprofonda come in un mare di bolle. Lì c’è una pace diversa, perenne e ospitale, dove il sole ogni tanto riesce a perforare le nuvole cariche di neve e ti accarezza con un calore insolito, timido e appagante al tempo stesso. Ma c’è sempre qualcuno che, ovunque ci si vada a rifugiare o a nascondere, come pavidi esseri trasportati dal vento, è in grado di scovare la creatura che cerca, e interrompere qualsiasi parvenza d’armonia e d’intesa.

Il sapore di uno sparo sa di morte già prima che colpisca e uccida, è l’intento che s’incanala nella canna di un fucile e ne putrefà le membra. Un veleno maligno che s’infila nel proiettile e ne infuoca il fulcro, il fumo della follia concentrata di un cacciatore che nomina preda. Un singolo sparo, indirizzato troppo bene, troppo mirato, la lingua del diavolo scaraventata nel mondo terreno per perforare un corpo e, al contempo, far esplodere due cuori. Tra le fronde, la sagoma dell’assassino scompare, solo il suo ghigno resta impresso nell’aria. Una brezza crudele trascina quella risata funebre fino a una piccola baita, addormentata nella quiete del bosco, illuminata appena dai raggi argentei di una luna piena e grande nel cielo.

Un lupo vi si avvicina. Zoppica appena, uno squarcio sul petto macchia il manto di carminio, intriso di rose rosse che sbocciano e appassiscono, colando i loro petali sulla neve. Un pegno d’amore che si spegne nel crepuscolo calmo, spirando fra l’ombra e l’ignoto, ridiventando nell’anima un’ultima volta umano.

Un urlo risuona lugubre come un ululato alla luna.

Una, due volte, un coltello taglia quelle carni: una, due volte, la Morte pare afferrare la strega.

Una pelliccia, ecco quello che di lui le restava, colui che aveva amato, e che segretamente ancora ama.

L’incantesimo è ormai concluso. Diversi eoni sono comparsi dal nulla, immersi nel loro fioco bagliore azzurrino, piccoli globi che seguono la scena da lontano come lampade di carta di riso ad un capodanno cinese. Sembrano quasi le onde di un oceano tranquillo, onde sfiorate da un sole mattutino caldo e rasserenante, onde sotto cui si cela il mistero di innumerevoli vite. La quiete si porta via anche l’ultimo rancore, l’ultima reminiscenza scompare. Quel che è stato è stato, una strega ha il dovere di dimenticare. Ed ecco nel mentre che alcune raffiche fanno vibrare l’aria, una figura prende consistenza, diventa appena più percettibile, uno spirito appare rispondendo all’appello della magia.

Questa notte, sa di essere mortale anche Lui. Questa notte, danzerà per lei, perché per lei è importante. Questa notte non c’è spazio per indecisioni o questioni refrattarie. La luna è complice e veglierà tenera su ogni nuovo evento e su ogni nuovo amore. Ha labbra rosse, la donna, rosse come i ribes o una rosa, rosse come il sangue. E i suoi occhi sono scaglie d’oro disperse in una laguna, i capelli cannella schiarita da vaniglia mielata e suadente. Il violino, dal nulla, ricomincia a suonare, solo per loro, solo per ora. E le mani dei due finalmente si toccano, le dita s’intrecciano come viticci, in una disperata richiesta di non potersi più staccare l’una dall’altra.

La passione è qualcosa di strano, d’inconcepibile. Persuade, concede, e poi ritrae il tutto, una marea svampita che non si preoccupa per nulla delle conchiglie che lascerà sulla spiaggia. La passione rende deboli, perché fa credere d’essere invincibili, quando è solo l’unione dei corpi che permette d’offuscare i sensi. Ma nessuno potrebbe mai evitare di cedervi, poiché il piacere, la dolcezza che trascina con sé sono figlie divine di una madre irresistibile. Venere socchiude gli occhi e sospira, preparandosi ad un nuovo spettacolo. Le ninfe, accalcate sugli spalti, si scambiano un calice di vino con la dea, e bisbigliano portandosi una mano davanti alla bocca. Il rossetto è sbiadito, sbavato, ha lasciato la sua impronta venata sul bicchiere. L’ubriachezza dei senni perduti.

«Danzerò con te» sussurra lo spirito.

«Ma stiamo già danzando».

«Ogni notte. Promettimi che danzerai con me ogni notte» Giura. Fra un ricciolo che le ricade sul viso, vicino all’orecchio sinistro, compare la preghiera. Persuasiva e implorante, s’infiltra nella mente di lei come un nastro d’argento.

«Non posso». Ho già infranto una promessa, più antica, più vera. La delusione di Lui è percepibile, ogni sua emozione è in verità manifestata dalla natura, poiché da essa egli trae forza. Assieme alla tristezza, germoglia anche un po’ dell’ira di prima. Com’era? Chi prova rabbia sa anche amare… e lo spirito sa amare, di questo ne è certo.

Danzano ancora, in un cerchio lento, attorno al fuoco che ora brilla d’arcobaleno. È una danza posseduta, infaticabile, in cui si sente permeare un incanto senza età né luogo, una magia che proviene da un oriente sconosciuto e che ad esso preme di tornare, facendosi ad ogni attimo più debole, più stanca. Lui interrompe per primo quel vorticare anomalo, e cerca di condurla oltre la collina, laddove, fra aceri giapponesi dalle foglie amaranto e betulle sottili come mani scheletriche, s’inerpica un piccolo e stretto torrente. Lei lo segue, ammaliata: il suo cuore, un tempo spezzato, ha ripreso a battere come quello dello spirito, forte, ritemprato a nuova vita.

Arrivati al ruscello, si siedono l’una affianco all’altro, vicini alla riva. Guardano il fiume, assorti. Nell’acqua sono spuntate delle magnolie bianche, il cui centro risplende di giallo come se fossero tante capocchie di candele, o lucciole che per caso hanno deciso di posarsi tutte lì nello stesso fatale istante.

Il corpo della donna comincia a venir scosso da brividi di freddo, la pelliccia di lupo le è scivolata dalle spalle mentre percorrevano il sentiero fra gli alberi, rimasta forse impigliata fra qualche ramo più audace. Abbandonata lontano, dimenticata. Lui l’abbraccia, in un istinto primordiale, immemore del fatto che non ha più calore con sé da offrire, non è che una mantella bucata e sdrucita, incapace di scaldarsi anche di fronte a un incendio. Ma, forse, la sua passione è più accesa di qualsiasi fuoco, e basterà da sola a contrastare ogni ostacolo. Così sospira di nuovo al vento: «Resterai con me?»

«Come posso…».

Le parole sono fatue in un ardore fatto di silenzi. La risposta è dipinta fra gli eoni che taciturni li hanno seguiti, la stessa luna lo suggerisce col suo volto tumefatto dagli innamoramenti andati e smarriti. Le loro labbra quindi s’avvicinano, impaurite, si ritraggono per poi cercarsi ancora. Non c’è contatto; è mai possibile che morte e vita non possano davvero più risorgere insieme? Lo stesso Orfeo perse la sua Euridice.

«Baciami, finché le mie labbra sono ancora rosse». Baciami, finché l’alba non sorge. Un pallido rosa, sull’est, comincia a rischiarare il mondo, ignaro di significare, per stavolta, una fine invece che un nuovo inizio.

Seduti sulla riva del peccato, dicono insieme addio alle maschere del destino.

Una, due volte, le loro lingue si toccano. Due, tre volte, l’anima di lei si smarrisce.

Una, due volte, il fuoco dell’incantesimo ghiaccia: una, due volte, si rompe come uno specchio, infrangendo ogni tenue speranza.

Lontano, si sente l’ululare di un lupo.

martedì 26 ottobre 2010

PostHeaderIcon Sarnek.

Sarnek

Io amo quest’uomo.

E qui la meravigliosa versione colorata che ha fatto la mia amica:


mercoledì 13 ottobre 2010

PostHeaderIcon Ragazza Eroina

Come promesso.

NdA: le citazioni provengono dalla canzone “Ciao Amore Ciao” di Luigi Tenco.

Il furgone sobbalza lievemente quando incontra l’asfalto rialzato che conduce allo spiazzo riservato al circo. È sembrato un piccolo gradino, come di quelli che i leoni salgono per arrivare sul piedistallo, invogliati dalla frusta nera e lucente del domatore, un segno, una salita che ogni volta ci avvisa che siamo arrivati. Le gomme della vettura gemono, avvilite, e già comincia a levarsi quel pulviscolo di terreno sbriciolato e riarso, laddove il bitume sfuma nella rena ondulata su cui si scorgono le orme di cani randagi e forse di qualche gatto sperduto. Quasi contemporaneamente al botto, si ode il malinconico tintinnare dei pendenti, acchiappasogni scintillanti, rosari rovinati dall’usura che ticchettano pendendo a mucchio dallo specchietto retrovisore, fili di perline usati per adornare i capelli delle ballerine, poi anche gonne intinte di dischi dorati e specchietti come quelle indossate dalle donne degli harem arabi, piume che sferragliano fra loro come se fossero ancora attaccate alle ali possenti di un uccello. Così ad ogni tenero saltello dell’auto, un’armonia di suoni che combatte l’ironia del chiasso. Fra loro, c’è anche lo scampanellio delle mie ciglia percosse dal vento che proviene nelle vesti di una brezza leggera dal finestrino spalancato.

Oh, non che i miei occhi siano diamanti pronti a squillare, o che siano preziosi a causa di qualche mascara velato di trucco. No, queste malie sono riservate alla scena. Ma è quel suono che odi solo tu, quel picchiettio che si confonderebbe con il rumore di una goccia di pioggia caduta a casaccio fra foglie e catrame: silenzioso, sottile, ma che tu riesci a sentire in una chiarezza plateale. E oggi, che il vento ulula più forte di quanto pensassi per portare con sé la nuova stagione a lungo nascosta, oggi sento le palpebre sbattere già liete, lì a rischiarar la vista, quasi un gesto di scaramanzia contro le ingiurie del popolo.

Il motore intanto si spegne, e la compagnia scende. Sette circa per ogni macchina, stipati come biscotti su un piattino della merenda, di quelli che i bambini riempiono finché non cominciano già a cadere o a sbordare pericolosamente. Dietro, i furgoni con gli animali ci seguono, pezzi di una nostra carovana che anni addietro sarebbe potuta benissimo essere composta da carri cigolanti e cavalli stanchi, e che ora si ammoderna con camion e camper dipinti di colori accesi. Concordi, si appostano in fondo al vasto piazzale, sparsi a semicerchio, l’uno affianco all’altro quasi a tenersi tacitamente per mano. Una barriera per proteggere non so che, forse i nostri timidi segreti, per noi tanto importanti.

Solo durante il viaggio si assapora la calma della vita. Me ne rendo conto quando poggio piede sulla terra che ci ospiterà ancora, stranieri in un mondo straniero a se stesso: seppur parlanti la stessa lingua biascicata e dialettale, comunque sempre fuori posto, e già si preannuncia il viavai e l’appostarsi del temporaneo accampamento, l’eccitazione del circo che comincia ad espandersi come un profumo alla menta versato sul tuo caro tappeto persiano. Prima però, nelle ore in cui ti ritrovi intrufolato in quel pacco a sorpresa da cui escono le mirabolanti magie tanto decantate dai manifesti, in mezzo ai giramenti di testa per l’aria asfissiante, gli incensi decisi della divinatrice (l’unica che non riesce mai ad abbandonare la sua veste di megera bugiarda), il fumo di sigaretta più serio del banditore che guida anche la nostra casetta ambulante, fra tutto ciò che è ormai abitudine, noi anime prendiamo pausa da allenamenti ed esibizioni, ci sediamo a leggere un libro, dormiamo, magari ci lanciamo patatine sciapite di un pacchetto aperto la settimana prima. Uno dei pochi che ci possiamo permettere. In quei momenti c’è quella che molti chiamano noia, ma che io definirei vera vita, come quella che vedi scorgere e passare fuori dal finestrino, che a volte copri anche con una tenda scura e un po’ sdrucita, giusto per sfuggire all’invidia della normalità.

“La solita strada, bianca come il sale
il grano da crescere, i campi da arare…”

Ora i miei stivali di camoscio marrone calpestano l’altrettanto scuro terreno, mentre assaporo nell’aria la frescura dei paesi del nord. So che ho poco tempo per sentire questo odore, appena cominceremo a mettere su il tendone tutto sparirà nel più consueto ricordo di frutti esotici misto a segatura calda e polvere di biacca. Ma intanto godo il freddo che s’infiltra dalla mia giacca usata e mi costringe a stringermela addosso, le mani ficcate nelle tasche bucate all’angolo. È solo il 13 ottobre, ma si gela.

Di solito in questa prima fase, quando i furgoni visionari si aprono per partorire fra spasimi le loro promesse inconsuete, le donne non vengono incluse. Sono d’impiccio, lì a creare le basi del sogno, a impiantare pesanti chiodi a suon di martellate, o a tirare corde pesanti e spesse con l’aiuto degli elefanti. Una donna da circo potrebbe stupirti con le sue acrobazie, con il modo in cui veleggia nell’aria, o semplicemente con il tocco delle sue dita che paiono scorgere all’interno del cuore. Ma no, qui, ora che l’incanto davvero comincia, sono gli uomini realisti a costruire il castello: noi entriamo solo una volta che la fantasia è già stata approntata, noi siamo le pedine, le attrici, coloro che scendono da nubi di brillantina per orchestrare la scena, ma che in fondo da sole non saprebbero comporre una nota.

Le ballerine e le contorsioniste stanno già ripetendo i numeri per domani, o comunque sfilano fuori i cerchi e i costumi da valigie e cassapanche, chiacchierano, improvvisano mosse davanti alle compagne che le consigliano attente. Le più vecchie accendono i fuochi per la cena.

E io?

“Andare via lontano
a cercare un altro mondo
dire addio al cortile,
andarsene sognando.”

Oh, no. Magari solo potessi… ma non posso. Domani c’è lo spettacolo, devo presentare i numeri, sorridere alle madri sconsolate e carezzare i bimbi pestiferi, ignorare le mani degli uomini che passano lì per caso e che innocentemente ti sfiorano. E devo ballare.

Le luci sono sempre un po’ così, durante la rappresentazione d’apertura. Terribilmente feroci, squarciano il cielo della sera, sembrano saper oltrepassare le nuvole grigiastre come coltelli affilati, e poi su, più veloci, solo leggermente più lievi e sbiadite, ma che lo stesso tentano d’inviare il loro richiamo agli angeli della volta celeste. Talvolta mi chiedo se le stelle le invidiano.

Ma in fondo sono una di loro, no? Banale fra tante, brillo della luce che riesco a dare, mi accontento delle attenzioni che ricevo. Una piccola stella rinchiusa in se stessa. I miei bagliori azzurrini sono più suadenti dell’invadenza dei neon del circo, ma paiono comunque assuefatti dal loro accendersi e spegnersi, un’intermittenza venata d’astuzia e che soffoca il suo rauco sibilo di stanchezza nella confusione generale. In verità dovrei ignorarle, e continuare a distribuire volantini come ho fatto per tutto il giorno, e come domani continuerò a fare. Troppi pensieri.

Guardo una locandina che giace spiegazzata ai miei piedi. Ne avranno buttate già a centinaia. Se solo avessero la decenza di non appallottolarle, di non rovinarle in questo modo spietato, potrei raccoglierle tutte e ridarle, magari alla stessa persona che le aveva ripudiate, così da evitare inutili sprechi. Inutili come il mio ipocrita moralismo, d’altronde.

Ma intanto penso che danno colore ai marciapiedi grigi e spenti, con le mattonelle che come al solito sono quasi tutte crepate e a cui spesso manca un angolo, come un quadrato di cioccolata al latte a cui viene dato un morso veloce, e che poi per errore cade a terra e viene blandamente dimenticato. I volantini hanno uno sfondo blu chiaro, contornato da palline colorate, sul retro i nomi dei vari animali che si esibiranno (e no, noi, più animali di loro, non ci troviamo fra serpenti e cammelli), sul davanti il nome che spicca sfacciato: “The Zen Circus”, il circo dei sogni! Infranti. Sogni accumulati negli anni che sono ancora tutti qua, in fila, domino ingrato e scheggiato dal tempo.

“E poi mille strade grigie come il fumo
in un mondo di luci sentirsi nessuno.”

Va bene, fra pochi minuti dovrei essere in scena. Lascio da parte i plichi di manifesti, poggiandoli sulla scrivania consunta del bigliettaio, rispondendo con un sorriso forzato al suo occhiolino di complicità. Prima c’era una buona fila ad attendere il proprio biglietto, perciò m’immagino già il tendone ricolmo. Quindi vado dietro le quinte a cambiarmi, con calma, senza fretta. So che gli applausi sanno colmare ogni attesa, e in fondo c’è sempre il clown pronto a fare le sue entrate, secondo il pubblico premeditate, secondo noi il miracolo che ci salva dai buchi che creerebbero i continui inconvenienti delle varie esibizioni.

  Qui l’atmosfera è ovattata, il disordine del cast in preparazione viene sobillato in dei sussurri concitati, l’agitazione ce la si leva di dosso con una sicura scrollata di spalle. Il mio vestito di organza rossa mi aspetta, poggiato su una sedia senza troppa cura. Il lato positivo di venire vestita di veli, è che non devi mai preoccuparti di stirare quel poco di stoffa che avrai addosso. Il corpo teso saprà levare le scarse pieghe reduci dai lavaggi continui, e l’occhio del pubblico andrà oltre, come fa sempre. Giusto alcuni attimi, uno specchio in cui osservo il mio volto diventare serio, concentrato, le guance cosparse di brillantini dorati, gli occhi più neri che mai e che sprizzano fulmini vermigli sulle palpebre. I capelli castano scuro sono tirati a formare un anonimo chignon. Chiamateci danzatrici, chiamateci anche solo persone che cercano un lavoro, ma credo che tutte le ballerine, prima di farsi vedere dagli spettatori fuori dal sipario, si sentano come se debbano debuttare all’opera. E quell’aspetto incredibilmente grave, il palpito profondo del cuore, il respiro che quasi è già affannato, sono i sintomi di qualcosa che svanirà subito, assieme alla musica che attacca e al tuo corpo che comincia a muoversi al ritmo di essa.

Non so ballare, non ho mai avuto un’insegnante o altro, né seguito corsi particolari. Sono nata in un circo, e vi ho vissuto facendo ciò verso cui ero più portata, mischiando lo scuotersi degli arti che mi suggeriva l’animo con qualche contorsione appresa dalle mie compagne di vita. Una cosa però è certa: ora che il clamore del battito di mani si è attenuato, ora che io non sento più nulla oltre alle note un po’ distorte che provengono dagli amplificatori otturati da polvere e vecchia segatura, ora che sono sola sotto una miriade di luci che paiono stelle cadenti, mi sento più bella, migliore. Ne sono convinta: qui, aggrappata al telo sottile di candido cotone, bianco come lo strascico di una nuvola primaverile, a mezz’aria, sono splendida, meravigliosa. Un’eroina nel mio mondo d’incanti.

“Saltare cent'anni in un giorno solo,
dai carri dei campi
agli aerei nel cielo.”

E infine una stupenda sorpresa: per caso, lo stesso giorno in cui ho scritto il racconto, Cry (qui la sua gallery su DeviantArt) stava disegnando una ballerina.

L’ha colorata di rosso.

E con quelle pennellate decise, posso dire che lei ha davvero preso vita…

ballerinaperfrancy

domenica 10 ottobre 2010

PostHeaderIcon Close To The Flame

Sono tornata. Dopo tanto tempo che forse anch’io un po’ mi stupisco. E torno proprio con un racconto del mio caro progetto, uno di quelli che in verità ho abbozzato quasi un mese fa, e che trovo il coraggio di pubblicare solo ora (ecco il motivo dell’ambientazione prettamente estiva). Anche se più che altro mi pare una scusa banale per giustificare la mia scarsità di scritti, per ripigliare un foglio dal fondo del cassetto e proporlo come una novità. Per dire che non sto con le mani nelle mani a far nulla e a lasciarmi trascinare dal vento, come invece è e forse continuerà ad essere. Ma no, mi ribello, perché in fondo… proprio in fondo, là dove la luce scarseggia ad arrivare, là dove in pochi osano guardare… c’è un racconto che aspetta di essere pubblicato. Non una meraviglia, certo, ma forse uno spiraglio di rinascita. La mia rinascita per continuare bene, e in meglio.

Perciò il vero racconto lo lascio al 13 Ottobre, poiché è una bella data, una data da ricordare, la data in cui la storia s’ambienta. Ok, un modo come un altro per dire che il vero motivo ve lo terrò nascosto. In ogni caso, oggi vi parlerò di un addio. Una sorta di gesto scaramantico per autoconvincermi che la mia storia, la mia vita, non ne subirà uno altrettanto.

Il piede spinge sull’acceleratore, nervoso. L’auto fa un nuovo scatto in avanti, aumenta la velocità, e il motore quasi ruggisce. Ormai non è che una macchia rossa, veloce e inquietante, possente. Infiammata della stessa rabbia che drasticamente consuma… macinando leghe su leghe, scappando da non si sa cosa.

Ancora più rapidi, ancora più lesti su questa strada vuota: energia, nient’altro freme nel corpo, e che brucia ogni dolore che s’incastra fra gli inganni del cuore. Affianco, il paesaggio scorre sempre uguale, con monti rossastri che s’intravedono all’orizzonte come calici da cognac rivoltati, con le loro sfumature ramate che incantano e quasi si cullano, mobili, vorticanti e irrequiete. Erbacce e piante grasse spuntano qua e là sul terreno brullo e scarno, rosso come il sole che sopra a tutto infuoca il deserto. L’essere soli è una sensazione strana che rende padroni del mondo, padroni della propria solitudine senza confini, è il musicare inquieto dell’animo che vaga libero da catene. Un animo in fuga.

Il limite fra terra e asfalto è labile, quasi inesistente, con i granelli sottili che sfumano nel grigio pietra, a volte spingendosi quasi fino al centro della via che, unica, s’inerpica sfacciatamente dritta nella desolazione. In fondo, compare un cielo terso e di un azzurro velato, dall’aspetto indeciso e lontano, quasi malsano. Sembra solcato da crepe giallo limone, fulmini diurni che sanno tanto di allucinazioni instabili, riflessi di uno spirito indiano. L’aria fa vibrare tutto, tramortente come onde sonore gettate dalle casse di un concerto, passionale come un nastro mosso da una ballerina. Agita i contorni come fossero sassolini durante un terremoto feroce, che s’incontrano e si staccano, e tremano impauriti schioccando fra loro.

La vista quasi s’offusca, coperta dagli occhiali da sole, neri e impenetrabili, che cercano di nascondere uno sguardo sconfortato e debole. Una goccia di sudore cola dall’occhio, sembra quasi una lacrima salata baciata dal sole; mentre si fa strada sulla guancia, viene spinta e schiacciata dal vento che ne frammenta il percorso.

Non se l’asciuga. Le mani sono ancora ben strette sul volante, le dita massicce ogni tanto si aprono e si stendono per sgranchirsi lentamente, senza però lasciare la presa salda. Forse un brivido appena le scuote, il singulto represso di un tormento ghiacciato che non vuole saperne di sciogliersi. La pelle abbronzata risalta al tocco del sole cocente, che con i suoi raggi scivola giù per il collo, insinuandosi sul petto che mostra la camicia nera e sbottonata, sensuale. Le gambe, strette in dei jeans chiari, si muovono al ritmo di una canzone veloce. Ogni tanto il segnale si blocca, si fa oscuro, la radio non prende bene. Delle interferenze lanciano melodie nuove d’altre stazioni, poi tornano al solito riff di chitarra elettrica, più potente di prima, liberatorio e selvaggio. Ma la gamba continua a tenere il ritmo, costante, quasi le orecchie dell’uomo sentissero ancora il riverbero della musica ora interrotta, ora ripresa.

Una mano si stacca dallo sterzo e si poggia sullo sportello, lasciando sporgere fuori parte della curva del gomito. Il contatto con il metallo lo infiamma, ma dopo pochi secondi la sensazione sfuma, momentanea, e non resta che un senso di calore soffocante a permeare il tutto. Mentre la strada corre veloce scappando per ritmi avversi, per la prima volta un sorriso compare sul volto dai tratti duri, a labbra strette, pare il ritorno trattenuto di un dolce ricordo.

«Ancora?» chiede.

«Sì, ancora» risponde, facendo cenno al bicchiere vuoto, di cui non si scorge che un bagliore ramato dei resti racchiusi nei cubetti di ghiaccio. Il vetro accuratamente sbozzato brilla sotto i neon fosforescenti, e i suoi bordi sono taglienti, acuminati come il ghiaccio che, seppur prossimo a sciogliersi, conserva i suoi spuntoni aguzzi e la sua tenue e sbiadita vena azzurrina.

«Non intendevo questo. Parti ancora, eh, Sbrex?» la donna non gli versa da bere, ma si poggia sul bancone e lo osserva negli occhi. Il trucco pesante rende il suo sguardo irresistibile, ma ora è coperto da una patina di ira repressa, i tratti del viso tirati e seri. Lui preferisce soffermarsi sulla sua scollatura dell’abito, di certo meno pericolosa, e generosa nel mostrare la pelle chiara e fragile, liscia come un petalo di fiore di pesco.

«Di nuovo con quel soprannome?» un mezzo riso, nulla più, «comunque sì, parto. Ora mi riempi il bicchiere o devo andare al bar di fronte per avere un po’ di brandy?» dice, cercando d’essere ironico. I suoi occhi del verde delle foglie d’agave sono ancora più scuri nel semibuio del locale, offuscati da mille pensieri nascosti e dalle immagini di ciò che è prossimo ad abbandonare. È tornato da poco, questo lo sa, ed è quasi certo che ritornerà anche stavolta. Quando, però, resta un mistero.

Lei fa come le viene richiesto. Ma forse l’unica cosa che cerca, con questo gesto, è tenerlo con sé per qualche istante di più. Il pub è affollato, e nonostante le luci soffuse e a intermittenza che lo rendono un po’ più intimo, il lavoro la porta spesso ad allontanarsi da quella figura abbattuta a cui presta tanta attenzione. Il vociare colma ogni angolo, così come la musica sparata ad alto volume, ma che viene comunque attutita dalla gente che balla. Il pestare dei piedi sul pavimento scuro, il ronzio delle numerose lampadine che però non rischiarano quanto dovrebbero, il rumore assordante proveniente dalle casse, le grida. Voci di ragazze che ogni tanto lanciano urli accaniti, risate di uomini. Caos.

Lui osserva i suoi ricci corvini allontanarsi per servire una giovane coppia, le osserva i fianchi stretti nel vestito di raso nero muoversi suadenti. Non si accorge delle occhiate lascive che anche altri le riservano, perché è certo di possederla, così come è stato per molto tempo. Forse non smetterà mai, questo sensazionale gioco di notti insonni e viaggi indorati in un’alba tardiva, il limbo in cui la tiene stretta e la inganna è un luogo da dove lei non potrà mai fuggire.

Nonostante il suo sguardo segua ancora i suoi movimenti, ormai la mente è andata così lontano da non percepire più la presenza della donna, e la vista è solo un intrattenimento di colori e forme agitate. Si distrae così tanto che per un istante gli pare di scorgere due donne camminare allo stesso ritmo, completamente uguali, vede due sorrisi, quattro bottiglie di birra posate sul bancone. No, sui due banconi del bar… o forse ci sono anche due bar? Scuote la testa e si scioglie il codino che tratteneva i suoi capelli color sabbia e, sebbene possa sembrare solo una mossa per fare conquiste, sa che stavolta lo fa solo per schiarirsi le idee.

Partire. Ancora.

«Per dove?» è tornata da lui, e ora deterge dei calici da cocktail frattanto che gli parla. La sua voce è la stessa di prima, sembra quasi che non avessero cessato un attimo di conversare, e anche il cipiglio è preoccupato e ansante, forse pure un po’ triste. Intanto cerca di guardarlo il più possibile, per avere di lui un dolce ricordo, un’immagine chiara, per evitare di lasciarselo sfuggire così, senza neanche avere in mente l’ultimo sorriso che le ha rivolto.

«Non lo so. In giro» è intontito, troppo. Il liquore ramato gira nel bicchiere, fa piccoli salti e scivola fra il ghiaccio in pezzi. È così scuro da sembrare terreno arso dal sole, acqua del deserto, veleno ammaliante. «Il deserto…» mormora.

«Cos’hai detto?»

«Lascia perdere.»

Il deserto. Caldo. Distante. Diverso da quella città così glaciale perfino in piena estate, tutta ferro e asfalto.

Il deserto. Solitario. Semplice. Ardente e focoso come il suo animo in fiamme.

HIM Stories

domenica 5 settembre 2010

PostHeaderIcon L’Impenetrabile Reame

Una breve premessa a quello che è il mio mondo, il mio blog, la mia vita. Un breve delirio in attesa.

(Non chiedetemi il perché delle immagini. Lo trovate qui. In fondo, Jonsu si spiega da sé. Stupore.)

Chiedimi. Come l’urlo del lupo, lassù abbarbicato su una cima arcuata, su una coltre imbiancata di neve in discesa. Come il canto dell’aquila, che va svelta su boschi verdi di frescura incantata. Come… come il respiro dell’amante che brama, ancora, nuova pelle da addentare, nuove curve da toccare. Qualcosa… da possedere.

Sono le immagini velate di un barlume distante, i cantori dell’anima in pena. È il percorso, insano, che si prova quando si vola via, o si prende spontaneamente il volo: sarà che forse, perdendo l’equilibrio, ora grido mentre precipito nel vuoto, o il salto è stato agognato, o anche la spinta (sì, la spinta) può essere arrivata da sé.

Insomma, ora è il vuoto. Tutt’intorno, circonda e abbraccia. Come se tempo fa avrebbe potuto esserci altro, oltre al vuoto, come se questo cesto potesse essere colmo di qualcos’altro che non sia stato solo il vuoto. Forse erano mele? Immature. Ma giuro di sentirne ancora il profumo.

Il vuoto sa di mele.

Può, il vuoto, essere così attraente? Certo. E se lo tocchi, si scuote di dosso le foglie secche (e le mele), e sentirai l’aulente sapore un po’ acre dei funghi del sottobosco, mischiato a del sangue che, da una ferita riaperta da poco, riluce e gocciola nel torrente. Lo tinge di rosa, di cipria, di sfumature e lacrime che sono il riverbero di un fiore appena sbocciato. Che cambiamento. Ma in fondo stiamo cadendo da così tanto…

Saranno le bugie, poche, intrise in questo corso infernale, racchiuse in uno scrigno che sa tanto di prezioso concetto (barocco). Rinascimentale. E indietro nei secoli.

JMedioevo nel mio cuore. Confusione come guerra a suon di spade e archi infuocati, ballate che sono le dame racchiuse in cerchio (com’era che si chiamava? La ronda! La mia vecchia anima lo ricorda ancora). I cerchi dei druidi, celtici, di magie misteriose.

Medioevo nel mio cuore. Arde come il candelabro della donna che va a trovare il principe adagiato nelle sue stanze, arde come un capanno andato a fuoco per ingiuria al re. Eppure c’è la calma di un lago gelido a lambirne i bordi, quasi a creare la barriera, la copertura ideale per un mondo che fuori non è che ferro pronto a infilzarti. No, l’ascia, il pugnale, la scure… fan meno male.

Perché deliro? Perché non ho altro da fare.

Chiedimi cos’ho, ma non saprò riversarti addosso altro che non siano i miei desideri, ma le mie colpe (no!) resteranno rinchiuse, carcerarie cullate nelle loro celle d’oro e vetro satinato. Negli specchi incontrano i loro volti veri, corrosi, inaciditi, ma nel riflesso c’è la bellezza macabra del loro peccato. E il desiderio può essere più puro di ogni singolo errore? Non sono per caso gemelli, partoriti dalla stessa mente malata? Desiderio passa, attraverso la grata di lucide gocce d’onice, pezzi di pane imbevuti nell’Hausbrand. Peccato svia lo sguardo, e allora un calice d’idromele (dolce profumo) lo raggiunge arrivato da chissà dove, e nel suo stillare ambrato trova la lingua, il bacio, il ricordo che Desiderio tramite Passione gli cede.

Passione? Dove? Chi ha nominato Passione? Ti ho perso troppo tempo addietro per solo ricordarmi dove forse ti eri nascosta. Passione! No, scappi di già?

Forse la carcere vera e realistica, tangibile, non è quella che riservo ai miei sentimenti. Oh, beati, potessi essere protetta, deliziata, come loro. E Gola ha il suo bagno di cioccolato, e la Tristezza s’apprezza dei fiori donati da Gioia che, addossandosi il peso, risolleva dal pantano anche Malinconia. Gioia oggi è abbigliata di bianco, come un angelo caduto dal cielo.

J1Forse la carcere vera e realistica, odiabile, è quella che davvero esiste intorno a me. E scopro che in verità Passione gioca a nascondino con tutti gli altri, si diverte nell’Eden del mio corpo. Come fa esso ancora a vivere, se scosso da tanti sogni, non me lo so spiegare neanche io. Eppure, se guardo oltre la tenda, lì, fuori dal castello (Medioevo nel mio cuore!), c’è qualcosa… no, non il drago che sorvola il cielo, no, non la sirena che nuota nel lago, no, neanche quel fauno sul prato! Lì, nel bosco. Brava mente, avvicina l’immagine, inquadra quella radura…

Qualcuno piange. Uno, due, tre vaghe forme che sembrano bruma e hanno aspetto di fanciulla. Sì, sono loro, povere, indifese. Lussuria, Dolores e Solitudine.

Siamo caduti. Attraverso un vuoto che sa di mele, e poi per carceri e segrete che sono la reggia dell’espiazione. Ora siamo al quinto piano di un castello…

Dal basso verso l’alto. Le celle si trovano in basso. Ma ora si vede un cielo così limpido, terso, così fantasticamente delizioso nel suo azzurro venato di viola come se esso ne fosse l’intricato merletto. Dal basso verso l’alto. Allora siamo saliti!

Ho creato un mondo: sa di salsedine di un mare che non esiste (bugiarda! Sì, lo so), ha delle montagne, più in fondo, che ricordano i limiti della poesia. Come se essa avesse limiti (bugiarda! No, è il mio cuore ad avere limiti, cara).

Ho creato un mondo. O è solo un villaggio? Una contea… solo una contea per far vivere, dolcemente, ogni singola parte di me. Prendono brevi vacanze dalla realtà e si rifugiano qui, dove non tutto è concesso, ma almeno sono io che concedo. Ora che ci penso, Senno sono già diversi anni che è qui, e pare di non volersene andare.

J3Sono in tanti, non li posso controllare. Qui non ho il dovere di farlo, almeno, e allora perché non abbandonarli? Il vero involucro di me si svuota ogni giorno di più, è la tinozza che lascia scivolare l’acqua dal tappo tolto dalla bambina giocosa, è la bottiglia che si rovescia e che riversa tutto fuori. È il barile trafitto da una katana che non duole.

La riunione di Lussuria, Dolores e Solitudine procede calma. Chiudo le imposte. Mi allontano.

Il mantello struscia sul pavimento in pietra (che bel mantello! Tinteggiato d’acquamarina, è la voce del mio spirito). Il piede incontra una pozzanghera di inchiostro nero che cola dal soffitto. L’inchiostro è il veleno del reale che s’infiltra, maledetto, e che per quanto io cerchi di rinforzare questo cielo d’inverno, riesce sempre a spirare più forte. Sento lo sciabordio del liquido che si muove, e, già in trappola, mi trascina fuori dallo schermo del mio benessere confusionale. Mi avvinghia le caviglie, mi chiama verso il suo posto fin troppo normale. Perché dovrei vivere lì? Io appartengo a questa contea. Io resto qui.

E allora, miracolo, la nera polla si secca ed evapora. Sparisce. Prigioniera della mia fantasia, una volta per tutte! Rido. Non tutte le gattabuie sono dispiaceri.

Ecco, chi vuole, (abbiamo anche il giullare! Chi? Perfido. È un bravo attore), venite al mio breve giro, da turisti, con calma, niente foto. Non è un circo, sebbene potreste divertirvi, è in verità quel che qui più potrebbe somigliare a un museo. Toccherete quello che è l’Impenetrabile Reame, l’angolo dei sentimenti e delle emozioni che si rifugiano. Questi appartengono a me unicamente, accompagnati dai ricordi appena appannati dallo scossone del viaggio. I miei cari fanciulli, qui, tutti insieme…

Benvenuti nell’Impenetrabile Reame! La mia, ebbene sì, incantevole prigione.



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