martedì 13 settembre 2011

PostHeaderIcon From Dreamland – A stranger hither

Questo è un addio, o un arrivederci, o qualsiasi cosa voi vogliate definirlo.

Inutile prendersi in giro.

Dubito che tornerò a postare qualcosa, a raccontarvi qualcosa. A scrivere, in breve, in questo luogo. Che, nonostante tutto, nella sua breve vita, ha saputo darmi molto, ha saputo creare materialmente i sogni che provenivano dal mio inconscio di fantasie e immaginazioni.

Non so se tornerò a scrivere.

Non so cosa farò della mia esistenza.

Ma mi rendo conto che questa è in continua mutazione, sceglie da sé il suo futuro, frattanto che io impari a farlo coscientemente.

Intanto mi pareva giusto lasciare un piccolo appunto: non sperate che torni a fare nuovi post. E se ciò accadrà, avverrà fra molto tempo. Magari cambierò anche grafica, sfoltirò di nuovo i vecchi post per lasciare giusto quelli a cui sono più affezionata, cancellerò commenti di cui non sento il bisogno. Cambierò questo luogo, questa “dimora di sogni incompiuti”, arredandola di nuovi sogni in attesa di concludersi.

Perché questi di cui avete letto e di cui ho raccontato, pare che, in un modo o nell’altro, abbiano ora trovato la loro fine.

Ora sono una straniera che vaga alla ricerca della sua terra. Una straniera… rinchiusa fra mura di marmo che riflettono le mie paure e i miei sorrisi insinceri.

mercoledì 22 giugno 2011

PostHeaderIcon Mother Earth

Ogni tanto ripasso di qui. Giusto per salutarvi…
Il mio periodo senza scrittura continua, muto, immutabile. Per sempre rinchiuso nella sua gabbia di noia e malinconia.
Forse ritornerò, come le stelle nel cielo, alla fine del giorno.
Spesso mi sorprendo a pensare che vorrei imparare a guardare il mondo attraverso un sestante, come nella "Ragazza che rubava le stelle". Per sempre sospesa sul mare.

P.S.: video da guardare in HD e a schermo intero, altrimenti perde tutta la sua bellezza.
domenica 15 maggio 2011

PostHeaderIcon Midnight Lullaby

Black star, black star

Forever you will be

 

 

Stare qui, sul ciglio della notte, non si è mai rivelato così semplice. Certo, potrei affacciarmi un po’ di più dal balcone, afferrare un pezzo di buio per farmi compagnia, fare un respiro e poi esplodere. Cose così. Solo per assaporare quanto è divertente giocare con le parole.

 

 

Potrei cercare spiragli di freddo, perché ho addosso quella temperatura che non è né troppo gelida né troppo calda, che ti fa stare bene ma che mi fa stare male.

Potrei appostarmi là dove il sole incontra la luna e fare foto da dietro una nebulosa, per poi pubblicarle sull’oroscopo che mi offre più neutrini per del gossip superstellare.

A shining star, shining star

Be whatever you can be

 

 

Ma in fondo sono una stella, appena più scura delle altre, abbracciata al mio immenso cielo.

 

 

Sapete, un cielo non rimane un posto dove le stelle decidono di attaccarsi come punaises piangenti. È anche quel pezzo di stoffa con cui possono asciugare le loro lacrime, e se non ci fosse quel blu d’infinito a ispirare loro i sogni più belli nel cuore della sera, non brillerebbero d’oro prezioso… ma sarebbero soltanto meteore incastrate fra i loro desideri sublimi.

A rockstar, a rockstar

You will always be…

 

 

E a volte una stella si sente troppo sola per sapere cosa deve o può fare, se non c’è il suo cielo a trascinarla verso costellazioni più sicure.

 

domenica 27 marzo 2011

PostHeaderIcon Desiderium

Finora non ho mai avuto la voglia, né il coraggio, di postarla. Ma Marzo sta sfumando via, e non ho portato nulla di nuovo in questo posto di desolazione. Sì, non riesco – non so – più scrivere.

E forse pensando che ciò possa essere un triste addio, almeno vi lascio con dolcezza, con il tinteggio leggero del rimembrare il passato. Non temete, la speranza di un ritorno è sempre dietro l’angolo, no? Però c’è chi talvolta decide di proseguire dritto.

Quest’intrico di eventi mi sta distruggendo. Una catena che perde i suoi anelli, uno alla volta, pian piano, tanto che finisce col non fare rumore. Ma poi qualcuno li calpesta, per sbaglio, per la furia di poter lacerare i ricordi, e la pioggia di suoni è un tintinnare sempre più simile agli urli di un incubo d’inchiostro.

La poesia risale a Dicembre. Non chiedete spiegazioni.

Stavolta non vi risponderò.

Royal

Mi hanno dato un tempo vastissimo per amarti,

ma non un istante - ancor meno del desiderio che ho

per guardare qualcosa che vada oltre al gelo

dal niveo e spaurito sapore d’acquavite cosparso,

oltre alla coltre leggera che come notte stanata

ricopre le tue fredde membra d’inverno.

 

Una mano che carezza il ventre contratto,

il dolore, l’affanno… calore disperso:

solo delicata nostalgia mi lega ai tuoi boccoli

recisi crudelmente come boccioli di rosa.

Appassita, la tua bocca ricucita sottile,

frantumato il ricordo di un settembre felice.

 

E il rimpianto si fa meno forte, più forte

Delle lacrime che non riesco ad udire,

o sopportare il nostro sentiero interrotto

che hai lasciato indietro con me, una gelida sera.

Qualcun altro è nato per te. Il bisogno

s’è infranto al suono di una corda spezzata.

 

Desiderium, persona amata, perdersi è

Cosa nota, ignoto è il modo in cui

La tua gamba, le dita sfuggenti e palmate,

S’è legata come morte

Al mio cuore distrutto.

giovedì 10 marzo 2011

PostHeaderIcon Ho comprato un guanto usato.

Di tela sporca, per costruire la mia Amanda.

Faccio un po’ di calcoli mentre a scuola si parla di Diogene, dell’inventore della scacchiera e di qualche sciocchezza imbevuta nella polvere della solitudine.

Parola preferita: dormire.

Affogherei tutto in un sonno lungo ore, magari senza qualcuno che mi tiri via le coperte dal corpo. Una cattiva addormentata in un bosco, e non ci saranno baci a risvegliarla – solo il cullare dell’eterno.

Parola più odiata: entusiasmante e derivati.

C’è sempre, dietro l’angolo, la trovi dappertutto, nei contesti più inadatti. Entusiasta! Sii entusiasta! Saltella, gira e volta. Carnevale è finito. Butta le tue ultime stelle filanti nel canale di scolo. E ora taci.

Freddo antico, brividi sulla pelle; freddo nuovo, ghiaccio dentro.

Comunque sia, c’è sempre gelo.

Ma… Inverno caldo,

Inverno tiepido,

Inverno muore.

E io sono triste. Senza possibilità di riscatto.

mercoledì 23 febbraio 2011

PostHeaderIcon Briciole di Felicità

Anche questo racconto ha partecipato a un Contest particolare. Devo dire che scrivere con idee precise – dettate da altri per certi versi – è più gratificante, e inoltre ti permette di avere giudizi, cosa che postando qui sul blog non è sempre accertata.

Song-fic anche questa. Sì, mi prendono, sì, ho detto più volte di amarle. Avrete ormai capito che da parecchio tempo a questa parte non faccio che scrivere racconti di questo tipo.

Le canzoni da cui ho preso spunto (e che trovate come al solito a fine post) sono:

- "Yksinäisen Keijun Tarina" di Chisu

- Śniadanie do łóżka" di Andrzej Piaseczny

Con questo racconto mi sono classificata Seconda (avete visto? Miglioro ^^), assieme al Premio come Miglior Storia.

E sono ancor più felice di dire che invece il Premio Stile è toccato a Vinci, che si è inoltre classificato primo :)

Buona lettura!

La mia fata si è ammalata.

Ogni mattina strofina le ali con della polvere magica, per poter volare. Perché da sola non ce la fa più. È tutta contenuta in una borsetta di tela che porta legata in vita, la sua polvere, da custodire gelosamente, da usare con parsimonia. Un mucchietto al giorno, per sopravvivere.

Arriva sera ed è stanca, e le sue ali di trasparenti petali di giglio giacciono abbandonate sulle spalle: una sacca di dolore che si trascina dietro. Le occhiaie distruggono la bellezza dei suoi occhi d’ametista, che nemmeno un raggio del sole al tramonto riesce ad accendere di nuova luce.

La mia fata si è ammalata: non vuole più sognare. E io, che la amo più della mia vita, le donerei ogni mio sogno pur di far tornare le sue ali a splendere.

Spesso me l’ha detto, me l’ha sussurrato nell’orecchio, al suo caro fauno impertinente: «Perché suoni sempre di feste e cose belle? I tuoi occhi sono ciechi, forse, che non vedi quante creature muoiono qua intorno?»

Suono perché non so ballare con la Morte, e allora chiamo le altre sue signore, le dame che spesso s’inchinano al suo cospetto, affinché facciano compagnia ai miei saltelli allegri. Credo che le mie canzoni spargano speranza, e loro danzano, danzano intorno, il cerchio magico di Faerie, e la speranza la creano davvero: sono le risa dei bambini che, dal mondo reale, si affacciano sul nostro universo.

Ma ora non suono più neanche io, e Gioia si è offesa con me, e Gaia non mi vuol parlare. Misericordia tace e il suo sguardo mi perfora le spalle, Lussuria si consola con un troll che vive oltre le montagne. Ho perso tutte le mie muse.

Poco male, ho la mia fata da salvare. Devo portarla via dai suoi ricordi, prima che qualcos’altro l’allontani da me.

Però me ne sono accorto troppo tardi. Lei piangeva sola, nascosta fra i petali del suo crisantemo, e io intanto le chiedevo baci, le chiedevo la sua bellezza, e non mi accorgevo che stava morendo dentro. Che sciocco, povero sciocco fauno!

Ma come può un fauno credere che una donna alata possa stare così giù? Ha un cielo immenso su cui perdersi, una piuma smarrita nel vento. Una piuma che ora sta cadendo. La raccoglierò prima che rischi di toccare il suolo, fosse anche l’ultima cosa che faccio. Spero solo che non sia davvero troppo tardi…

Ma, in fondo, chi avrebbe mai creduto che le fate tristi esistono?

Si respira aria autunnale. Attorno al palazzo diroccato, un castello ucciso dal soffio infuocato di un drago, qualche erbaccia lascia spazio a primule gialline che sono le fiammelle sparse dal suo fiato rovente. Le aiuole sono chiazze verdi su cui è stato spruzzato un po’ di colore, senza riflettere, senza idea di cosa s’andava creando. La natura ha modellato un quadro grottesco, dimentica dell’ordine. Un fungo! Che ci fa un fungo sotto quel cespuglio?

La finestra della camera da letto è accostata, solo la zanzariera chiusa, ma è di quelle che si possono aprire dall’esterno. Solo una sottile tenda attutisce i rumori delle auto che, dalla strada, già cominciano a vorticare per le vie della città in un marasma confuso, ma basta a plasmare quella barriera indelebile fra incanto e realtà. Il ragazzo benedice che lei abiti al piano terra. Entra come un angelo, di soppiatto, accompagnando con una mano la reticella che si alza. Tutto senza svegliarla: è importante lasciarla ancora un po’ nell’inquietudine del sonno, nella convinzione della solitudine. Un salto e scavalca il ripiano, i suoi piedi toccano il pavimento di ceramica con la leggerezza del passo di un fauno. Un ticchettio per gli zoccoli che si poggiano, ma niente più.

Lei, fra le coperte, è bellissima come la visione dello sbocciar di un fiore, che allunga piano i suoi petali, saggia l’aria – no, fra troppo freddo, aspettiamo racchiusi altri pochi minuti! – mezza aperta al mondo e mezza accoccolata fra l’abbraccio delle coperte. I capelli castani si sparpagliano in boccoli sui cuscini bianchi, onde spumose di un mare al crepuscolo. Le lenzuola si avvolgono sul suo corpo come foglie a rivestire una fata, e quasi si possono scorgere le ali, un brevissimo brillare che spunta dalle spalle nude e vibra nel vuoto. Oh, no, non sono in alto, le ali, non sono spiegate: sono schiacciate alla schiena, spiegazzate, sgualcite. Pesanti e bagnate.

La cucina è in fondo al corridoio. Si può abbandonare una donna così bella, al suo sonno così magico? Sì, il ragazzo può, deve, ha una cosa da fare. Urgente. Perciò si allontana, a passo quieto, voltandosi a cercare nel riflesso di uno specchio l’ultima immagine dei suoi occhi chiusi.

Arrivato in cucina, svuota sul tavolo il contenuto del suo zaino. Pane fresco, che profuma ancora del legno di betulla vicino a cui si è cotto, e che stranamente è tiepido come se un elfo l’avesse custodito in grembo appositamente per lui, avvolgendolo fra le spire del suo mantello. C’è anche un barattolino di miele, e s’immagina lei che vi immerge il dito – un’ape che si è poggiata sulla corolla del suo fiore. Poi un po’ di latte, qualche arancia ancora da spremere. Un libro di poesie. Prepara tutto su un vassoio, in fretta, per la sua piccola fata. Con amore.

Appena ha finito, torna nella camera da letto. Un anello con un piccolo diamante tintinna solo sull’acciaio del piatto, attende. Il ragazzo poggia il portavivande sul comodino, accanto a un flacone mezzo vuoto di pillole anti-depressive, e le si avvicina. Con un bacio sulle labbra di rosa, la sveglia teneramente dal suo torpore senza sogni.

«Una nuova vita, una nuova vita per colazione» le promette.

Lei si lascia sfuggire un sorriso, ma subito un triste pensiero lo sopprime.

Il fauno deve consolare la sua fata. Deve, o il vento la porterà via… e non le è rimasta molta polvere magica per resistervi. «Su, mangia qualcosa» la invita.

«Non ho fame» sussurra lei, e si stringe ancora di più nel suo involto di coperte. Sembra avere freddo, ma dalla finestra socchiusa qualche raggio di sole si arrotola alle tende pulite, s’infiltra timido a illuminare la stanza.

«Li vedi, quei raggi? Alla fine… alla fine riusciranno a riscaldarci. Devi permettere loro di accarezzarti, però.» Il ragazzo afferra un lembo della stoffa e tira lentamente. Questo cede, e scopre la pelle liscia di lei e la sua camicia da notte azzurrina.

La fata è insicura, protesta: «Non ce la faccio.»

«La stabilità nel volo… possiamo riottenerla insieme.» Lui prende l’anello, e cerca da sotto le coltri la mano sottile della donna, facendosi strada attraverso quel corpo trascurato e ancora stupendo. La fede s’infila all’anulare, si stringe in una morsa che è una preghiera, una richiesta disperata di fiducia. «Ci proverai?»

L’esitazione dura quanto la presa di un respiro. «Sì.»

L’ha detto. Un altro bacio del fauno, e una rassicurazione: «No, non ti preoccupare per le briciole di felicità, fatina. Le nasconderemo nelle fodere dei cuscini, assieme alle vecchie piume della tua vita passata.»

giovedì 17 febbraio 2011

PostHeaderIcon Riot!

Alcune sere fa, un po’ di delirio, qualche nota di noia nell’aria. Il desiderio di rivolta, soppressa alla foce dell’immaginazione, e qualche metafora esorcizzata dalla sua croce. Un incubo punk, uno scambio di battute quasi nonsense, quasi poesia.

Vincenzo poi le ha ritinte, allungate, modificate un po’, per creare qualcosa di omogeneo, qualcosa da poter proporre anche ad occhi estranei. In azzurro trovate i suoi pezzi, il resto è mio.

E così, quel che è nato in una sera di chat, diventa questo… diventa Riot.

Voglio completare l'adolescenza assieme a te, buttandoci da un ponticello di Venezia, mano nella mano, e gridando qualcosa di rock con la voce che si è corrosa l'animo appresso. E ora raspa come una caverna.

I canali veneziani sono inquinati.

Ma questo fa rock.

Vorresti rimanere impigliato fra le fondamenta d'alghe di una piccola Atlantide senza speranza?

Sì, oppure no. Però… qualcosa di simile.

Io andrei a Carnevale, vestita di nero, e romperei dieci maschere in piazza San Marco. Poi fuggirei e fra il tintinnare dei vetri soffiati di Murano salirei sulle ali di una gondola, in punta di piedi sulla parte più alta per sfiorare con il naso il fondo umido di pietre grigie di ogni singolo ponte. Una volta raggiunto il mare, solo allora mi butterei per sapere di sprofondare in un’immensità in cui non si può essere soli.

Ci sarò io con la maglietta blu scuro, maniche corte nel più gelido inverno, una faccina triste gialla stampata su e jeans troppo stinti, quasi bianchi, laceri e lerci come un fondale di fogna. Io che faccio le corna da dietro la schiena al gondoliere. E…! È forse, il forse, l’emblema, la sbronza di perdere per un attimo l'equilibrio, ma poi tutto si rovescia, è apposto… È per provare l'ebbrezza di cadere veramente, col cuore, con la mente, per sfregiare l'essenza incrostata di silenzio pesante. Come se ciò che cadesse fossi tu soltanto. E per sempre. Come calcinacci da un muro sradicato dall'anima. Fine.

«Mi dici fine?»

«Forse.»

«Cosa forse?»

«Alle stelle servirebbero dei preservativi per danzare più sicuri, come nastri per reggersi ancora in cielo e non impattare con tavolati dei sogni.»

«Ma tanto c’è… la carta di imballaggio che li protegge.»

Vi passerei la mano sopra, le palline, sfiorandole con la tristezza, sfiorandole con l’ago delle spille da balia rimaste incagliate al vortice di amori diversi, tracciati sulle mani dagli occhi orbi di una zingara. E se scoppiamo è perché abbiamo amato troppo. Amiamo lei, che persa, spremuta su una grattugia, è l’amicizia. Idolo di sangue. Scorze di mele, acido di limoni e sentiero di arancia marcia.

Io andrei a piedi sin da lei, strappando lavande al mio passaggio, infuocando il grano con la benzina

E la schiena rotta dalla pioggia, e la bocca impastata di capelli d’altre, altri

E il silenzio che preme sulla lingua come cenere.

Ho preso un tram e guardavo le stelle fuori per sputar loro in faccia neve e sangue, e le converse coi buchi affondavano la loro marcia sul cuore.

Dille che… il suo cuore è un palloncino adagiato su una lettiera d’aghi, e miele sopra ch’attira le ali, e lavande sterminate. E che per lei una cinta di silenzi e ghiaccio le crepa il volto in rughe di specchio. Passato e presente, valanghe di miseria e schiaffi; si può essere soli, assieme, insieme, un campo di concentramento per scabre crisalidi bastarde.

Dille che ho messo un orso dentro una voliera e falle vedere la tua mano intrisa di sangue, mentre percorri le mie guance con le ossa della barba.

Sei un maledetto, se le dico questo, vorrà sapere il resto, e se le dico che in vero è per te pensa che noi ci amiamo e…

Fanculo, dille…

…e questo è sbagliato. Dille, dille, dille cosa?

‘Fanculo.

Mentirei due volte.

Mi sento bene, così pieno di droga, così pieno di cinismo, di vita.

La vita... Io sento che la mia si sta diluendo come un colorante nell'acqua, e se seguo le tue parole si riempirà di veleno. Sei il mio veleno più dolce.

E tu fiele d’amaro sogno. Vomitata sul campo di un universo ingoiato a forza. E spari di dolore, polvere da sparo a crivellare fogli di storie novelle imbiancate.

Sono le ispirazioni, sono che voglio staccarmi dal mio essere, non voglio poesia, voglio più questo, più follia, più qualcosa che gratta e non smorta. Voglio me stesso, lo sfacciato me stesso.

Dì che hai ricevuto un delirio e hai dato un mazzo di lavande secche, perché io le ho detto di aver ricevuto quelle. Se proprio vuoi uccidermi, fallo con classe.

Posso davvero? Mi permetti l'onore, come mi concedi la mano e invece ti sfilo l'anello…

Sei crudele, non so cosa vado cercando permettendoti di fare certe cose. Anzi, forse lo so, e forse non mi sta più bene. Hai il mio cuore nelle tue mani, fanne quel che vuoi.

No. Non voglio dirle nulla, se non vuoi. Il problema è che sei troppo perversa per capire…

Per non volerlo.

…cosa ti farebbe piacere, e per non volerlo.

Dillo, in maniera bella, con classe. Dillo, a tratti.

Dillo come se ti cadessero le parole dalla bocca, dalle dita, tasti consumati caduti nel tè bianco.

Non credo che capirà tutto. Verrà a chiedermi spiegazioni, e io… io parlerò, se è questo che vuoi.

Per forza?

La forza è una stronza partorita da una bolla soffiata dal naso di un orco.

Mi sarei bruciato le punta delle dita per possederla.

Le costole a sassate e sfiorare stelle con le antenne per…

No. Parlerò perché è meglio non mentire, né avere segreti.

E se non l'invio, parlerai?

Se non l'invii, resterà tutto così, sospeso, e io non troverò il coraggio di abbattere questo muro.

E tu cosa vuoi? Una spinta…

Voglio che mi getti giù dal burrone. Dimmi quando posso cominciare a volare.

Ora. Ti aspetto giù, per prenderti in braccio.

Prima bugia svelata. Devo cadere ancora?

E allora cadiamo giù. Destinazione bollicine d’alcol, unico appiglio che vive sospeso su isolotti come capocchie di spilli infilati sul cranio di una rossa riversa in un lettino, il capo staccato dal collo.

Ho scarabocchiato un bacio di luna sulla tua caviglia, mentre dormivi accanto a me in una cabina telefonica, che strillava asilo per gli immigrati del cielo.

Prendimi! Ora, o muoio.

Presa. Oddio, le mani quasi cedono e i tasti si consumano appresso. Quindi?

Ho bisogno di te. Cos'ho fatto?

Nulla. Solo onestà, solo sfrontatezza. Solo andare al confine, con un fascista che ti punta la canna dentro la gola e scoprire che è bello. Tutto. L’avventura. Ridere di Morte e le sue comari, che come vecchiette indecenti, fanno schedine sulla gente.

E allora… perché? So perché, ma ora mi sento ancora più vuota, ho ingoiato coriandoli di fuoco.

Vuota è quando ti sei tolta tutto dentro, perché eri troppo pesante. E… oh dio, ho mozzicato le stecche del tuo stomaco.

Voglio aspirare la diossina che è salita, una ciminiera d’odio, dai bruciori infernali.

E allora, se mi sono tolta tutto, c’è ancora qualcosa che resta. Voglio affondare, perché solo così, secondo il giudizio di Dio, nella mia ordalia risulterò innocente.

Davvero?

Sì.

Ma è una cosa tanto brutta, quanto rubare una stella al cielo e scoprire che è reato, scritto a penna sull’ultima pagina di un libro di codice penale?

No, è bellissima, se resta solo mia.

Cosa?

Il peso che ho ancora dentro, quello che tace e che mi fa andare giù, una sirena dalla coda di piombo.

E allora fa sì che rimanga bellissima, e stavolta non sarai assolta… Ma solo per oggi, perché alla fine è solo un foglio che sta per essere bruciato. In fondo… in fondo, il colpevole sceglie la sua pena.

Ma non la sua colpa.

Vuoi essere assolta o giudicata? Che devi fare, lo sai che il dito più lungo di un giudice è sempre l’indice? E quello di un nazipunk è il medio…

Niente, devo restare così, sul fondale. Voglio che sia così, ancora per un po’.

Ed è bellissimo, perché adesso il linguaggio è un mucchio di bolle.

Ho visto un treno correre. Alle ruote sono impigliate le ortiche. Ai finestrini rotti, le mani staccate dai corpi di zombie svuotati dal sangue e residui di plasma dentro le vene, tra le mani, fra una cucitura che squarcia le braccia, dentro agli occhi.

Un mucchio di deliri concatenati a un bisogno troppo forte di vodka alla menta e di Russia. Di casinò che in verità è un po' casino.

E che sommariamente, uno scritto? Un delirio, un ciao e un abbraccio troppo forte da stampare addosso profumi che non staccheranno mai la presa dai colli.

E che sia.

Il più bel regalo, quello del per sempre.

Promettimi che lo farai. Non per scherzo. Non stavolta. Non è una presa in giro.

Non è amore.

È affetto. È dirsi, scrivimi per sempre prima che scappi sotto il viale.

Ho ricevuto quattro fogli di diario e un anima d'inchiostro allegata.

«Hanno ucciso il gatto della bambina dei viali. Infilzato sull’antenna del paradiso.»

Ma lei non è mai scappata.

lunedì 14 febbraio 2011

PostHeaderIcon Iris

Lettera 1

Lettera 2 Lettera 3

Per chi non comprendesse la mia scrittura arcaica, o semplicemente non gli andasse di leggere, qui di seguito il testo.

BESTHEARTEDIT

Qualcosa è cambiato – è ancora tutto uguale, tutto identico a prima, eppure sono particelle diverse nell’aria, segreti taciuti, a vorticare silenti. Le ho trascinate dietro di me, dentro di me.

Solitudine è parola più triste, d’artista intinta nel blu, porta sprazzi di viola e dolore. Si può essere soli insieme, e insieme non esserlo più.

Cercarsi, questo è ciò che più mi fa vacillare, non sono le memorie – quelle giacciono serene a fermentare assieme ai fiori – è l’assenza. La presenza.

Portare via un brandello di te non sarà mai come sfiorare la tua mano indecisa, le sue linee sgraziate, e bisticciare per nascondere il desiderio di avvicinarsi. Occhi negli occhi, lavande e mandorle. Oh! Lavande… e mandorle.

Ho visto un soffione passare veloce nell’aria, in quel giardino d’incanto.

Un pezzetto, un bagliore, ci sorprende volando, spezza il buio delle palpebre socchiuse, e scompare.

There’s magic everywhere.

Senti ancora il mio profumo così come io sento il tuo? Sai, ci vorrà del tempo finché anche questi strascichi di sogno abbandonino la realtà per rifugiarsi fra i ricordi.

Avrei voluto…

Avrei dovuto…

È così difficile rubare al fato la sua stella più bella.

Ogni silenzio, ogni istante, quel timore represso alla bocca di un cuore che muove in un singulto indiscreto, sbarre alla gabbia di filigrana d’oro dell’emozione, per non cadere nella rete della follia. Siamo precipitati lo stesso, forse. Forse la luna ci bacerà, stavolta, dal riflesso di un pozzo, e noi immigrati, prigionieri, con il canotto sgonfiato e dalle ali tarpate, ad arrampicarci e scivolare fra le brame dell’acqua. Gelida, fredda, bollente, cambia al rintoccare delle ore dell’animo.

Restiamo qui? Vicini, alle soglie della disperazione, in fondo all’antro di un sogno. Sogniamo! Afferriamo ogni bolla e ogni palloncino colorato, e spicchiamo il volo. Saremo solo immigrati del cielo, allora, solo questo e nient’altro, come sempre siamo stati, in una volta solo nostra illuminata da stelle e da angeli che ci invidiano amore.

No need to run, and hide

It’s a wonderful, wonderful life.

Una storia, tante storie, per scansare quella più importante, e passare il tempo, e fare i conti con le anime che ci attorniano e non ci concedono… non si concedono. Paura – vibrante rumor sordo di treni che passano e non si mostrano, ricoperti d’ortiche. Niente che dia spazio alle richieste di un attimo, uno solo, per sperare.

Sperare. Incantare. Spaurire.

Svanire. Svenire.

No need to hide…

I need a friend, oh, I need a friend…

To make me happy…

Ma! E ora? Quando? Se non ora, quando? Ave atque vale, tutto è.

Tutto è questo.

Ed è bello averti.

Così.

Mio.

Per sempre.

Fosse anche solo una stupida illusione, fosse anche solo un bacio di luna per gli immigrati del cielo.

mercoledì 9 febbraio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever, Interludio 2 - I

Si ritorna. Questa storia diventa sempre più accattivante… Ed eccovi quindi il terzo capitolo, dopo le lettere e l’interludio romantico, qualcosa comincia a smuoversi.

By_Myself_by_skyleaf

30/05/1823 – Interludio

In viaggio per Valensole.

 

«Mi hai trascinato per luoghi oscuri, in questo viaggio.» La carrozza borbotta fra sé, rincarando il passo sulla strada, troppo lenta, troppo ostacolata. Le due coppie di cavalli, all’esterno, grondano sudore addensando macchie scure sul loro manto, intingendo tutto attorno a loro di un lieve odore di fienile.

«Avevo bisogno di assaporare ambienti diversi. E poi non credi che quel breve soggiorno a Orléans sia stato magnifico?» Evangeline siede in fronte a Byron, le gambe sfacciatamente accavallate e la gonna amaranto rialzata, in veli disordinati, a mostrare la caviglia e parte dell’arto nudo.

«Tanto quanto la settimana a Lyon, la sosta a Saint-Etienne, il tè preso a Valence per riposarti…» l’uomo ride. Una risata cristallina, ironica, per nulla stanca. Forse anche a lui ha giovato questo strambo viaggio, questa fuga, che da Londra li ha portati, infine, fra le braccia profumate del loro campo di lavande.

«Domani saremo a casa. La nostra nuova casa.» Evangeline si è fatta pensierosa. Il sole del tramonto inonda le campagne della Provenza fuori dal finestrino della carrozza, invadendola a tratti di fasci di luce, impalpabili lingotti d’oro sospesi a mezz’aria. Il voyage è finito.

«Cos’è che ti turba, amore?» Si sentono i bagagli lamentarsi e sbatacchiare da sotto e da sopra le poltrone. Hanno portato con loro solo il minimo indispensabile: i ricordi di una vita si sono sbriciolati in un mucchio di sabbia che si disperde, nonostante la presa di quella mano possa essere così forte e sicura, e quel che ne rimane alla fine è ben poco, ciò che s’incastra fra le linee del palmo, le tratte del destino.

«Tours, Poitiers… abbiamo detto addio a tanti luoghi, non solo a Londra. Un’orma lasciata su una piazza, e quel posto è già, in qualche modo, un nuovo asilo. Quanti edifici hanno protetto le tue carezze, e i nostri baci? Ci siamo nascosti dalla gente, non fosse che per una manciata di istanti, e la città si è chiusa su di noi a proteggerci da sguardi indiscreti. Non ti mancano, Byron? Non ti manca Parigi?» La donna ha un fiordaliso di vetro appuntato allo jabot, un souvenir di terre straniere e conosciute. I suoi petali, a uno scossone più violento, tintinnano piacevolmente scontrandosi fra loro.

«Stai ritornando sulle tue scelte, forse? Non mi mancano, perché so che un giorno vi farò ritorno.» Segue una pausa di molteplici minuti, lo sguardo e il tempo si consumano ad ammirare lo spettacolo del crepuscolo, il suo sfuggevole stendersi fra le brame del cielo, striato, da lontano, da nubi temporalesche che s’avvicinano violente. È un’ora particolare, in cui ogni evento si macina nel volgersi di una clessidra alta quanto un fiore di prato.

«Non sto cambiando idea» aggiunge la ragazza, ricollegandosi a un discorso che pareva interrotto, concluso, ma di cui ancora si ode l’eco disperso nell’andito della vettura. «Altrimenti sarei rimasta incatenata alla mia villa a Colonia, molti anni fa. Solo penso a come sia doloroso allontanarsi da tutto questo.»

«Sei sempre fuggita. Credevo che ormai ci avessi fatto l’abitudine.» Una goccia di pioggia si abbatte sul vetro.

«Questo mai» sussurra Evangeline, portandosi una mano alla bocca, quasi per rendere ancora più inudibile quel che le è sfuggito dalle labbra. Un tuono consola il battere sconsolato del suo cuore, non più solitario. «A volte ho l’impressione che con tutto questo allenamento il passato sia divenuto più veloce di me.» Il sorriso che le si diffonde sul volto è spento, lacrimevole come la maschera di una tragedia greca.

«Sei stata sulla tomba di tua sorella, questo Natale?»

«No.» La voce le s’incrina. «Non ne ho avuto il coraggio.» Una goccia di pioggia lascia un solco sulla guancia della giovane. È pioggia salata, piove dalle volte dell’anima.

Byron prende il bastone che aveva poggiato sulla restante parte del sedile imbottito, foderato con stoffe lisce e pregiate, e con questo batte sulla griglia comunicante con la parte riservata al cocchiere.

«Eugène, si fermi!»

lunedì 31 gennaio 2011

PostHeaderIcon Valensole

Mi ero ripromessa di preparare qualcosa.

Non ci avevo pensato, in un primo momento, non ci avevo creduto. Ero forse convinta che sarebbe arrivato così, l’idea giusta, quel qualcosa e basta. O semplicemente non mi ero accorta che fosse così vicino.

Perduta, del tutto perduta fra i miei pensieri. Sogno d’altro, e dimentico.

Mi fa male? Non so. Questo essere sbadata, ogni ora sempre un tantino di più, ha il sapore dolce di una torta che si costruisce pezzo pezzo, a strati. Oggi cuciniamo la base, domani il primo livello, poi passiamo alla glassa…

Squisitamente dipinta al cioccolato.

Un anno fa vi ho narrato la storia di un guerriero. Da allora, ha combattuto tante battaglie, e mi ha salvato innumerevoli volte dalle fauci di un triste fato.

Non saprei più che dirvi di lui.

E non ho niente. Fra le mani, petali di… di crisantemi, frutto del mio giardinaggio scellerato.

E una tragica brezza di nostalgia che entra dalla finestra, spalancata sul vuoto del domani.

Forse provo a chiudere gli scuri.

«Chiudi gli scuri, Evangeline.»

Forse stavolta lo faccio davvero.

E… e buon compleanno, solo questo. Scusami se non ho potuto essere all’altezza di tutto.

Così nasce il mio primo sonetto… una prova – venuta male. Se qualcuno ne capisce qualcosa di metrica, potreste dirmi se è giusto? Merçi ^^

Forse non arriveremo a sapere

Perché il vento ci sta trascinando

Per lande su ali veloci e leggere

Di campi infiorati va sussurrando.

 

E che motivo angustioso noi abbiamo

Per rimanere immersi nei ricordi

Se arte si cosparge di cinnamomo,

Nastri scarlatti e sapore di fiordi…

 

Accompagnami verso altre nazioni,

Fuggiamo! Via da dolori e tormenti.

Alle lavande in sboccio importerà se

 

Pianteremo anche mandorli e soffioni?

Ci feriremo solo coi frammenti

Di porcellana sul piattino da tè.

martedì 25 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever, Interludio VII

Fine del primo interludio. Negli ultimi paragrafi si consuma una scena da target arancione.

Edit: è il mio centesimo post. Buon compleanno, caro blog.

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Nessuno li ha visti, nessuno ha parlato di loro, non una figura umana che s’interessi di cosa si stia consumando in quella stanza, ove ogni sera vi si sprangano, con il clangore di una serratura che mette a tacere ogni voce. Può un lutto serrare le bocche di qualsiasi individuo? L’arte del silenzio è il frusciare delle ombre. Le tende che s’aprono e si riversano da una finestra discosta: un fruscio.

«Lo soffri, eppure continui ad amare il freddo. Chiudi gli scuri, Evangeline.»

Una veste cala a terra, dopo che i lacci che racchiudevano il tutto – è lo schiudersi di un fiore, il dilagare di ogni emozione – sono stati sciolti da una mano rapita dal fremito dell’incoscienza. Le gonne turchesi prendono le forme di una distesa marina, una polla sull’aldilà che frantuma la monotonia del gelido marmo. Da esso, spunta una sirena dai capelli dipinti di sorbo. Dietro un paravento di fine carta vermiglia, una voce risponde: «Non ancora.»

Non ancora. Aspetta lì, Byron, sdraiato sul letto, lo sguardo triste e pensoso, la camicia sbottonata tanto che basta a far affiorare la pelle del cuore. Questo batte, bussa alle porte del desiderio, mentre lo sguardo rifugge dalle zone buie di un corpo nudo, un mimo perfetto, nascosto. Il sussurro della seta che lo riveste trascina con sé un muto grido, la dolcezza del suo suono è paura, sconcerto, indulgente disperazione. Le mani di lei annodano un fiocco dietro la schiena per stringere la vita in un abbraccio sottile.

Evangeline esce, i piedi nudi che calpestano il pavimento come se stessero galleggiando fra petali di rose, tra le braccia l’impacco maldestro del vestito da giorno, il mare che l’ha partorita. La vestaglia si ferma più su del ginocchio, ed è tenuta in cima da due fettucce rosse così come il tessuto. Si è sbrogliata i capelli, le ricadono sulla schiena in un rivolo di ciocche dalle sfumature ramate.

«Chiudi gli scuri, Evangeline. Prenderai freddo» insiste.

Fa finta di non sentirlo, getta l’abito su una poltrona azzurra e si avvicina al letto. L’alcova ha un soffitto intelaiato a fiori color orchidea e lampone, le cui foglie vanno a creare un manto intricato d’arabesque. Sui colonnati si sparpagliano motivi d’edera e malve intrecciate.

Lei gli poggia un dito sulle labbra quando questi fa per protestare, accostandosi al suo volto. «Voglio farti vedere una cosa.»

S’inginocchia e rimesta con un braccio sotto al baldacchino, alla ricerca di qualcosa. Quando ne riesce, ha in mano la sua valigia da disegno. Le borchie che ne costringono gli angoli sono ammaccate e scurite, il cuoio nero graffiato, caduchi protagonisti di viaggi e mostre, arti e lavori. La apre, e i ganci che ne legavano il contenuto scattano via all’unisono.

Una manciata di fogli si riversa a terra. Tutti i colori con cui dipingeva le anime del mondo, i barattoli in cui intingeva ogni emozione, i pennelli unghiati e sempre pronti a graffiare la tela, sono tutti spariti. Solo pagine, carte, pergamene – ogni tonalità capace d’accogliere tratti di grafite – è ciò che si scaglia sul pavimento come il getto di una fontana: un fruscio. Si nascondono per l’impiantito, piastrelle scalfite di volti e reami lontani, specchi che danno su una realtà distorta dall’effluvio di un incantesimo.

«Ma…» sfugge dalle labbra di Byron, più un suono impercettibile che un reclamo vero. Non lascia le coperte, ma ne infiora di pieghe infervorate la superficie liscia, le sue dita strette ad afferrare il tessuto.

«È tutto a posto» dice la donna. Si china a raccogliere il primo che ha toccato il suolo, lo tiene vicino al petto per non farne vedere il contenuto all’amato, è una bambina che protegge la sua bambola preferita stringendola al seno. Si siede appena sotto il bacino di lui, lasciando che le sue mani l’abbraccino, quindi rivolta il disegno perché lui possa osservarlo.

I colori sono sprazzi intonsi di luce su una scena dominata dal nero. Per una volta Evangeline non si è dedicata alle tenui tinte degli acquarelli, ma ha usato pastelli oliati per generare il fascino di un distacco infelice. Una, due, cinque spighe di lavande dai riflessi vitrei sono poggiate su un pianoforte verticale, e i tasti s’incavano sotto la loro premurosa pressione. La melodia delle terre di Provenza si sparge sugli spartiti appena sbozzati.

«Bianco, nero, bianco, bianco…» sussurra lei.

Il dipinto è ripreso di profilo, e si vede la figura in ombra di un uomo, seduto su uno sgabello di fronte allo strumento. Le braccia sono abbandonate sui fianchi, in un atto di mesta rinuncia, e gli occhi socchiusi paiono fremere allo sfiorare di ricordi distanti nel tempo. Un piede è poggiato sul pedale, quasi a voler spingere quel suono a non smorzarsi, a durare finché anche il destino non ne avrà tracciato una fine sicura.

È tutto buio, è la coltre della morte che si distende e si rivela sullo sfondo sfumato: una tenda bianca, così sottile che si intravede da essa l’infinità di un cielo stellato, e così pieghettata su se stessa, sgualcita, che le sue crespe formano un altro volto, femmineo, contrapposto a quello del giovane.

Il viso etereo si protende verso di lui, le labbra schiuse in un bacio consolatorio. E si sa, ora, che la macchia biancastra che rischiara parte della guancia del ragazzo è in verità una mano di fumo, una carezza proveniente dalle distese di un territorio sconosciuto. Vaucluse, non sei mai stata rifugio più bello.

«Non l’avevo finito. Non volevo mostrartelo prima, ma ora… ora era il momento giusto.»

«Sono io» constata Byron. Oramai il foglio giace fra le sue dita, gliel’ha strappato per perdersi fra i ricami della sua vita, coinvolta in una bozza piccola, inferma, delicata come la sua esistenza ora riposa appesa a un filo. E la lascia, inutile pergamena – che scivolasse pure in terra fra le sue compagne di carta. Si dimentica, nella notte, ciò che affolla le vie del tormento.

Prende Evangeline fra le braccia e la porta a stendersi su di sé. I primi baci si consumano nella disastrosa quiete di un segreto sussurrato troppo forte, nella bramosia di cadere vittime dell’ardore. Il gelo che proviene dalla finestra aperta è divenuto brezza piacevole, aria fresca da concedersi in respiri affannosi.

Byron fa scivolare le labbra sul collo della donna, percorrendone la pelle con la leggiadria di un accordo, e brividi di piacere scuotono il corpo di lei. La spallina le ricade sul braccio, mentre la bocca dell’uomo si muove lungo la spalla e scende, cauta, a liberarla da ogni pudore. Il giovane accoglie il suo seno turgido, pervaso da un profumo più caldo e tenero, che si scontra con la sua lingua ansiosa.

Più in basso, le mani di lui raccolgono la vestaglia in spire che sono il cristallizzarsi del volo di una farfalla, onde marine permeate da un sapore vermiglio, e in una carezza che sfiora i fianchi di lei porta il tessuto a cedere dalla carne.

Dita d’artista slacciano gli ultimi bottoni della stropicciata camicia di Byron, sfilano i calzoni di velluto marrone; a far compagnia ai sogni di lei dispersi al suolo, si aggiungono le vesti portate via con insofferenza. Un fruscio, e non è più silenzio.

«Ti prego, scappiamo incontro alle lavande in sboccio» lo implora lei.

E si chiude così, come se nulla fosse mai accaduto, un velo che si stende sulla fulgida superficie del mare… un bacio di luna per gli immigrati del cielo.

lunedì 24 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever, Interludio V

Dico solo questo: ci stiamo avvicinando a una svolta.

07/03/1823 – Interludio

Londra, Casa Hinchinghooke.

 

Il suono delle posate d’argento è lo straziante requiem dei cuori soli. Poche parole, solo quelle più necessarie, l’imbarazzo dell’infanzia perduta e delle memorie comuni: non v’è alone di consolazione, solo triste e immutata condivisione del dolore.

La composizione di frutta, nel vassoio al centro, pare attendere l’artista che ne dipingerà i tratti, con cauta lentezza e studio d’ombre. Giorno dopo giorno, aspettando l’ora del primo mattino, resterà lì a impolverarsi e a rinsecchirsi, finché di essa non rimarrà che un’immagine senza sapore.

I piatti sono pieni di ricordi, vuoti di cibo. I ghirigori attorno ai bordi, sapientemente dipinti da mani esperte, giacciono nella loro tenue tonalità salmone, e si tengono forza, filamento per filamento, lì a sospendersi in un cerchio nel bianco della porcellana.

Una domestica interrompe la quiete, portando un cesto di pane appena sfornato, caldo, poi tiepido, poi abbandonato a raffreddarsi intonso. È entrata da una porticina in legno, secondaria, con un intaglio in vetro nella parte alta che tuttora è appannato dai fumi della cucina. Quando rientra, l’uscio si richiude facendo vibrare l’argenteria accuratamente lucidata negli armadi a vista, con uno scampanellio che si riversa fra i vetri delle ante e dei ripiani.

«Quali sono i vostri programmi per la giornata?» Chiede Evangeline. Ha un segno sotto l’occhio sinistro, come una piega lasciata dal segno di un cuscino – un sogno interrotto, e le palpebre appena schiuse di chi è desto ma assonnato. Offre un sorriso prudente ai tre uomini che siedono alla tavola rettangolare.

Il più giovane, che le siede di fronte, prende un tovagliolo e se lo tampona sulle labbra. «Io e Delbert saremo fuori fino a stasera» dice, indifferente, quindi si passa le dita fra i capelli biondo cenere raccolti in un codino.

L’altro, seduto alla sua destra, annuisce con fare intento. Si dondola sui piedi della sedia, portando lo schienale in un’angolazione impossibile. Le labbra rosee come quelle di una fanciulla hanno una piega orgogliosa, carica di una dignità affetta dal risentimento. A ritmo del suo dondolio, le tende rosa pesco piegano in numerosi sbuffi da una delle vetrate, confondendosi al raso bianco dei veli più sottili e irrompendo nella sala da pranzo. Una finestrella è stata lasciata aperta per rinfrescare l’ambiente.

«Eva, che ne direste di prendere una boccata d’aria? La colazione è terminata, non c’è bisogno che ci tratteniamo più del dovuto. Sono certo che anche i miei fratelli abbiano le loro incombenze da svolgere» propone Byron e le prende una mano da sotto il tavolo, sgusciando fra i riccioli merlettati della tovaglia chiara, raggiungendola in uno spasimo d’amore.

Lei arrossisce, accorgendosi della sua impudenza, e con un cenno del capo che s’avvicina a un inchino si accommiata dai due: «Vi auguro di trascorrere una bella giornata.» Il suo sguardo si sofferma un istante in più su Delbert, che però non risponde, scuote soltanto la testa, lasciando che i ricci castani gli coprano parte del volto.

Mentre si allontanano, il parquet ricoperto dal tabriz persiano attutisce il ticchettio delle suole, il cui ritmo si uniforma a un solitario pendolo nell’angolo. Tic-tac, tic-tac, è anche il rumore dei telai che tessono fitti orditi nelle terre d’oriente.

Byron la trascina in giardino, attraverso una vetrata scorrevole che vi s’immette direttamente dalla stanza. Una ventata fresca li investe al primo impatto e la giovane rabbrividisce.

«Volete che rientri per prendervi una cappa?»

«No, Byron, non ce n’è bisogno. Sto bene così.»

Il prato fruscia sotto i loro passi sommessi, l’erba che si piega in dolci onde e che si rialza, carezzando le caviglie con un bisbiglio inudibile. Nel vialetto di pietre, fra un masso levigato e l’altro, sono cresciuti sparuti mucchi erbacei, da cui spuntano boccioli di timide primule. Il fiore giustifica i mazzi.

Il sentiero conduce, con una lieve salita, a un ponte in legno, con dei sostentamenti di ferro leggermente arrugginito ai bordi. Sotto la passerella gorgoglia un rivolo d’acqua pura, che si colora dei riflessi verdini della natura appena inselvatichita che lo circonda.

«Vi è sempre piaciuto, questo posto. Nelle primavere, bevevate l’acqua a lunghe sorsate, senza preoccuparvi delle macchie d’erba che vi sporcavano il vestito. Vi inginocchiavate lì, fra le libellule, pronta a spiccare il volo.» Indica una conca sabbiosa che immette gradatamente al rio, ampio in quel tratto non più di un paio di braccia. Per tutto il tempo non le ha mai lasciato la mano, e ora che sono saliti sul ponticello, il legno geme contrito ad ogni spostamento di peso.

«E tu mi trascinavi lontano, perché temevi che sarei potuta scivolare in acqua, nonostante il torrente sia poco profondo. Mi portavi sul ponte…»

«Vi bloccavo il corpo contro la balaustra che in estate gettava foglie di rampicanti a sfiorare le rive sotto di loro.»

«Come stai facendo ora.»

«E vi…» Una mano lo blocca, fermandosi sulle labbra di lui. Un paio d’occhi azzurri, intimoriti, bagnati di lacrime sospese sull’orlo dell’abbandono, si fissano in quelli dell’uomo. È una preghiera muta che induce al silenzio.

È il sussurro: «Smettila di darmi del voi. Ti prego, Byron, non posso sopportare più questo tuo lasciarmi indietro, lontana da te.»

Lui ride, poco più che un andirivieni, un tintinnio di felicità cosparso nell’aria. La condensa che spira dalla sua bocca, ora aperta, strascica fumi che velano vascelli d’intimità, vascelli di carta, con le ali ripiegate lungo le fiancate.

«E ti dicevo che eravamo solo un sussurro. Un sussurro nel vento, e che presto saremmo volati via con esso, danzando su quei piani impalpabili di una passione che ci allenta e poi restringe i nostri corpi in un tango che è veleno d’amore, scorre nelle mie mani intrecciate alla tua schiena e…»

E s’infiorano ali d’argento che trasudano disperazioni imperlate dal vuoto che li separa. Un respiro, due, è un sospiro che si trasforma in ordine e muta in piacere.

«E voleremo più giù, più su, più in fondo. Ove non si fa ritorno.»

domenica 23 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever, Interludio III

Lo so che conoscere la storia a spezzoni, saltando da un blog all’altro, è un po’ scomodo. Vi chiedo solo d’avere pazienza. Procediamo veloci, e in ogni caso potete sempre ricorrere alla pagina creata apposta per fare meno confusione possibile ;)

 

«Scacco matto.»

«Oh, perdessi meno spesso» sospira Evangeline.

«T’amerei di meno?» Il ragazzo fa per rimettere a posto le pedine, un giocatore accorto, che carezza ogni pezzo levigato con la stessa cura di una sarta che ammira la sua ultima creazione. Un sorriso mesto spunta appena dal suo volto, quindi prende un respiro e continua: «A dodici anni m’innamorai per la prima volta. Una ragazza di strada, capelli rossi, l’accento di Nantes. Una figlia di Satana.»

«Un po’ azzardato, per un bambino.» Lo aiuta nel richiudere la scacchiera in cristallo, dopo che l’esercito è ritornato silenzioso nelle sue bare, custodite da quella lastra lucida, troppo pulita per portarsi dietro così tante vite mangiate. Il re nero giace accanto alla sua regina, ma non si tengono per mano: muto è il ringraziamento verso quella figura femminea che, di nuovo, lo aveva salvato.

«Non ero immaturo» dice, quasi stesse cercando una scusa per il suo comportamento, quindi si alza dalla poltrona rivestita di velluto rosso. Il salone è pervaso dalla solitudine, solo il fuoco nel camino crepita stanco le sue lamentele. Pochi sono i riverberi di luce, qualche candela poggiata su un candelabro dorato, sparse per l’ampia stanza con la casualità di un cameriere distratto.

Tutto giace nell’immobile penombra di una scena da consumarsi al buio.

«Non lo sei mai stato, vero? Non hai età, non hai mai avuto anno in cui annotare un cambiamento nel tuo spirito.» Evangeline resta seduta, e osserva l’uomo percorrere il tavolino rotondo di legno, lentamente, un passo per volta, accompagnando il tutto con una mano che soprappensiero ne ripercorre il bordo incavato. Un dito che segue il percorso del destino, lasciandosi trasportare, senza rivolte.

«Ho cristallizzato la mia vita nel momento in cui mio padre è morto. L’ho visto cadere come un bicchiere di vetro. L’ubriaco tira un po’ la tovaglia, e il calice s’infrange al suolo. Sparge un veleno d’imbrogli.» Lo sguardo, invisibile, coperto da ombre fragili e impalpabili come nebbia, è privato anche del suo consueto chiarore. Il ricordo si disperde, è il liquido che macchia il tappeto una volta che il bicchiere ha completato la sua caduta. « Lei, la rossa… quella bambinetta dei miei sogni, colpa sua» e l’incertezza si diverte a colpire la sua voce in balbuzie stolida. «Mia madre mi aveva… avvisato, e così aveva fatto con lui. Chi ha i capelli di fuoco è solo un bugiardo partorito dall’inferno.» Una pausa: la voce roca sfuma nel soffio di una vita devastata. «Io ho aperto le porte dell’oltretomba, portandola in casa. Era un angelo sperduto fra la polvere di Vaucluse, ma poi s’è rivelato demone dell’anima mia.»

«Continua, per favore.»

«Fuggimmo, incontro alle lavande in sboccio. Vaucluse non è mai stata rifugio più casto: eravamo aliti dispersi nel vento, non eravamo nulla, eravamo la proiezione di un passato cancellato male. Io e la rossa, che ci confondevamo fra i fiori, amandoci fino allo scandalo, fino al disastro, il sangue che riverse la mia vita. Colpa sua, maledetta!» È arrivato alle spalle della donna, ma non la tocca. Osserva la dolce linea della sua nuca piegata in basso, i capelli castani raccolti in uno chignon semplice, gli occhi socchiusi in un ascolto assorto. Osserva le sue bugie, i suoi segreti taciuti, scivolare a terra e liberarsi della loro coltre di gelo.

«Lei… è ancora viva?» chiede.

«Oh, Eva, non sai che il demonio non muore?»

giovedì 20 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever, Interludio II

La porta è socchiusa. Non cigola, non produce rumore, quando una mano la spinge per entrare nella stanza. La figura viene investita dai raggi brucianti di un ultimo sole, che alla fine del suo percorso riesce a infuocare l’ambiente, intrufolando tiepidi serpenti di rubino da ogni interstizio.

Un odore di vernici la investe. Casa. Casa è dove c’è lui: dove ogni filo dei suoi capelli di grano si trascina il sapore dell’estate, dove la vita si consuma nei baci riversi sulla sua pelle luminosa.

Sta dipingendo. La sua mano, decisa nell’impugnare una penna, ora è insicura sulla tela e pare giocare con i peli del pennello che tratteggiano delicati il suo dolore.

Gli si avvicina, nonostante vorrebbe in cuor suo restare un’eternità a rimirarlo nell’ombra, sentendolo ignaro della sua presenza. Lascia scorrere le dita sul suo braccio – il primo tocco è un tuono che percuote le membra –, la camicia bianca arrotolata fino al gomito, quindi gliele avvolge attorno al polso con cui acquerella il quadro. Lo guida in alcune rifiniture, qualche istante per assaporare in pace il suo profumo di fiori di pesco, e cannella, e legno di sandalo. Un’armonia di sensi che le inebria la mente.

Ferma il tratto, ed entrambi tremano, hanno sempre tremato, delle foglie nate sullo stesso ramo di betulla e pronte a cadere sulle sponde del fiume. In silenzio. I loro sguardi non si cercano perché non ancora pronti a incontrarsi, rifuggono adocchiando il nulla.

È seduto su uno sgabello senza spalliera, e lei sente la sua schiena che le sfiora il grembo. Stavolta non è il corpetto azzurro troppo stretto a levarle il respiro, è una presa diversa a scuoterle l’animo. Quasi non si accorge di essersi chinata appena, per lasciar scivolare le labbra sul suo collo liscio, le spighe di grano della sua chioma che la sfiorano e le solleticano il viso, come una carezza data in un campo pronto al raccolto.

«Byron, mio Byron». È un sussurro che infrange ogni specchio.

martedì 18 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever 9

02/03/1823

Le Havre si è rivestita, con l’arrivo della tua lettera, di una calma surreale… pare aver trattenuto il fiato assieme a me, mentre leggevo. Mi avevi già preannunciato, giorni addietro, della grave fine cui andavi incontro, ma sentirne il dolore, palpabile, il tuo forse stupore a dover accettare il tutto… mi spiace.

Le vite volano via come un soffio, ognuno, in un modo o nell’altro, dovrà passare il periodo dell’ammissione di una perdita. L’arte di perdere non è difficile da imparare, diceva qualcuno. Anche se alla fine si tratta solo di relegare la sofferenza in una parte del cuore, farla giacere e maturare finché essa non deciderà da sola di raggiungere scogli più quieti, privata della forza della mareggiata, e divenire, ormai, un palpitare sordo, l’ombra triste di un ricordo lontano.

Vorrei essere lì con te, in questo momento, consolarti, per quanto le mie fragili membra possano riuscire a farlo. Non sono mai stata brava con le parole, ho comunicato, lungo la mia vita, solo per immagini: il narratore di ogni nostra ballata sei sempre stato tu, con le tue dita lunghe e sottili, da pianista, ogni storia un tasto – nero, bianco, nero, bianco, bianco… un tasto nero è la dolente visione di ogni racconto che non raggiunge il lieto fine. Non ti sembra ridicolo? Piccolo, relegato nell’alto, più duro a premersi, ma così struggente! Lucidato, si riflette dei lucori altrui, per nascondere sulla sua superficie solo gorghi oscuri in cui smarrirsi per sempre.

Ed è per questo che ritengo opportuno venire da te. A salvarti, finché può la mia sola presenza eluderti dal commettere sciocchezze. Non che non confidi nel tuo buon senso, o altro. Oh, non ho più voce per spiegarmi meglio. Desidero solo stare al tuo fianco, rassicurarti, stringerti la mano e con un bacio asciugarti una lacrima fuggitiva che s’allontana dai tuoi occhi tristi. Perdonami se non potrò essere in grado di fare altro, ma quel poco permettimi di donartelo.

Le giornate nella tua villa a Le Havre trascorrono lente. Tua zia è stata molto gentile con me, ad accogliermi come ha sempre fatto, nonostante stavolta tu non eri con me. Ha preso la notizia con garbata mestizia, ma nella notte l’ho sentita abbandonarsi a un breve pianto, nella sua stanza affianco alla mia.

È una donna forte. La mattina dopo, nella sua crocchia argentea, era di nuovo perfetta come lo è sempre stata. Solo due cambiamenti ne incutevano le sembianze: la veste nera, a collo alto, e una luce un po’ più spenta negli occhi.

Io ho trascorso oziosi pomeriggi di lettura. Non mi riesce facile abbandonarmi all’arte, quando ogni pennellata s’inasprisce di rimembranze infelici. Solo una storia può portare, in questo momento, la mia mente altrove: non immagini quanti mari ho navigato, quanti posti ho visitato, nella notte, all’alba, fra le coltri di un cielo cosparso da costellazioni diverse, più nuove, più vive! Ho letto con attenzione trasognata di amori così simili al nostro, ma che mai si sono rivelati più intensi del sentimento che custodisco in me.

Ieri, per festeggiare il sopraggiungere di Marzo – sai bene quanto ami questo mese, quanto gioisca delle ultime, sparute nevicate che ogni tanto mi fanno visita a sorpresa – mi sono addentrata nel giardino della villa, lasciando indietro il patio da cui sovente avevo già assaporato l’aria marina di Le Havre. Il sale pare corrodere qui, prima che negli altri luoghi, la neve che in Febbraio vi si era posata. Ho scovato, nei rami di un biancospino, spuntato come un fiore, un mucchietto residuo di neve. L’ho sfiorato, incauta, graffiandomi la mano e permettendo che i guanti in pizzo venissero pizzicati dalle fronde, ho goduto del suo tocco gelido e dell’incavo sciolto che il mio dito ha formato nel grumo. Per un istante mi sono sentita una bambina. Quante volte mi hai chiamato così, lambendo parti del mio animo che a me stessa erano ancora sconosciuti.

Passeggiare in solitudine, scortata dalle meraviglie della natura fino al pergolato d’ipomee che tanto amo, è stato piacevole e ritemprante. Forse l’ispirazione di un nuovo quadro, qualcosa, stavolta, di davvero sensazionale, si sta affacciando alle finestre della mia mente occlusa dalla nostalgia. Potrei provare a darvi una prima bozza a Londra, che ne pensi?

Ah! Dimenticavo di comunicartelo. È passato di qui tuo cugino per visitare la madre, durante un pomeriggio. L’ho trovato in ottima forma, fresco come un frutto estivo, e sono contenta che la moglie stia conducendo una vita felice. Mi ha chiesto, impudente, quand’è che anche noi decideremo di condurre in matrimonio la nostra relazione. Ho sviato la domanda con una risata lieve, dopodiché mi ha sfidato a scacchi per trascorrere il tempo, accorgendosi forse della sua sfrontatezza e ritornando sui suoi passi. Ha imparato bene dai tuoi insegnamenti, dalle diverse partite che abbiamo fatto non sono riuscita una volta a batterlo.

Sapendo della tua passata sosta, però, si è infervorato non poco. Credo siano due anni che non vi incrociate, dopo un’infanzia intera trascorsa fra le pareti di un’unica dimora, e tu hai eluso una delle possibilità che avevi anche solo per stringergli la mano, come si fa fra vecchi amici. Ha promesso che al tuo ritorno verrà di nuovo.

Ho l’impressione che non siano in pochi coloro che ti danno la caccia.

Post scriptum: nonostante tutto, la domanda del tuo parente mi ha scosso. Quando, per una buona volta, mi sposerai? Non ce la faccio più a far tacere i timori del cuore e le dicerie della gente.

Tua, per sempre,

Evangeline Leibniz

domenica 16 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever 7

Ormai lo sapete. I miei episodi vengono pubblicati sul mio blog, gli altri su quello di Vincenzo. Per leggere tutto, andate qui o qui.

Vi avviso che per questioni di cambi di trama e problemi di coincidenze, siamo stati costretti ad apportare lievi modifiche alle date e a qualche particolare delle lettere. Niente di che, se avete letto tutto finora non c’è bisogno che rileggiate il tutto ;)

21/02/1823 – Quarta lettera al mio amato

Ho deciso che resterò a Le Havre. Oh, non mi sfuggirai, stanne certo. Il tuo viaggio si è rivelato più breve del previsto, e io troppo lenta nel mio folle amore a rincorrerti, che già m’eri scivolato fra le dita. Sei come un nastro rosso, un legame che mi stringe il polso e che poi, per disattenzione o per un evento increscioso, si slega e vola al suolo. La tua stretta è sempre stata delicata, quasi impercettibile, ma nonostante tutto mi riscaldava. E ora, più che mai, è davvero questo calore che mi manca: sono fredda come una rosa abbandonata al gelo del più niveo degli inverni.

L’attesa… questa attesa, impagabile, per raggiungerti ancora, si sta scoprendo un periodo raro. Ho sempre avuto un temperamento agitato, tu stesso hai potuto… constatarlo, leggendo la mia ira repentina della scorsa lettera. Ma adesso ho tempo, finché la tua nave non salpi nuovamente alla volta del porto sicuro di Le Havre e delle mie braccia, per riflettere e far ragione dei miei sentimenti.

T’amo ancora, come quel primo giorno. Sotto il mio tocco, il mio sguardo desideroso, ti ho osservato mutare nella candida immagine di un quadro perfetto. È del mio amore che, prima di tutto, sono sicura.

Forse sto cominciando a perdonarti… oh, tutto, tutto questo, pur di averti di nuovo con me. Il fato s’è rivoltato contro i nostri cuori, un nodo nel filo scarlatto che ci lega, e che non vuole permetterci di toccarci ancora.

Ti aspetto. Interrompo qui il mio inseguimento, fino a che la mia anima riuscirà a resistere a questa distanza sgradevole e amara. Può darsi che più in là parta davvero, se solo potessi avere notizie tue e della tua povera madre… spero che questa situazione non si prolunghi più del dovuto. Il piacere dell’attesa che sto riscoprendo mi fa notare che, sai bene, si brucerà presto. È un piacere ingannevole che copre un bisogno ancor più impellente - parlo dei bisogni del cuore, quelli a cui non puoi mancare.

Non permettere che questa miccia arrivi alla sua fine, finirei per scoppiare.

sabato 15 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever 5

Ormai conoscete la storia. Per leggere le lettere di lui vi rimando alla nostra pagina di EFP, o altrimenti alla pagina di questo blog che vedrò di aggiornare il più spesso possibile.
P.S.: sarà il 2011 un anno produttivo? Non ho mai postato così tanta roba in così poco tempo.

12/02/1823 – Terza lettera

Finalmente sono tornata. Stanca, ch’era sera, o forse già notte inoltrata.
Sono tornata, bramando ogni volta il sapore fruttato della tua pelle, desiderandolo sempre di più ad ogni passo, ad ogni singolo sospiro di giglio, che mi avvicinava a quel quartiere parigino che tanto conosco, e che tanto mi è caro.
Ero lì, a strapparmi lo strascico della gonna da viaggio, tanto i miei piedi calpestavano veloci e agitati le pietre della strada, e i tacchi che vi s’impigliavano senza possibilità di scampo. Tanto correvo, per raggiungere il tuo portone in legno chiaro, e per sommergerlo, il sorriso al volto, di piccoli pugni di gioia. Aspettando che tu, dai piani alti, dal tuo studio – oh, riuscivo anche a vederlo! La luce giallognola delle candele che traspariva dall’ombra delle tende alla finestra, e un’ombra più scura, il tuo corpo chinato a scrivere – arrivassi trafelato a darmi quell’abbraccio di ben ritrovata.
Non che sia indifferente al fragile corpo della tua adorata madre.
Ma davvero il mio cuore ha urtato i cancelli della desolazione, schiacciato come un prigioniero in una gabbia per canarini, quando ha realizzato la tua spiacevole assenza.
Colonia è lontana da Parigi. Era un breve viaggio, solo le vacanze natalizie, niente più, per riappacificarmi con quei parenti lontani che da tanto non vedevo. Colonia è lontana, anche Londra… una manciata di giorni! Non ti avrei chiesto altro.
Dannazione al dì in cui il mio sguardo s’incatenò ai tuoi occhi di mandorla e cannella dispersa. M’hai frantumato l’anima!
Ora basta divagazioni, ecco com’è andata: ho trovato il tuo maggiordomo, solo, nella cucina, e mi ha consegnato la tua lettera. Non ha pronunciato parola, né un tocco di conforto, nulla, mentre mi scorgeva davvero sfiorire come una rosa arsa dal sole. Perché ribollivo di disperazione e dolore, ma anche – e soprattutto – di rabbia. Sì, sono irata con te!
Le tue promesse, vanificate in un soffio. Saremmo potuti partire assieme, affiancati nella stessa carrozza, soggiornare a Le Havre, là dove io ben ricordo che… no, non voglio ricordare ciò che ivi accadde. Ora, mi pare una romanticheria alle soglie del sogno, distante secoli o ere, lontana universi. E pensare che invece è stato solo quest’estate… tutto era cosparso dal profumo dei gelsomini in fiore.
Leggendo al flebile lume che il tuo maggiordomo mi offriva, ho lasciato cadere la valigia sottile che sempre porto con me. Era pronta per irrorare, una volta per tutte, il foglio candido delle tinte del tuo splendido corpo inondato d’amore. Quante mattine mi sono svegliata al tuo fianco, desiderando d’imprimerti così, nel tenue sonno fanciullesco e fra le lenzuola che a stento nascondevano le tue forme. Il mio corredo da disegno, precipitato al suolo! Un gesto così sconsiderato, ma così naturale… tremavo, lo ammetto, e non ho saputo più controllare altro che non fosse il battere delle mie ciglia per scacciare le lacrime. I miei pastelli, riversi a terra, sembravano da soli formare le tinte per un quadro di angosciosa bellezza, alcuni incrinati per la caduta, altri ancora mezzi infilati nella custodia del piccolo bagaglio. Hai distrutto un brandello della mia arte.
Sai bene che le mie mostre, e i tuoi astrusi viaggi da scrittore, finiscono sempre per dividerci. I momenti passati assieme sono una perla di mare che resta perennemente nascosta nel suo ruvido guscio, per proteggerla, per renderla più intima e preziosa di quanto già essa sia. Non puoi vendere la nostra ultima perla così. All’aria, all’asta, lanciala giocoliere, più in alto, cosicché tutti gli interessati possano vederne i riflessi luccicare alla luce. Via, via, chi è il compratore migliore? Tu, vigliacco, che giaci nell’ultima fila, e offri il tempo per comprarla, offri un affetto insulso per una madre che non vedi da anni.
Non sprecherò altre parole.
T’inseguo.
In capo al mondo.
venerdì 14 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever 3

La corrispondenza continua. Il secondo capitolo, ovvero la risposta, lo trovate sul blog di Vincenzo. Qui, sul mio, il primo.

27/01/1823 – Seconda lettera al mio amato

Caro. Sto partendo… sto tornando.
Il paesaggio che mi dice addio è di una struggente bellezza. La neve, nella notte buia, ha tinteggiato i prati sporchi del suo velo adamantino. L’aria è frizzante, pizzica appena il naso, e ne sento la frescura sotto le mie dita, infagottate in umidi guanti di raso. Vorrei carezzare queste dolci colline, ma è tardi… era tardi, quando vi ho dovuto dare l’ultimo saluto. E tuttora rimpiango di non essermi svegliata, nottetempo, per meravigliare per l’estrema volta la mia mente, con il lento discendere dei fiocchi e il loro danzare fra i bagliori di luna. Un giorno ti porterò con me, un giorno, fra questi boschi incantevoli, giocheremo a rincorrerci. Mi sbroglierai le gonne dai rami, quand’esse vi s’impiglieranno, birichine come i miei pensieri?
Una cameriera stamane è arrivata trafelata che già, triste, avevo posato il primo piede sul predellino della carrozza. Mi ha consegnato la tua lettera. Non posso non immaginare cos’avrei perduto e lasciato indietro, se non avessi indugiato quell’attimo in più a rimirare ciò che ero prossima ad abbandonare. Avrei dimenticato anche una parte preziosa del mio amato cuore!
Ora ti scrivo che i cavalli si muovono ad un allegro trotto, e se porto lo sguardo oltre la finestrella posso ammirare le campagne scorrere mute e solitarie al lato della strada. Che sciocchezza che sto facendo! Ho appoggiato una delle valigie in grembo e ivi, in fretta, vi ho aperto il calamaio e la penna, la pergamena stesa… non oso pensare a come s’imbratterebbe il mio vestito, se un incauto dosso scaraventasse tutto all’aria! Ma questo e altro, tutto, tutto per la gioia e la prontezza che mi porta a scriverti ancora.
Non so quanto durerà il viaggio. Forse rimarrò giorni senza la possibilità di comunicare con te: quest’amara riflessione mi strugge, il pennino tentenna al tremore della mia mano. Mi sento indifesa, senza le tue braccia a cingermi… e a sussurrarmi poesie.
Le tue poesie… sei l’unico che in una manciata di parole sa infiammarmi le membra, spezzettarmi l’anima, e poi raccogliere il tutto per creare una composizione solo tua: la mia vita rimodellata, una statua dagli occhi socchiusi in estasi.

Post scriptum: nel viaggio di ritorno mi fermerò alcuni giorni – meno di una settimana, in ogni caso – nella dimora di Madame Leroy, una mia vecchia conoscenza, per riprendere le forze. Il viaggio è lungo, e non me la sento di affrontarlo tutto d’un fiato: lei abita a Namur, quindi lungo la strada, ed è tanto che mi prega di farle visita. Spero che questo ulteriore ritardo non ti faccia spiacere.
martedì 11 gennaio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever

Un piccolo pensiero, una lettera che, in fin dei conti, parla molto di me. E quella nella foto qui sotto sono io, in effetti, mentre scrivo ^^

22122010799

23/12/1822 – Lettera al mio amato

 

Oggi, in qualche parte del mondo, è il compleanno di qualcuno. Forse il tuo.

Scrivo su un tavolo minuto che non mi è mai appartenuto, e che per caso s’è trovato in questa stanza dove sommariamente soggiorno. Il letto è a due posti, ed è strano addormentarsi da sola in questo vasto spazio, con coperte calde e morbidi cuscini che nella notte prendono forme umane, ma non mi abbracciano. O, almeno, non lo fanno come lo facevi tu.

Al nostro addio, ci siamo detti che nessuna distanza avrebbe potuto dividere i nostri cuori. L’uno nell’altro, mano nella mano, sangue che scorre in due vene di due corpi diversi, ma che – disgrazia! – è lo stesso, condiviso come una caramella fra due bambini. Ogni goccia mia ha sapore di te.

Oggi mi sono tagliata. Un piccolo graffio sull’indice, sottile. Colpa del gatto. Ed è sgorgato un po’ di sangue, sai? Ma non sapeva di te. Era aspro, acido, era solo mio, era qualcosa d’estraneo a ciò che ero abituata a condividere.

Posso aspettare. Posso aspettare di sentire di nuovo quella dolcezza scivolare fra il liquido rosso, e avvolgermi del suo incantevole odore. Ma intanto… ogni giorno senza di te – senza te con me – è come un coltello che va a recidere sempre la stessa ferita, e apre cascate acidule da cui non vorrei mai attingere vita.

La sedia da dove ora ti scrivo è un semplice sgabello in legno, la parte superiore rivestita di un cuscino duro e ruvido al tatto, color panna. Odio quel giallognolo che mischiano dappertutto, è un colore così obsoleto! Rivoglio la mia stanza acquamarina, quella che condividevo con te. E rivoglio quello specchio sottile in cui apparivo così fantastica, come lo eri tu quando mi sedevi al fianco e mi carezzavi la schiena, dolcemente, un ricordo cui per ora non desidero rimembrare. Altrimenti finirei per disperarmi ancora.

Qua lo specchio è un enorme lastrone posto in fronte alla scrivania, e ogni volta che alzo lo sguardo dalla pergamena vedo il mio volto deturpato dalla solitudine. Le guance incavate sotto il naso, che seguono lunghe curve fino ai bordi delle labbra, perennemente rivolti al basso. Gli zigomi sembrano ancora più appuntiti di come lo sono di solito, e il viso è gonfio, gonfio di dolore e della cioccolata che mangio. Divoro tutto, perché ho paura che la mia bocca, nell’astiosa brama di muoversi, cerchi altre lingue cui concatenarsi. Che pensiero stupido. Sono solo golosa. Golosa di qualcosa che s’avvicini al sapore del tuo collo, delle tue labbra, del tuo corpo…

I miei stessi capelli sono spenti. Vorrei che ci fossi tu a pettinarmeli; perché, ricordi? Ti dicevo che erano troppo lunghi, ma tu non volevi che li tagliassi, e allora mi venivi alle spalle, mi toglievi delicatamente la spazzola dalle mani e prendevi a lisciarmeli fino in fondo alla schiena. Eri così leggero che quasi non sentivo il tuo tocco, e i nodi restavano lì dov’erano perché temevi di farmi male, eseguendo più pressione del dovuto. Nodi che creavano un groviglio imbarazzante, invero, però quanto mi mancano, ora!

Posso aspettare a lungo, forse per sempre… e chiedermi quanto durerà questo maledetto viaggio lontano da te. Non ho nemmeno un ritratto che riassuma i tratti del tuo volto. Non ho avuto il tempo di fartelo. Deplorevole, non credi? È che ho paura di uccidere la tua bellezza, se solo cercassi di riprodurla con le mie mani grossolane, poco gentili. Tuttora ho paura, di cosa non so.

Mi sento come una margherita: m’ama, m’amerà ancora, davvero m’ama ancora? E intanto sfiorisco. Deliziosa, mi ritroverai che sarò solo un gambo! Un tuo bacio, solo uno, e sboccerò di nuovo. È una promessa.

PostHeaderIcon Il Cacciatore di Bolle

Per Clarissa.

Una scia di bolle si riversa nell’acqua, due, tre, quattromila lucide sfere che scompaiono e ricompaiono fra i flutti, e che inneggiano battaglia con la spuma biancastra loro compagna. Le si può vedere, dietro la barca, che continuano a rendere il mare uno smeraldo rilucente, bolle che sono i picchi brillanti delle sue oscure sfaccettature. Man mano che l’imbarcazione s’allontana con il lento rollare dei remi, anche loro spariscono alla vista, eppure, là, all’orizzonte dove la spiaggia diventa sempre più una striscia d’ignoto, uno sfavillare improvviso fa pensare che ce ne siano ancora. Per quanto tu le possa scacciare, per quanto questa scia possa perdersi fra le sue acque salmastre, un gruppo di bolle spavalde segnerà il cammino. E ne porterà il ricordo, come ogni bolla è un sogno che, al suo scoppiare, s’interrompe e si acquieta fra le lande del suo onirico mondo.

Seguendo il flusso al suo nascere, laddove i due filamenti schiumati d’iride s’incontrano in un solo punto, sulla chiatta si scorge un giovane uomo. Il sole di mezzogiorno batte sui suoi capelli indorati, tanto da rischiararli ancora e bruciarli nel caldo tempestivo di una primavera precoce.

I suoi occhi nocciola sono posati sul nulla, semichiusi, piccole gocce di sudore a truccarne le ciglia folte e a inasprirne la fronte liscia. Il ritmato remare pare non voler finire, un avanti e indietro delle solide braccia che non produce effetti, non ora che la visuale della terra è stata inghiottita, lontano, fra i rigurgiti delle onde, e l’instabile base su cui poggia la barca è una coperta fluttuante.

Lo sguardo del ragazzo pare essere concentrato su un particolare che sfugge, qualcosa di incommensurabilmente distante, come solo il sospiro di un pensiero può essere. Intanto che il tempo scorre, una lumaca di mare nell’impotente scenario d’un acquario domestico, la fotografia di questo singolare mondo assume i contorni della stanchezza, della noia. E della voglia di sapere, e scoprire, cosa nascondono l’acqua e le tenere bolle che ne pervadono la superficie.

L’uomo deve aver raggiunto il suo obiettivo, perché abbandona i remi di legno nelle incavature apposite, le punte che ancora sfiorano il pelo del mare in un solletico affettato, l’ombra delle loro forme affusolate che crea due chiazze più scure ai fianchi della chiatta. Quest’ultima è piuttosto piccola, tanto da sembrare una scialuppa di salvataggio di qualche veliero pirata, le stesse lastre lignee appaiono scheggiate in più punti e corrose dal sale, le cicatrici di numerosi, incantevoli viaggi. Nonostante tutto, la forma allungata della barca ne favorisce l’andamento veloce e la stabilità, come se inconsciamente non vedesse l’ora di frangersi sulle rive di nuove conquiste.

Un mormorio s’ode a interrompere la quiete. Lo sciabordare, sottofondo gradevole, ormai scompare, le orecchie acuite a cercare questo suono inquieto e a non perdersene una nota; come un gabbiano affamato, l’udito rapisce la melodia dalle fameliche braccia dell’abisso e ne trangugia ogni impercettibile squama.

«M’avevi chiamata, Cacciatore?»

Ed eccola là, regina del regno, una sirena s’è sporta dalle profondità sue dimore. Poggia le braccia sul bordo della barca, nella metà precisa della sua lunghezza, dove il giovane per qualche istante l’aveva attesa, seduto. Un appuntamento galante si dipana fra le brame del cielo, complice la meriggiata odorosa di saline e di pesci quasi come i pantaloni blu stinto di un pescatore, e avvolge piacevole i due.

La sirena ha una coda lunga che si disperde e sfuma le sue tonalità nell’acqua che le lambisce i fianchi in una carezza effimera e suadente. Ma lo stesso le sue scaglie, finché è possibile scorgerle, attirano per la loro inconsueta lucentezza: un acquamarina misterioso, ma non solo quello, il verde delle alghe e il colore innaturale di un pesce luna, l’effimera sfumatura di un frantume d’ametista, ogni singolo brandello di pelle che racchiude un segreto proveniente dal mare.

E lei li protegge, laggiù, tutti, come timidamente i capelli bagnati le proteggono i seni nudi, ricoprendoli dei loro boccoli castani.

«Mia dolce». Lui che si sporge, seduto su una delle panche malandate del suo tristo vascello carico di barattoli. Stipati, di mille e mille dimensioni diverse, sotto ogni banco, nel ripostiglio chiuso a prua, e nell’ammasso informe sull’altra sponda malamente coperto da un velo plastificato marrone, sembrano vuoti, infagottati nel tappo che ne sigilla l’interno. Ricordano i vasetti di marmellata fatta in casa, le etichette collose slavate dai numerosi lavaggi che assieme alla confettura li rende appiccicosi e sgradevoli al tatto. Alcune contengono qualcosa, oppure è solo un raggio solare più audace degli altri che le cosparge di una polvere d’arcobaleno e lascia intendere, appena, una bolla incatenata all’interno delle ampolle dell’alchimista distratto.

«Cosa vuoi, ancora?» gli occhi di lei, cosparsi dai brillanti di una mestizia sopita, s’inaspriscono con il tono di voce. Mia dolce! Se è così amabile la memoria che porti di me, amami davvero come il mio cuore vorrebbe.

«Dammi un tuo sogno» le si avvicina, fin troppo, tanto che il suo naso tocca quello della sirena, umido d’acqua e pallido, liscio come un frammento di rosa. Vuole, desidera quello che chiede, e la richiesta è quanto mai più simile a un ordine.

«Dammi un tuo bacio» l’eco della sua voce femminile e famelica, un incanto cui nessuno di solito sa resistere. Nessuno tranne il Cacciatore di bolle, che resta impassibile, o forse solo irritato.

E, infatti, egli si discosta, nonostante sia pronto a donarle ogni effusione lei gli chieda, pur di possedere un suo sogno. Ogni Cacciatore sa che non c’è niente di più prezioso della bolla di un respiro di sirena… «Respira, mia dolce, sotto quel velo d’acqua che t’ha fatto nascere». Ora il suo tono di voce è più sereno, ma quasi disperato nella pretesa.

«Ah! Vorrei non averti ascoltato, quando mi abbracciasti quella prima notte di tanti anni fa. Non ho più sogni di cui privarmi». Distoglie lo sguardo, posandolo fra i flutti dove la sua coda teneramente sbatte per mantenerla in superficie. Il suo muoversi per un momento si quieta, quasi voglia lasciarsi annegare dalle onde e interrompere ogni discorso. Tutti i sogni, se non uno… che quella notte, quando cominciai ad amarti, e m’amasti anche tu, continuasse per sempre.

«So che, invece, ne hai ancora». Una certezza, come il sorriso vispo che per un istante gli avvolge il viso. Ogni Cacciatore sa quanti sogni esistono al mondo, ogni bolla è un sogno da catturare: conservarlo, e tenerlo al sicuro, non farlo scoppiare. «I tuoi sogni diventano eterni, se solo li dai a me,» una pausa, e poi, perentorio: «dammene un altro».

«E tu, come li hai custoditi! Mi privi della possibilità di renderli vivi, non è questa una sofferenza di per sé atroce?» e infine la volontà ha il sopravvento, e davvero, in un battito di ciglia, la sirena scompare, solo un velo d’acqua increspato e una spruzzata di gocce a segnarne la partenza. Più giù, l’ultimo bagliore delle sue squame risponde all’arrivederci del lucore del sole. E il sogno di quest’amore, non lo darò mai a nessuno. Poiché, già adesso, è solo puro dolore.

Una lacrima nel mare riesce solo a renderlo più salato, e un pianto porta con sé il silenzio delle stelle che si gettano nel loro riflesso sull’acqua, fiocamente, un riverbero lontano. Di fronte alla distesa che balugina appena, un altro rischiararsi più recente sfoggia gocce di luce nella notte. Dagli edifici si scorgono le ombre del movimento all’interno delle finestre, varchi illuminati da lampade dal caldo colore giallino, e i lampioni delle strade punteggiano percorsi sconosciuti.

Un sentiero si fa largo fra esso, buio, oscuro, la via per la solitudine: s’avvinghia ai viandanti sperduti, agli innamorati non corrisposti, alle madri in pena per qualcosa che non sanno descrivere, un presentimento, la nostalgia, un rimpianto nascosto.

Il porto è incavato in una baia naturale, al di là di un promontorio su cui s’inerpica la cittadella. Poi, spiagge che degradano gradualmente nella riva, e lidi già chiusi, e nessuno di cui si scorgano le orme sulla sabbia battuta.

«Perché piangi?» una voce soave, attutita dal traffico della parte abitata e dal lungomare in fermento. Diversi metri però dividono la confusione della gente dal tetro rifugio nei pressi della risacca.

Il ragazzo, seduto sulla rena, alza gli occhi offuscati e cerca invano di ghermire nell’aria un volto, un ritratto, a cui accompagnare quelle parole. Ma il suo intuito è schiacciato dal peso della solitudine che, tempo prima, l’aveva ricondotto sul suo sentiero di sangue. Abbandona la ricerca, solo risponde: «Perché mi ero perso, e ora la mia vita m’ha ritrovato».

«Non puoi smarrirti di nuovo, se questo è capace di renderti felice?» chiede ancora. Il giovane s’accorge che il timbro è vagamente femminile, e si trascina dietro un’eco affabile come il frusciare delle onde.

«Non so il modo» tace per un istante, le labbra semischiuse per lasciarvisi insinuare un pensiero, una commiserata consapevolezza prima perduta, «non so più il modo». Ha una mano poggiata sulla fronte, a reggere una frangia sbarazzina del color dell’oro.

«Comunque, hai perduto questo». Si sente il rumore di qualcosa di metallico sbattuto in terra, il clangore smorzato dagli sbuffi dei granelli di sabbia che si dividono per raccogliere in una conca l’oggetto. La voce continua, un’altra domanda: «Cos’è?»

Lui prende il manufatto e se lo rigira fra le mani, un sorriso lieve che gli increspa le labbra. Fra i palmi sente un manico lungo e legnoso, e alla punta quella rete dalle trame vicine, una pellicola viscosa e lievemente appiccicosa come la tela di un ragno, tesa a unire gli spazi fra i filamenti. Sotto i piedi nudi, avverte d’improvviso l’acqua fresca della sera lambirgli le dita. Quando si era seduto, era ancora il tramonto, e la marea non era così alta. «È il mio retino acchiappa-bolle». L’altra gli risponde con una risata cristallina, e il lieve battere di qualcosa… gli ricorda la coda di un pesce che s’agita sul bancone di un pescatore. «Cosa ci trovi di tanto ridicolo?». Fa lui, sprezzante.

«Niente», dice la donna, ma il richiamo del suo riso le rende le parole tremule e acute. «Dimmi, Cacciatore, cosa ci trovi tu di tanto bello nell’acchiappar bolle?».

Il ragazzo sussulta sentendo una mano bagnata agguantargli il braccio sinistro in una stretta delicata. Volta il viso in quella direzione, e i suoi occhi incontrano quelli di una giovane che gli sta sorridendo. Nella luce delle stelle, vede un bagliore tentennare sulle sue pupille, ma i colori sono sfocati, persi in un gioco di flebili chiaroscuri e blu intensi. Si lascia catturare da quello sguardo marino, e comincia a parlare: «Trovo sogni. Li conservo» si ferma, come cercando di trovare una via semplice per racchiudere il tutto, e scacciare la confusione dal volto di lei. Le loro mani ora sono intrecciate, e il suo profumo salato gli inebria la mente.

«Sono… un Cacciatore di bolle. Ogni bolla è un sogno, e quando essa scoppia anche il sogno scompare, forse per una dormita interrotta, lo svegliarsi da un incubo, la fermata del treno tanto atteso che di colpo arriva troppo presto. Una sveglia che ti scuote di prima mattina» viene impadronito da un tentennamento breve quanto un respiro preso, profondo, a incanalare nei polmoni l’aria fresca della calma serata estiva. «C’è qualcosa di affascinante nel rubare quei sogni prima che scompaiano del tutto.»

«Cacciatore! Ladro, invero. Che te ne fai, di tutti questi sogni?» la fanciulla è incuriosita, e a ogni verbo pronunciato si fa più vicina, attratta da lui, uno sciabordio sommesso che accompagna ogni sua mossa.

«Li conservo» di nuovo lo stesso termine, per descrivere il suo compito, il suo inafferrabile gioco. «Ho delle ampolle in cui le bolle non potranno mai rompersi. Dovresti vederle, nello scantinato, tutte insieme danno l’impressione di un magazzino angelico. Un tocco di luce e ti trovi sommerso in un arcobaleno abbagliante. I sogni lì saranno eterni, mentre le persone a cui li ho sottratti continueranno a vivere normalmente… senza di essi».

«È crudele» sussurra lei, e il suo respiro arriva a sfiorargli la guancia in un tenero tocco.

«È normale. Non puoi interrompere un sogno. I sogni sono qualcosa di speciale, di fragile. Vanno tenuti al sicuro, lontano da chi non ne comprende la vera importanza, da chi non ne apprezza la frangibile bellezza». Un velo di malinconia si posa sul tono del giovane.

«Parlami delle bolle, invece. Sono solo semplici bolle! Ne esisteranno a miliardi, nel mondo, troppe per essere tutte sogni» l’incredulità di lei è tangibile nell’aria.

Il ragazzo cerca il suo sguardo. «Forse non sogni abbastanza».

«E tu? Hai ancora qualche sogno?».

«Non ne ho mai avuti».

Esistono tanti tipi di bolle, ognuno per una specifica varietà di sogno. Il ribollire dell’acqua in una pentola per cuocere la pasta, le bollicine dello sbrodolare di un bambino o quelle che spuntano su una pozzanghera mentre piove. Il bagnoschiuma in una vasca, il sapone fatto apposta per le bolle. Il respiro di qualcuno sott’acqua.

Il respiro di una sirena. Quanti le ho già rubato? Quanti ne ho mozzati, con i miei baci, e le bolle che mi ha donato?

Il Cacciatore si getta nel mare, dietro alle ultime chiazze di colore che rivelano la presenza di lei. Nuota, per quanto sa, fino in fondo agli abissi, il fiato che gli manca in gola ad ogni apertura delle braccia in più, ad ogni grado di temperatura che s’allontana come la macchia indistinta del sole sopra di loro.

Ricorda il sapore del bacio che quella notte si scambiarono, sotto un cielo privo di luna, e i sogni che cominciò a rubarle da allora, da quando s’accorse di quella sua natura gentile e stupenda. Ricorda il sapore della sua pelle, che in quegli anni non è mai cambiato, fresco come il succo di una noce di cocco, salato e piacevole come un riccio di mare. Prezioso come una rara conchiglia.

Sempre più in basso, a caccia di un sogno. E il paesaggio, quest’acqua inconsuetamente gelida che perfora i pori del viso e pizzica le mani, è davvero da sogno. Si estende, placido, in ogni direzione, e avvolge tenero, una coperta che leva i sensi e intorpidisce le membra, e guida a un sonno vicino.

Le sue braccia lo circondano, anche se non sa da dove è spuntata. Fino a un attimo prima sembrava così distante, sembrava che l’avesse persa, e il Cacciatore non voleva che perdersi con lei. Ma ora la sirena lo sta abbracciando e lo stringe forte, il calore del suo petto che con il contatto si diffonde nel suo corpo infreddolito.

Vede le bolle del respiro della donna creare un vortice attorno al suo volto, mischiarsi con i batuffoli dei capelli castani sparsi tutt’attorno e salire in un vortice verso l’alto. Piccole, incredibilmente pregiate, perle rilucenti dell’ultimo sogno della sirena. E nel loro baluginio d’arcobaleno, scorge uno specchio di loro due, quella notte, e per tutti gli incontri a venire, un diorama di ogni bacio e ogni carezza, e ogni tenero contatto.

Un sogno non eterno, forse il più debole e fragile che avesse mai cercato di racchiudere nelle sue ampolle malandate. Se solo non fosse stato un Cacciatore, se solo avesse potuto averne, è certo che quello sarebbe stato un sogno anche suo. E, quando l’ultimo respiro gli sfugge dalle labbra, negli occhi già socchiusi a lasciarsi smarrire dal sonno, una piccolissima bolla s’innalza danzando a confondersi con quelle di lei.



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