I Can Wait Forever
20:31
23/12/1822 – Lettera al mio amato
Colonia.
Oggi, in qualche parte del mondo, è il compleanno di qualcuno. Forse il tuo.
Scrivo su un tavolo minuto che non mi è mai appartenuto, e che per caso s’è trovato in questa stanza dove sommariamente soggiorno. Il letto è a due posti, ed è strano addormentarsi da sola in questo vasto spazio, con coperte calde e morbidi cuscini che nella notte prendono forme umane, ma non mi abbracciano. O, almeno, non lo fanno come lo facevi tu.
Al nostro addio, ci siamo detti che nessuna distanza avrebbe potuto dividere i nostri cuori. L’uno nell’altro, mano nella mano, sangue che scorre in due vene di due corpi diversi, ma che – disgrazia! – è lo stesso, condiviso come una caramella fra due bambini. Ogni goccia mia ha sapore di te.
Oggi mi sono tagliata. Un piccolo graffio sull’indice, sottile. Colpa del gatto. Ed è sgorgato un po’ di sangue, sai? Ma non sapeva di te. Era aspro, acido, era solo mio, era qualcosa d’estraneo a ciò che ero abituata a condividere.
Posso aspettare. Posso aspettare di sentire di nuovo quella dolcezza scivolare fra il liquido rosso, e avvolgermi del suo incantevole odore. Ma intanto… ogni giorno senza di te – senza te con me – è come un coltello che va a recidere sempre la stessa ferita, e apre cascate acidule da cui non vorrei mai attingere vita.
La sedia da dove ora ti scrivo è un semplice sgabello in legno, la parte superiore rivestita di un cuscino duro e ruvido al tatto, color panna. Odio quel giallognolo che mischiano dappertutto, è un colore così obsoleto! Rivoglio la mia stanza acquamarina, quella che condividevo con te. E rivoglio quello specchio sottile in cui apparivo così fantastica, come lo eri tu quando mi sedevi al fianco e mi carezzavi la schiena, dolcemente, un ricordo cui per ora non desidero rimembrare. Altrimenti finirei per disperarmi ancora.
Qua lo specchio è un enorme lastrone posto in fronte alla scrivania, e ogni volta che alzo lo sguardo dalla pergamena vedo il mio volto deturpato dalla solitudine. Le guance incavate sotto il naso, che seguono lunghe curve fino ai bordi delle labbra, perennemente rivolti al basso. Gli zigomi sembrano ancora più appuntiti di come lo sono di solito, e il viso è gonfio, gonfio di dolore e della cioccolata che mangio. Divoro tutto, perché ho paura che la mia bocca, nell’astiosa brama di muoversi, cerchi altre lingue cui concatenarsi. Che pensiero stupido. Sono solo golosa. Golosa di qualcosa che s’avvicini al sapore del tuo collo, delle tue labbra, del tuo corpo…
I miei stessi capelli sono spenti. Vorrei che ci fossi tu a pettinarmeli; perché, ricordi? Ti dicevo che erano troppo lunghi, ma tu non volevi che li tagliassi, e allora mi venivi alle spalle, mi toglievi delicatamente la spazzola dalle mani e prendevi a lisciarmeli fino in fondo alla schiena. Eri così leggero che quasi non sentivo il tuo tocco, e i nodi restavano lì dov’erano perché temevi di farmi male, eseguendo più pressione del dovuto. Nodi che creavano un groviglio imbarazzante, invero, però quanto mi mancano, ora!
Posso aspettare a lungo, forse per sempre… e chiedermi quanto durerà questo maledetto viaggio lontano da te. Non ho nemmeno un ritratto che riassuma i tratti del tuo volto. Non ho avuto il tempo di fartelo. Deplorevole, non credi? È che ho paura di uccidere la tua bellezza, se solo cercassi di riprodurla con le mie mani grossolane, poco gentili. Tuttora ho paura, di cosa non so.
Mi sento come una margherita: m’ama, m’amerà ancora, davvero m’ama ancora? E intanto sfiorisco. Deliziosa, mi ritroverai che sarò solo un gambo! Un tuo bacio, solo uno, e sboccerò di nuovo. È una promessa.
10/01/1823 – Lettera alla mia amata
Parigi.
Io posso aspettare. Per sempre, forse, per un secondo, due o magari anche tre, l’inseguire un filo rosso che imbroglia il nostro destino.
Ti scrivo che ora è sera, con macchie di luce come steli allungati sulla pergamena, muovo le dita e il pennino scivola, con la sua piuma, sono impigliati i nostri sogni. Oh, mia donna, c’è sempre la paura che essi s’infrangano per la strada.
Ora, il crepitare del fuoco, ch’abile dolor frammisto alle note più basse della tua mancanza, scalda queste lettere, forse troppo acute, algide, vigliacche.
Ora, avrei voglia di tirarmi indietro.
Ma ahimè, questo pensier che mi strugge, questo filo rosso che pian piano storno a me, e che un giorno all’altro, finirà. E tu, magari, tra le mie braccia, mi dirai ti amo.
“E... m’ama? M’amerà”. Pizzicheremo assieme petali di margherita, per scoprirlo.
Tra poco, quest’arso crepuscolo, si laverà da solo, tingendosi in un corteo abbagliante di stelle, che fioco bisbiglia alla luna. E io, non son forse tra quelli? Non son forse, anch’io, a bisbigliare il mio rorido amore a te luna, alla più bella?
27/01/1823 – Seconda lettera al mio amato
Sulla strada per Parigi.
Caro. Sto partendo… sto tornando.
Il paesaggio che mi dice addio è di una struggente bellezza. La neve, nella notte buia, ha tinteggiato i prati sporchi del suo velo adamantino. L’aria è frizzante, pizzica appena il naso, e ne sento la frescura sotto le mie dita, infagottate in umidi guanti di raso. Vorrei carezzare queste dolci colline, ma è tardi… era tardi, quando vi ho dovuto dare l’ultimo saluto. E tuttora rimpiango di non essermi svegliata, nottetempo, per meravigliare per l’estrema volta la mia mente, con il lento discendere dei fiocchi e il loro danzare fra i bagliori di luna. Un giorno ti porterò con me, un giorno, fra questi boschi incantevoli, giocheremo a rincorrerci. Mi sbroglierai le gonne dai rami, quand’esse vi s’impiglieranno, birichine come i miei pensieri?
Una cameriera stamane è arrivata trafelata che già, triste, avevo posato il primo piede sul predellino della carrozza. Mi ha consegnato la tua lettera. Non posso non immaginare cos’avrei perduto e lasciato indietro, se non avessi indugiato quell’attimo in più a rimirare ciò che ero prossima ad abbandonare. Avrei dimenticato anche una parte preziosa del mio amato cuore!
Ora ti scrivo che i cavalli si muovono ad un allegro trotto, e se porto lo sguardo oltre la finestrella posso ammirare le campagne scorrere mute e solitarie al lato della strada. Che sciocchezza che sto facendo! Ho appoggiato una delle valigie in grembo e ivi, in fretta, vi ho aperto il calamaio e la penna, la pergamena stesa… non oso pensare a come s’imbratterebbe il mio vestito, se un incauto dosso scaraventasse tutto all’aria! Ma questo e altro, tutto, tutto per la gioia e la prontezza che mi porta a scriverti ancora.
Non so quanto durerà il viaggio. Forse rimarrò giorni senza la possibilità di comunicare con te: quest’amara riflessione mi strugge, il pennino tentenna al tremore della mia mano. Mi sento indifesa, senza le tue braccia a cingermi… e a sussurrarmi poesie.
Le tue poesie… sei l’unico che in una manciata di parole sa infiammarmi le membra, spezzettarmi l’anima, e poi raccogliere il tutto per creare una composizione solo tua: la mia vita rimodellata, una statua dagli occhi socchiusi in estasi.
Post scriptum: nel viaggio di ritorno mi fermerò alcuni giorni – meno di una settimana, in ogni caso – nella dimora di Madame Leroy, una mia vecchia conoscenza, per riprendere le forze. Il viaggio è lungo, e non me la sento di affrontarlo tutto d’un fiato: lei abita a Namur, quindi lungo la strada, ed è tanto che mi prega di farle visita. Spero che questo ulteriore ritardo non ti faccia spiacere.
12/02/1823 – Seconda lettera alla mia amata
Parigi.
Oh, mia dama, che quel filo rosso di cui v’avevo parlato non imbrogli davvero il nostro fato? E che esso sia sgraziato non v’è dubbio.
Notre-Dame è una stella scesa in cielo, di quelle infervorate dai sospiri della mezzanotte. E mentre questa scoloriva i suoi panni oramai usurati, è dentro al mio core che s’aperta una frattura.
Stamane, il nitrire dei cavalli fu il tristo annunzio della mia partenza. Con tal rammarico ve ne chiedo venia, che il vostro solerte animo non disdegni ciò che mi spinge a farlo.
Parto col respiro asciugato in ciò che scrivo, sulla mia grafia è dove passa il vento. Poiché ebbi la sacrale notizia di mia madre, che reclama il mio nome al suo capezzale morente. Mi sento quasi in imbarazzo a confidarlo a voi. E pure è tutto questo che posso fare, celarmi dietro la vostra ira che scalcerà ai portoni della mia residenza. Ho paura, mia signora, che quando voi arriverete agli spalti di questa città, io sia già troppo lontano per udire ancora il rumore del vostro battito.
Ora vi scrivo, il calamaio stretto tra le cosce, sulla condensa di questo finestrino che frappone il mio sguardo al mondo. Bagna il retro di questo foglio, così sottile. A vostra differenza, non ho valigie su cui incidere le mie sentenze, non ne ho portate. La fretta che mi ha ingiunto il grave stato di mia madre ha indotto a portare solo le carte della mia novella, racchiuse in una sacca di camoscio marrone, e fogli bianchi a cui è stato estirpato quest’immaturo su cui ora scrivo. L’altri fogli, casti del mio inchiostro, saranno impregnati dal dolore di questa imminente morte. Il dolore di una, ahimè, certa morte a cui vado a porgere i miei ultimi saluti. Ma sarà un attimo, ve lo giuro, mia dama.
E ancora gli attimi che ci separano sono infiniti. E non è forse vero che un attimo è per sempre?
Londra, mentre osservo questi fiocchi di neve che scendono giù dalle stelle, è l’angosciosa sorte a cui vado incontro.
E che sappiate perdonarmi. Stringere il nodo della benedizione attorno ai pensieri che mi concederete, che sian lieti o mesti.
Oh, addio, monna musa!
Addio! Addio!
Post scriptum: Speditemi le vostre lettere a Casa Hinchinghooke, nell’amata Londra a cui sto per far ritorno. Al mio arrivo, avrò modo di leggerle. Ho ancora bisogno dei vostri umidi baci, non scordatelo.
12/02/1823 – Terza lettera
Parigi.
Finalmente sono tornata. Stanca, ch’era sera, o forse già notte inoltrata.
Sono tornata, bramando ogni volta il sapore fruttato della tua pelle, desiderandolo sempre di più ad ogni passo, ad ogni singolo sospiro di giglio, che mi avvicinava a quel quartiere parigino che tanto conosco, e che tanto mi è caro.
Ero lì, a strapparmi lo strascico della gonna da viaggio, tanto i miei piedi calpestavano veloci e agitati le pietre della strada, e i tacchi che vi s’impigliavano senza possibilità di scampo. Tanto correvo, per raggiungere il tuo portone in legno chiaro, e per sommergerlo, il sorriso al volto, di piccoli pugni di gioia. Aspettando che tu, dai piani alti, dal tuo studio – oh, riuscivo anche a vederlo! La luce giallognola delle candele che traspariva dall’ombra delle tende alla finestra, e un’ombra più scura, il tuo corpo chinato a scrivere – arrivassi trafelato a darmi quell’abbraccio di ben ritrovata.
Non che sia indifferente al fragile corpo della tua adorata madre.
Ma davvero il mio cuore ha urtato i cancelli della desolazione, schiacciato come un prigioniero in una gabbia per canarini, quando ha realizzato la tua spiacevole assenza.
Colonia è lontana da Parigi. Era un breve viaggio, solo le vacanze natalizie, niente più, per riappacificarmi con quei parenti lontani che da tanto non vedevo. Colonia è lontana, anche Londra… una manciata di giorni! Non ti avrei chiesto altro.
Dannazione al dì in cui il mio sguardo s’incatenò ai tuoi occhi di mandorla e cannella dispersa. M’hai frantumato l’anima!
Ora basta divagazioni, ecco com’è andata: ho trovato il tuo maggiordomo, solo, nella cucina, e mi ha consegnato la tua lettera. Non ha pronunciato parola, né un tocco di conforto, nulla, mentre mi scorgeva davvero sfiorire come una rosa arsa dal sole. Perché ribollivo di disperazione e dolore, ma anche – e soprattutto – di rabbia. Sì, sono irata con te!
Le tue promesse, vanificate in un soffio. Saremmo potuti partire assieme, affiancati nella stessa carrozza, soggiornare a Le Havre, là dove io ben ricordo che… no, non voglio ricordare ciò che ivi accadde. Ora, mi pare una romanticheria alle soglie del sogno, distante secoli o ere, lontana universi. E pensare che invece è stato solo quest’estate… tutto era cosparso dal profumo dei gelsomini in fiore.
Leggendo al flebile lume che il tuo maggiordomo mi offriva, ho lasciato cadere la valigia sottile che sempre porto con me. Era pronta per irrorare, una volta per tutte, il foglio candido delle tinte del tuo splendido corpo inondato d’amore. Quante mattine mi sono svegliata al tuo fianco, desiderando d’imprimerti così, nel tenue sonno fanciullesco e fra le lenzuola che a stento nascondevano le tue forme. Il mio corredo da disegno, precipitato al suolo! Un gesto così sconsiderato, ma così naturale… tremavo, lo ammetto, e non ho saputo più controllare altro che non fosse il battere delle mie ciglia per scacciare le lacrime. I miei pastelli, riversi a terra, sembravano da soli formare le tinte per un quadro di angosciosa bellezza, alcuni incrinati per la caduta, altri ancora mezzi infilati nella custodia del piccolo bagaglio. Hai distrutto un brandello della mia arte.
Sai bene che le mie mostre, e i tuoi astrusi viaggi da scrittore, finiscono sempre per dividerci. I momenti passati assieme sono una perla di mare che resta perennemente nascosta nel suo ruvido guscio, per proteggerla, per renderla più intima e preziosa di quanto già essa sia. Non puoi vendere la nostra ultima perla così. All’aria, all’asta, lanciala giocoliere, più in alto, cosicché tutti gli interessati possano vederne i riflessi luccicare alla luce. Via, via, chi è il compratore migliore? Tu, vigliacco, che giaci nell’ultima fila, e offri il tempo per comprarla, offri un affetto insulso per una madre che non vedi da anni.
Non sprecherò altre parole.
T’inseguo.
In capo al mondo.
19/02/1823 – Terza lettera alla mia amata
Le Havre. Lettera non giunta a destinazione.
Vi scrivo sopra i banchi di una stanza abitata da ricordi troppo densi, si fanno strada, vibrano come echi negli anditi bui di questo palazzo, ove ora ricucio la mia infanzia. Sono nato qua, vi ricordate? Rammentate di quell’estate quand’io vi conobbi? Era sera, e il vento laminava ogni stanza, le luci delle lanterne ch’ora sporgono da questi muri illuminavano il vostro volto, così ambrato, delizioso, miele funesto, insito del veleno più dolce.
Rimembrate le ore gentili in cui la vostra mano scorreva sulla tela ora vuota, ora colma dei tratteggi di esili pennelli, i volti che prendevano vita nelle tinte decise che incidevate con grazia propria, e si affinavano lungo gli orizzonti che ponevate, cesellati tramonti che… Le mie dita s’aprono lungo l’aria, sento lo scoccare del vostro cuore, il pennello impietrito nella mano vostra destra, richiudo con fermezza il pugno dei miei brividi al vostro polso, il pennello che casca giù, quel lieve sibilare che sfuma nell’ombra delle vostre labbra volte alle mie e in quell’attimo, un frantume di silenzio sceso in mezzo, i cocci si ricompongono nello scorrere dell’elisir di lunga vita. La porta s’apre.
Un vostro bacio, tutto ciò che bramo.
Proprio in questa stanza, bruto scherzo del destino che mi distoglie dalle parole.
In questi quadri incorniciati da trafori d’oro, leggo quasi il distacco che v’ho sempre posto, quello che v’è dall’oro alla tela, il passepartout, un lenzuolo candido in cui vi trattengo. Per farvi sentire unica regnante del mio corpo. Questo porgervi lontana, questo voi che v’incava nella crisalide di cristallo che ho cercato di costruirvi attorno, invano.
È normale, penso, che questo filo s’allunghi sempre più. È normale che prima o poi sarà crudelmente reciso.
In serata ho fatto una camminata nei dintorni. L’aria tagliente e la neve che insiste s’era placata, e la patina a ricoprire il tutto, dolcemente, ha reso una piacevole passeggiata nella quiete di questi anni. Si respira un’aria stabile, un’armonia dei sensi che quasi mi trasferirei qui. Sapete, vi ho comprato una tavoletta di cioccolato, quello che voi amate, alla cannella. Lo divoravamo assieme di nascosto, rubato dalle riserve in cucina. L’ho avvolto in una carta che scricchiolante era dir poco, crepitava, rossa, come il fuoco del mio cuore, come quella vampa che è finita per ardere anche voi. Ho messo il nastro, come il broncio, l’ira inestricabile che so abbiate in volto quest’ora e non saprete mai perdonarmi.
Ora, la tormenta si è risvegliata. Vi devo lasciare, quasi le mie dita non riescono a staccarsi dal pennino impregnato dell’odoroso inchiostro di cui è amante, e scenderò giù nella tavolata di questi miei parenti, già immagino le candele che bruciano come il nostro amore, da troppo tempo cristallizzato nelle lacrime dei dorsi e, oh, mai consumato.
Domani sarà la volta di partire. Non vedo l’ora che quest’inferno finisca per riavere le vostre mani, labbra, il vostro corpo.
Ritornerò. È una promessa.
Non vi muoviate. È un ordine.
21/02/1823 – Quarta lettera al mio amato
Le Havre.
Ho deciso che resterò a Le Havre. Oh, non mi sfuggirai, stanne certo. Il tuo viaggio si è rivelato più breve del previsto, e io troppo lenta nel mio folle amore a rincorrerti, che già m’eri scivolato fra le dita. Sei come un nastro rosso, un legame che mi stringe il polso e che poi, per disattenzione o per un evento increscioso, si slega e vola al suolo. La tua stretta è sempre stata delicata, quasi impercettibile, ma nonostante tutto mi riscaldava. E ora, più che mai, è davvero questo calore che mi manca: sono fredda come una rosa abbandonata al gelo del più niveo degli inverni.
L’attesa… questa attesa, impagabile, per raggiungerti ancora, si sta scoprendo un periodo raro. Ho sempre avuto un temperamento agitato, tu stesso hai potuto… constatarlo, leggendo la mia ira repentina della scorsa lettera. Ma adesso ho tempo, finché la tua nave non salpi nuovamente alla volta del porto sicuro di Le Havre e delle mie braccia, per riflettere e far ragione dei miei sentimenti.
T’amo ancora, come quel primo giorno. Sotto il mio tocco, il mio sguardo desideroso, ti ho osservato mutare nella candida immagine di un quadro perfetto. È del mio amore che, prima di tutto, sono sicura.
Forse sto cominciando a perdonarti… oh, tutto, tutto questo, pur di averti di nuovo con me. Il fato s’è rivoltato contro i nostri cuori, un nodo nel filo scarlatto che ci lega, e che non vuole permetterci di toccarci ancora.
Ti aspetto. Interrompo qui il mio inseguimento, fino a che la mia anima riuscirà a resistere a questa distanza sgradevole e amara. Può darsi che più in là parta davvero, se solo potessi avere notizie tue e della tua povera madre… spero che questa situazione non si prolunghi più del dovuto. Il piacere dell’attesa che sto riscoprendo mi fa notare che, sai bene, si brucerà presto. È un piacere ingannevole che copre un bisogno ancor più impellente - parlo dei bisogni del cuore, quelli a cui non puoi mancare.
Non permettere che questa miccia arrivi alla sua fine, finirei per scoppiare.
26/02/1823 – Quarta lettera
Londra, Casa Hinchinghooke.
La finestra cigola. La candela fraseggia nel suo tremante abbraccio. Nastri ocra screziati sulle pareti di questo pallido inferno. Davvero, potreste capirmi? È opprimente, le lacrime di vetro che ricadono in acide spire sul mio volto mi corrodono le gote, arrossate dal mesto e melodioso flautare basso dello scuro, che ahimè, subito, ora, incrina la volta celeste.
E si tinge d’immenso, la notte. Una vena contorta frange il cielo in miriadi di diamanti fasulli, ricordi soffiati dal vento, si gioca a biglie sul terreno arido e febbrile di questo lutto.
M’avvicino. Ha il volto infiammato da ciocche che increspano come carta straccia la sua fronte. Ho appoggiato le mie labbra, anni orsono dal distacco del mio respiro a quest’anima pia. Il guanciale la stringe, è una morsa fatale, insipida. La donzella non è altro che la metamorfosi, il feto intricato nel suo pensare, così assorta… svegliati, mia bella.
Un bacio. Tutto quello che desideri?
Un altro passo. Un altro grido.
«Chiudete la finestra!»
Un altro silenzio. Un altro. Un altro.
Capocchie nere che appassiscono nelle braci di queste lanterne. Fiori, ancora fiori. L’odore inebria d’alcol, cognac, acquavite, fragole e ciliegie raccolte in grembo. E d’un tratto la vedo, la mano che si cinge a me e mi trasporta verso i lidi d’un passato… picchiettato di mari, nevi che scendono. Oh, mia dolce Provenza. Le lavande in fasci sbocciano come sogni nell’azzurro del cielo che sfuma le sue nuvole come creste spumate, amorosa morte di sirene alla deriva. Camminiamoci ancora, oh madre, tra questi signori d’ametista schiariti che accordano il mio cuore al vostro, e d’un tratto sono assieme, note all’inverso tratteggiate nel vostro sorriso.
«Ti voglio bene.»
«Anche io.»
Strinsi il lembo delle sue vesti e ridetti. Gaio come un angelo caduto, beato della sua ribellione a Dio, logorato dalla fiamma felice che vi vibra in corpo. Oh, madre, lacrime amare al melanconico ricordo.
La trascinai per una mano, il polso così seccato ai vostri sbuffi, tutti da convincere, fasulli come l’illusione del vostro riposo mortale. Tra l’altre dita lasciai correre i fili candidi fioriti dell’aquilone, ricamato coll’amor vostro. Oh, lo vedete? Vola alto, verso voi, lascia che le vostre mani s’appiglino stanche come ultimo doloso riscatto a questa vita, e poi rifugge vigliacco, lasciandovi sull’orlo stroncato del purgatorio. Ma meritereste solo il paradiso.
Farò il pianista, vi dissi un giorno, madre. Vostro era il picchiettare ferrato e algido, saporoso di siero, che ascoltavo ozioso nell’altre stanze, sull’altre carte sudate dello studio mio, frammisto al mio cupo ansimare interrotto dall’incanto da voi tessuto. M’alzavo, allora, inseguivo la scia del vostro suono nelle dimore che ho lasciato. I miei occhi vagavano sul vostro divorare le note ammansite, un diesis dall’innalzare solenne il suo imperioso comando, un bemolle dall’acquietare il mio animo. V’amo, madre. Ora è il per sempre.
Studiai piano sotto la vostra veduta. Sulle stringhe di quell’inchiostro, tuttavia, vi dissi, farò lo scrittore.
Avrei bucato storie, vi raccomandai, con lo stesso solerte tono delle vostre dita. E sarebbe stato fatto con la sacrale impronta dell’animo vostro.
Sparisco, vi dissi, un giorno. Ritornerò, l’altro.
Tagliai quel filo d’Arianna come l’estirpare un fiore di lavanda dalla terra. M’aggrappo al peccato mio come le nuvole sopra il cielo di Fiandra.
È ora, v’è morta? Su questo capezzale sfiorito giace la rosa scarnificata da Dio.
E che la paghi, tra le spire di quest’incendio sfiorirò anch’io, vorrà dire. Mi ritroverete, tutti, che sarò solo il silenzio bruciato da queste lacrime. Mi vedrete, tutti, sparire come la donna immacolata nella crisalide del ricordo, su questo letto.
Oh, vi racconterò la mia infanzia, monna musa. Un giorno o l’altro. Forse mai.
02/03/1823 – Quinta lettera
Le Havre.
Le Havre si è rivestita, con l’arrivo della tua lettera, di una calma surreale… pare aver trattenuto il fiato assieme a me, mentre leggevo. Mi avevi già preannunciato, giorni addietro, della grave fine cui andavi incontro, ma sentirne il dolore, palpabile, il tuo forse stupore a dover accettare il tutto… mi spiace.
Le vite volano via come un soffio, ognuno, in un modo o nell’altro, dovrà passare il periodo dell’ammissione di una perdita. L’arte di perdere non è difficile da imparare, diceva qualcuno. Anche se alla fine si tratta solo di relegare la sofferenza in una parte del cuore, farla giacere e maturare finché essa non deciderà da sola di raggiungere scogli più quieti, privata della forza della mareggiata, e divenire, ormai, un palpitare sordo, l’ombra triste di un ricordo lontano.
Vorrei essere lì con te, in questo momento, consolarti, per quanto le mie fragili membra possano riuscire a farlo. Non sono mai stata brava con le parole, ho comunicato, lungo la mia vita, solo per immagini: il narratore di ogni nostra ballata sei sempre stato tu, con le tue dita lunghe e sottili, da pianista, ogni storia un tasto – nero, bianco, nero, bianco, bianco… un tasto nero è la dolente visione di ogni racconto che non raggiunge il lieto fine. Non ti sembra ridicolo? Piccolo, relegato nell’alto, più duro a premersi, ma così struggente! Lucidato, si riflette dei lucori altrui, per nascondere sulla sua superficie solo gorghi oscuri in cui smarrirsi per sempre.
Ed è per questo che ritengo opportuno venire da te. A salvarti, finché può la mia sola presenza eluderti dal commettere sciocchezze. Non che non confidi nel tuo buon senso, o altro. Oh, non ho più voce per spiegarmi meglio. Desidero solo stare al tuo fianco, rassicurarti, stringerti la mano e con un bacio asciugarti una lacrima fuggitiva che s’allontana dai tuoi occhi tristi. Perdonami se non potrò essere in grado di fare altro, ma quel poco permettimi di donartelo.
Le giornate nella tua villa a Le Havre trascorrono lente. Tua zia è stata molto gentile con me, ad accogliermi come ha sempre fatto, nonostante stavolta tu non eri con me. Ha preso la notizia con garbata mestizia, ma nella notte l’ho sentita abbandonarsi a un breve pianto, nella sua stanza affianco alla mia.
È una donna forte. La mattina dopo, nella sua crocchia argentea, era di nuovo perfetta come lo è sempre stata. Solo due cambiamenti ne incutevano le sembianze: la veste nera, a collo alto, e una luce un po’ più spenta negli occhi.
Io ho trascorso oziosi pomeriggi di lettura. Non mi riesce facile abbandonarmi all’arte, quando ogni pennellata s’inasprisce di rimembranze infelici. Solo una storia può portare, in questo momento, la mia mente altrove: non immagini quanti mari ho navigato, quanti posti ho visitato, nella notte, all’alba, fra le coltri di un cielo cosparso da costellazioni diverse, più nuove, più vive! Ho letto con attenzione trasognata di amori così simili al nostro, ma che mai si sono rivelati più intensi del sentimento che custodisco in me.
Ieri, per festeggiare il sopraggiungere di Marzo – sai bene quanto ami questo mese, quanto gioisca delle ultime, sparute nevicate che ogni tanto mi fanno visita a sorpresa – mi sono addentrata nel giardino della villa, lasciando indietro il patio da cui sovente avevo già assaporato l’aria marina di Le Havre. Il sale pare corrodere qui, prima che negli altri luoghi, la neve che in Febbraio vi si era posata. Ho scovato, nei rami di un biancospino, spuntato come un fiore, un mucchietto residuo di neve. L’ho sfiorato, incauta, graffiandomi la mano e permettendo che i guanti in pizzo venissero pizzicati dalle fronde, ho goduto del suo tocco gelido e dell’incavo sciolto che il mio dito ha formato nel grumo. Per un istante mi sono sentita una bambina. Quante volte mi hai chiamato così, lambendo parti del mio animo che a me stessa erano ancora sconosciuti.
Passeggiare in solitudine, scortata dalle meraviglie della natura fino al pergolato d’ipomee che tanto amo, è stato piacevole e ritemprante. Forse l’ispirazione di un nuovo quadro, qualcosa, stavolta, di davvero sensazionale, si sta affacciando alle finestre della mia mente occlusa dalla nostalgia. Potrei provare a darvi una prima bozza a Londra, che ne pensi?
Ah! Dimenticavo di comunicartelo. È passato di qui tuo cugino per visitare la madre, durante un pomeriggio. L’ho trovato in ottima forma, fresco come un frutto estivo, e sono contenta che la moglie stia conducendo una vita felice. Mi ha chiesto, impudente, quand’è che anche noi decideremo di condurre in matrimonio la nostra relazione. Ho sviato la domanda con una risata lieve, dopodiché mi ha sfidato a scacchi per trascorrere il tempo, accorgendosi forse della sua sfrontatezza e ritornando sui suoi passi. Ha imparato bene dai tuoi insegnamenti, dalle diverse partite che abbiamo fatto non sono riuscita una volta a batterlo.
Sapendo della tua passata sosta, però, si è infervorato non poco. Credo siano due anni che non vi incrociate, dopo un’infanzia intera trascorsa fra le pareti di un’unica dimora, e tu hai eluso una delle possibilità che avevi anche solo per stringergli la mano, come si fa fra vecchi amici. Ha promesso che al tuo ritorno verrà di nuovo.
Ho l’impressione che non siano in pochi coloro che ti danno la caccia.
Tua, per sempre,
Evangeline Leibniz
Post scriptum: nonostante tutto, la domanda del tuo parente mi ha scosso. Quando, per una buona volta, mi sposerai? Non ce la faccio più a far tacere i timori del cuore e le dicerie della gente.
06/03/1823 – Interludio
Londra, Casa Hinchinghooke.
La tela s’incava sotto le sue mani sottili. Il corpo di una donna, apoteosi di piacere che rifugge dall’armonia fatale, la matita che consuma la sua grafite nei tratti grossolani e imprecisi delle sue fragili dita. Il tramonto tinge d’oro le fibre tessute, così delicato che pare quasi mortificare il suo animo con la fuggevole bellezza dei suoi nastri. Passati lì per caso a condurlo in una scia di docile piacere.
Vi amo. In ogni secondo. Ascolto l’organo che abortisce voi nell’accordo di rimembrarvi sempre. Prima o poi.
Un movimento più in basso, strascicando le forme di un braccio, i pizzi e i merletti affinati dal filare una mano. Fasci di lavande a ricoprire il tutto, un universo frammentato, una marea ritratta nell’odoroso ricordo. È così forte che quasi infastidisce: l’alcol che permea forte e stilla di dolore acidi tagli. Le lavande hanno l’odore di fiori blu in un campo deserto. Hanno odore d’oceano, di quello forte, del sale che corrode la stessa tela, fino a sfinirlo nelle lacrime che cascano in frantumi d’infanzia.
Si vede appassire, sfiorire greve, sulle gambe petali seccati, strappati crudelmente alle rose ch’aveva donato alla madre al suo arrivo. Poi sospira. La matita gli sfugge quasi, ma stringe di nuovo, deciso. Si sente burattinaio, costruttore del miraggio, artefice di una composizione incisa a parole, e visioni sussurrate nell’inseguirete il distacco.
Un sibilo fioco più in fondo, asciutto, gli annunzia che la matita ricade al suolo, nello scoccare, all’unisono, del suo cuore.
Mani. Mani. Ancora mani. Mani che si allentano, come un affresco decadente, separati da una crepa che apre uno squarcio inafferrabile. Un vuoto marginale. Il vuoto in cui ricade, straziato come i suoi sogni, amori affacciati da un oceano di carta.
Non era mai stato un bravo pittore. Ci aveva provato, talvolta, suo malgrado bozze increspate e sporche, stracciate delle proprie mani, abituate forse all’inseguire l’inchiostro, che ad altro.
Il ribollire ridente dell’acqua, il pennello che vaga nella frescura del barattolo di fragili vetri incrinati.
Veloce. Il chiaroscuro sulle ombre delle mani, il respiro trattenuto un attimo prima di scoppiare. Li ha dipinti. Apparsi misticamente come anelli su un fondale ingrigito.
Il violetto, la punta d’ametiste fuso, così fluido a puntellare gli steli. Indorato è l’orizzonte in cui si spiega il fragile volare della sera, su ali arrossate d’imbarazzo.
Mancherebbe solo il piano, si dice. La melodia che l’accompagna algido nell’altalena di soni, frammisti e fragili, il cantilenare d’inaudite sirene.
Sirene, vi prendo e vi porto via. L’inganno della bugia che serbate in seno, siero invischiato al petrolio più oscuro, vanifica ogni vostro respiro.
Madre, sapete del ricadere di gocce in un pozzo profondo.
Una scia rossa gli imporpora le gote di lui bambino. Screzia gli occhi in un temperamento che sa di cioccolata, mista a lacrime di cannella. Ha il volto sporco di terra.
Piange.
Poi una danza più oscura, più dolce, l’infinito, il tremore del cuore afferrato d’altre mani…
Lei profuma di crisantemi, invece. Ha petali che sono ciglia, lunghe, sottili filamenti di violino, sbocciate nel rigoglioso silenzio che vi cresce dentro. L’intimità odorosa di lapidi e petali fusi nell’essenza del suo respiro.
La porta è socchiusa. Non cigola, non produce rumore, quando una mano la spinge per entrare nella stanza. La figura viene investita dai raggi brucianti di un ultimo sole, che alla fine del suo percorso riesce a infuocare l’ambiente, intrufolando tiepidi serpenti di rubino da ogni interstizio.
Un odore di vernici la investe. Casa. Casa è dove c’è lui: dove ogni filo dei suoi capelli di grano si trascina il sapore dell’estate, dove la vita si consuma nei baci riversi sulla sua pelle luminosa.
Sta dipingendo. La sua mano, decisa nell’impugnare una penna, ora è insicura sulla tela e pare giocare con i peli del pennello che tratteggiano delicati il suo dolore.
Gli si avvicina, nonostante vorrebbe in cuor suo restare un’eternità a rimirarlo nell’ombra, sentendolo ignaro della sua presenza. Lascia scorrere le dita sul suo braccio – il primo tocco è un tuono che percuote le membra –, la camicia bianca arrotolata fino al gomito, quindi gliele avvolge attorno al polso con cui acquerella il quadro. Lo guida in alcune rifiniture, qualche istante per assaporare in pace il suo profumo di fiori di pesco, e cannella, e legno di sandalo. Un’armonia di sensi che le inebria la mente.
Ferma il tratto, ed entrambi tremano, hanno sempre tremato, delle foglie nate sullo stesso ramo di betulla e pronte a cadere sulle sponde del fiume. In silenzio. I loro sguardi non si cercano perché non ancora pronti a incontrarsi, rifuggono adocchiando il nulla.
È seduto su uno sgabello senza spalliera, e lei sente la sua schiena che le sfiora il grembo. Stavolta non è il corpetto azzurro troppo stretto a levarle il respiro, è una presa diversa a scuoterle l’animo. Quasi non si accorge di essersi chinata appena, per lasciar scivolare le labbra sul suo collo liscio, le spighe di grano della sua chioma che la sfiorano e le solleticano il viso, come una carezza data in un campo pronto al raccolto.
«Byron, mio Byron.» È un sussurro che infrange ogni specchio.
«Scacco matto.»
«Oh, perdessi meno spesso» sospira Evangeline.
«T’amerei di meno?» Il ragazzo fa per rimettere a posto le pedine, un giocatore accorto, che carezza ogni pezzo levigato con la stessa cura di una sarta che ammira la sua ultima creazione. Un sorriso mesto spunta appena dal suo volto, quindi prende un respiro e continua: «A dodici anni m’innamorai per la prima volta. Una ragazza di strada, capelli rossi, l’accento di Nantes. Una figlia di Satana.»
«Un po’ azzardato, per un bambino.» Lo aiuta nel richiudere la scacchiera in cristallo, dopo che l’esercito è ritornato silenzioso nelle sue bare, custodite da quella lastra lucida, troppo pulita per portarsi dietro così tante vite mangiate. Il re nero giace accanto alla sua regina, ma non si tengono per mano: muto è il ringraziamento verso quella figura femminea che, di nuovo, lo aveva salvato.
«Non ero immaturo» dice, quasi stesse cercando una scusa per il suo comportamento, quindi si alza dalla poltrona rivestita di velluto rosso. Il salone è pervaso dalla solitudine, solo il fuoco nel camino crepita stanco le sue lamentele. Pochi sono i riverberi di luce, qualche candela poggiata su un candelabro dorato, sparse per l’ampia stanza con la casualità di un cameriere distratto.
Tutto giace nell’immobile penombra di una scena da consumarsi al buio.
«Non lo sei mai stato, vero? Non hai età, non hai mai avuto anno in cui annotare un cambiamento nel tuo spirito.» Evangeline resta seduta, e osserva l’uomo percorrere il tavolino rotondo di legno, lentamente, un passo per volta, accompagnando il tutto con una mano che soprappensiero ne ripercorre il bordo incavato. Un dito che segue il percorso del destino, lasciandosi trasportare, senza rivolte.
«Ho cristallizzato la mia vita nel momento in cui mio padre è morto. L’ho visto cadere come un bicchiere di vetro. L’ubriaco tira un po’ la tovaglia, e il calice s’infrange al suolo. Sparge un veleno d’imbrogli.» Lo sguardo, invisibile, coperto da ombre fragili e impalpabili come nebbia, è privato anche del suo consueto chiarore. Il ricordo si disperde, è il liquido che macchia il tappeto una volta che il bicchiere ha completato la sua caduta. « Lei, la rossa… quella bambinetta dei miei sogni, colpa sua» e l’incertezza si diverte a colpire la sua voce in balbuzie stolida. «Mia madre mi aveva… avvisato, e così aveva fatto con lui. Chi ha i capelli di fuoco è solo un bugiardo partorito dall’inferno.» Una pausa: la voce roca sfuma nel soffio di una vita devastata. «Io ho aperto le porte dell’oltretomba, portandola in casa. Era un angelo sperduto fra la polvere di Vaucluse, ma poi s’è rivelato demone dell’anima mia.»
«Continua, per favore.»
«Fuggimmo, incontro alle lavande in sboccio. Vaucluse non è mai stata rifugio più casto: eravamo aliti dispersi nel vento, non eravamo nulla, eravamo la proiezione di un passato cancellato male. Io e la rossa, che ci confondevamo fra i fiori, amandoci fino allo scandalo, fino al disastro, il sangue che riverse la mia vita. Colpa sua, maledetta!» È arrivato alle spalle della donna, ma non la tocca. Osserva la dolce linea della sua nuca piegata in basso, i capelli castani raccolti in uno chignon semplice, gli occhi socchiusi in un ascolto assorto. Osserva le sue bugie, i suoi segreti taciuti, scivolare a terra e liberarsi della loro coltre di gelo.
«Lei… è ancora viva?» chiede.
«Oh, Eva, non sai che il demonio non muore?»
Sfiora il corteo, bianco, una crisalide di lapidi spezzate e poi subito nere. La scia del suo dito, l’unghia tonda, che scivola fluida in una scala gentile, le fa crescere brividi di solitudine in seno.
La tentazione a cui sta per cedere il suo amato è languida, mortale. Ha paura che quelle dita, come filamenti spinati, ricadano in cenere nell’alternanza del campo santo nella quale, ora – per sempre – incide il suo tono. Più in alto, imperioso, come un mare di vetro in frantumi.
La stanza è un locale oblungo, illuminato dalle luce di un camino che arde nel rossore delle sue braci e combatte la notte, una fiamma s’infila come un’ombra lungo la parete e crea un ramo frastagliato, un teatrino di luci e tenebre circonfondono il tutto. Un pianoforte, un uomo su uno sgabello, una donna oltre la coltre di legno scurito, in fronte all’amore impersonato.
«In principio ci furono due mani. Odorose d’inchiostro che s’amavano in un intrecciarsi perpetuo, profilate lungo una penombra interminabile. Un’assenza, un’angoscia che premeva nel petto dei due. Si contesero, appena, per sempre. Combatterono a rose rosse e talvolta dal nero gentile, asservite con rovi che stillarono sangue puro. Poi nacqui e sfilarono cinque anni senza accorgermene, intrisi nei miei occhi di bambino. Da Le Havre, la vergine neve imbiancava i loro animi insanguinati d’amore, scappammo a Vaucluse, Valensole. E là, le lavande imperversavano in un oceano di ametiste, acute, rozze, accoglienti come le mani dei miei genitori.»
Scomposta, il suo respiro ansante le percuote il petto, ansiosa. Pretende. Sta seduta in una poltrona, ricamata con rami neri e foglie di primavera beccate da passerotti infatuati. Sta in fronte a lui e lo guarda negli occhi.
«La conobbi che era appena cominciata l’estate, in uno di quei giorni in cui s’attendeva oziosi lo sboccio delle lavande, così frementi d’avere in corpo il profumo screziato di quei fiori, in cascate di gemme dal proprio stelo. La conobbi che di nascosto m’ero inoltrato in un campo violetto, i fiori trattenuti ancora a sé, alcuni prematuri reclamavano la loro morte per sfuggire all’astiosa vita solitaria, in attesa dei loro fratelli. Ne raccolsi una, la spiga più bella, piegato, con gli occhi accesi di stupore.»
La musica intorno a loro, quelle note che salgono al cielo e ricadono meste, s’accorda perfetta, richiudendo porte d’inferni e paradisi al loro passaggio, alla voce narrante che novella un’immagine e ne interpreta un’altra.
«M’ero piegato, le dita strette intorno al verde del gambo, premevo con forza perché venisse via. Il tatto, scottante, invasivo e distorto d’altra pelle, che sfilava dal terreno la pianta novizia. Ci ritrovammo instabili, la spiga violetta stretta nelle sue mani. Nel trionfo di due volti. Uno solo.» Lei lo guarda, la sua pupilla dilatata trattiene nell’intenso il buio, distoglie per un istante lo sguardo.
«Le disgrazie, Eva, sono ghiacciate. L’amore però s’accende del rossore soffuso, placato, dei suoi capelli. Lei, impacciata, le mani in grembo, lasciò la lavanda a me, e s’allontanò d’imbarazzo dipinta sull’esanime pelle.»
Byron cessa la fugace melodia. Le candele brucianti ai muri indorano i contorni del pianoforte come filigrana di sole ad accendere picchi d’intimità.
«Per poco non scappò. Oramai ammaliato, corsi dietro al suo fuggire, lo strascico della bianca veste che le copriva le gambe in una corolla di giglio, rialzato tra le mani. Era lacera, povera, sporca. Timida come la farfalla che si posa sul suo primo fiore.»
«Sai, mio Byron, ho un inconsueta passione per i tuoi racconti. Sono bestiole ammansite dalle tue sillabe, sussurrate col dolcezza, intrinseche di melanconia; accendono fuochi di gelosia in me. Continua, oh mio Byron, pure per sempre.»
«La trascinai a casa, corremmo come due fiori estirpati dallo stesso stelo, mano nella mano, e pian piano calava la sera.»
Evangeline esitante, chiede, il farfugliare delle sue mani a mezz’aria è il giogo di un linguaggio profondo, taciuto.
«E fu tua?» Lui affranca un dito alle labbra schiuse, lascia che il monito plachi tutto, cali il sipario di un intoccabile silenzio.
«Mio padre la raccolse in casa, mia madre l’occhieggiò come un gatto randagio, e lei odiava i gatti che d’estate sgusciavano nel verone passeggiando.» Stacca il dito dalle labbra, semoventi, il monito spezzato, le dita che scompaiono sulla tastiera del pianoforte.
«Non aveva famiglia, lei era il reietto a cui tanto aspiravo, il fascinoso terrore che mi incastrava nella trama intessuta. Mi amava, o faceva finta.»
«E basta? Solo questo?» Pensierosa, le palpebre che si socchiudono in una foga, la smania di un bacio, mosaico di ciglia.
«Era il mio segreto più turgido, il rampollo di un fiore d’oro che splendeva ai tramonti di baci, le lavande sotto i nostri piedi intralciavano il passo. Che amore, quel profumo, la fragranza di toni assaporava il bacio. E fu il mio primo bacio, l’inimitabile.» Si blocca, la musica attorno si riaccende con un botto basso. Le mani avevano sbattuto con forza contro i tasti, poi di nuovo silenzio. «Oh, Evangeline, l’emozione che trasudate è un concetto d’invidia pura, non vogliatemene. È una parte importante. È d’infanzia.»
«Non curartene, Byron, è solo il mio cuore che piange a tradimento. Avrei voluto esser io quel papavero appena colto e curato con tanta passione. Quando l’hai baciata, che sapore ebbe?»
«Un sapore diverso. Ha sapore? Tutto ciò che è tensione allo spasimo, ha tutt’altro sapore. È lo sbocciare di un mondo silente, dove le timide roselline crescono sottosopra e sopravvivono alimentandosi di brividi contrastanti. Perché con lei, c’era una soglia focosa in cui sprofondavo lieto e incauto e spiragli di brina che stoccavano ai fianchi.»
«Qual era, il suo nome?»
«Katherine.» E mentre lo dice, contrae la faccia in un espressione dolosa.
E poi s’alzano, statuine affusolate che vagano sul palco di un carillon stonato.
Riprenderai, mio Byron, perché nell’altra parte, son sicura, il soleggiare del giorno mi aiuterà a non averne paura.
07/03/1823 – Interludio
Londra, Casa Hinchinghooke.
Il suono delle posate d’argento è lo straziante requiem dei cuori soli. Poche parole, solo quelle più necessarie, l’imbarazzo dell’infanzia perduta e delle memorie comuni: non v’è alone di consolazione, solo triste e immutata condivisione del dolore.
La composizione di frutta, nel vassoio al centro, pare attendere l’artista che ne dipingerà i tratti, con cauta lentezza e studio d’ombre. Giorno dopo giorno, aspettando l’ora del primo mattino, resterà lì a impolverarsi e a rinsecchirsi, finché di essa non rimarrà che un’immagine senza sapore.
I piatti sono pieni di ricordi, vuoti di cibo. I ghirigori attorno ai bordi, sapientemente dipinti da mani esperte, giacciono nella loro tenue tonalità salmone, e si tengono forza, filamento per filamento, lì a sospendersi in un cerchio nel bianco della porcellana.
Una domestica interrompe la quiete, portando un cesto di pane appena sfornato, caldo, poi tiepido, poi abbandonato a raffreddarsi intonso. È entrata da una porticina in legno, secondaria, con un intaglio in vetro nella parte alta che tuttora è appannato dai fumi della cucina. Quando rientra, l’uscio si richiude facendo vibrare l’argenteria accuratamente lucidata negli armadi a vista, con uno scampanellio che si riversa fra i vetri delle ante e dei ripiani.
«Quali sono i vostri programmi per la giornata?» Chiede Evangeline. Ha un segno sotto l’occhio sinistro, come una piega lasciata dal segno di un cuscino – un sogno interrotto, e le palpebre appena schiuse di chi è desto ma assonnato. Offre un sorriso prudente ai tre uomini che siedono alla tavola rettangolare.
Il più giovane, che le siede di fronte, prende un tovagliolo e se lo tampona sulle labbra. «Io e Delbert saremo fuori fino a stasera» dice, indifferente, quindi si passa le dita fra i capelli biondo cenere raccolti in un codino.
L’altro, seduto alla sua destra, annuisce con fare intento. Si dondola sui piedi della sedia, portando lo schienale in un’angolazione impossibile. Le labbra rosee come quelle di una fanciulla hanno una piega orgogliosa, carica di una dignità affetta dal risentimento. A ritmo del suo dondolio, le tende rosa pesco piegano in numerosi sbuffi da una delle vetrate, confondendosi al raso bianco dei veli più sottili e irrompendo nella sala da pranzo. Una finestrella è stata lasciata aperta per rinfrescare l’ambiente.
«Eva, che ne direste di prendere una boccata d’aria? La colazione è terminata, non c’è bisogno che ci tratteniamo più del dovuto. Sono certo che anche i miei fratelli abbiano le loro incombenze da svolgere» propone Byron e le prende una mano da sotto il tavolo, sgusciando fra i riccioli merlettati della tovaglia chiara, raggiungendola in uno spasimo d’amore.
Lei arrossisce, accorgendosi della sua impudenza, e con un cenno del capo che s’avvicina a un inchino si accommiata dai due: «Vi auguro di trascorrere una bella giornata.» Il suo sguardo si sofferma un istante in più su Delbert, che però non risponde, scuote soltanto la testa, lasciando che i ricci castani gli coprano parte del volto.
Mentre si allontanano, il parquet ricoperto dal tabriz persiano attutisce il ticchettio delle suole, il cui ritmo si uniforma a un solitario pendolo nell’angolo. Tic-tac, tic-tac, è anche il rumore dei telai che tessono fitti orditi nelle terre d’oriente.
Byron la trascina in giardino, attraverso una vetrata scorrevole che vi s’immette direttamente dalla stanza. Una ventata fresca li investe al primo impatto e la giovane rabbrividisce.
«Volete che rientri per prendervi una cappa?»
«No, Byron, non ce n’è bisogno. Sto bene così.»
Il prato fruscia sotto i loro passi sommessi, l’erba che si piega in dolci onde e che si rialza, carezzando le caviglie con un bisbiglio inudibile. Nel vialetto di pietre, fra un masso levigato e l’altro, sono cresciuti sparuti mucchi erbacei, da cui spuntano boccioli di timide primule. Il fiore giustifica i mazzi.
Il sentiero conduce, con una lieve salita, a un ponte in legno, con dei sostentamenti di ferro leggermente arrugginito ai bordi. Sotto la passerella gorgoglia un rivolo d’acqua pura, che si colora dei riflessi verdini della natura appena inselvatichita che lo circonda.
«Vi è sempre piaciuto, questo posto. Nelle primavere, bevevate l’acqua a lunghe sorsate, senza preoccuparvi delle macchie d’erba che vi sporcavano il vestito. Vi inginocchiavate lì, fra le libellule, pronta a spiccare il volo.» Indica una conca sabbiosa che immette gradatamente al rio, ampio in quel tratto non più di un paio di braccia. Per tutto il tempo non le ha mai lasciato la mano, e ora che sono saliti sul ponticello, il legno geme contrito ad ogni spostamento di peso.
«E tu mi trascinavi lontano, perché temevi che sarei potuta scivolare in acqua, nonostante il torrente sia poco profondo. Mi portavi sul ponte…»
«Vi bloccavo il corpo contro la balaustra che in estate gettava foglie di rampicanti a sfiorare le rive sotto di loro.»
«Come stai facendo ora.»
«E vi…» Una mano lo blocca, fermandosi sulle labbra di lui. Un paio d’occhi azzurri, intimoriti, bagnati di lacrime sospese sull’orlo dell’abbandono, si fissano in quelli dell’uomo. È una preghiera muta che induce al silenzio.
È il sussurro: «Smettila di darmi del voi. Ti prego, Byron, non posso sopportare più questo tuo lasciarmi indietro, lontana da te.»
Lui ride, poco più che un andirivieni, un tintinnio di felicità cosparso nell’aria. La condensa che spira dalla sua bocca, ora aperta, strascica fumi che velano vascelli d’intimità, vascelli di carta, con le ali ripiegate lungo le fiancate.
«E ti dicevo che eravamo solo un sussurro. Un sussurro nel vento, e che presto saremmo volati via con esso, danzando su quei piani impalpabili di una passione che ci allenta e poi restringe i nostri corpi in un tango che è veleno d’amore, scorre nelle mie mani intrecciate alla tua schiena e…»
E s’infiorano ali d’argento che trasudano disperazioni imperlate dal vuoto che li separa. Un respiro, due, è un sospiro che si trasforma in ordine e muta in piacere.
«E voleremo più giù, più su, più in fondo. Ove non si fa ritorno.»
«Byron! Rose, rose rosse! Rose fiorite, rosse come il filo che m’hai legato al polso.»
Evangeline alza il volto, pallido, quasi mascherato di porcellana, la crocchia di filamenti screziati di cannella, cioccolato al latte, fuso nell’assecondare il denso mormorare dell’animo.
Byron accorre, nel vialetto incorniciato da verdi cespugli, peonie rosate sono sporte come pettegole indiscrete, premature, ingenue. I suoi passi sono pacati, cheti, imprimono vestigia sulla terra smossa, come petali di rose corrose.
Nel cielo, i banchi di nuvole londinesi sono canarini da trattenere tra le stecche di ferro di una voliera, si ha paura che possano increspare le ali verso lacrime che ingrigirebbero il soleggiato meriggio ch’ora si godono.
Le betulle si librano accanto, affrancate da braccia più alte, confuse, ramate e schiarite di un verde che s’accende e s’arriccia.
Lei è in fondo, china tra petali come pizzi arrossati dal sangue, la veste di raso magenta la costringe in una statua dal profilo incerto, quasi si contenga a stento nella gabbia posta. Ora s’alza, lieve, le ciocche che le ricoprono il volto, le scosta con un gesto delle dita. Mentre Byron le gira dietro, lento, il cuore che gli batte in petto, un palpitare simile alle onde frante, le cinge la vita. Lei s’infiamma in volto, le guance cosparse di quella tinta apparsa in sprazzi a intrecciare un piacere scabro. Sente il corpo dell’amato, quel petto premerle contro la schiena, freme. Fremono tutt’e due. Vibrano al cospetto della loro felicità. Questa è l’ouverture di una sinfonia dal timbro talmente basso da strisciare in terra.
Byron abbassa il capo posando il volto nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra della sua dama. Le prime note che s’accendono del profumo di fiori gelati.
«Rosse come il demonio. Come i suoi capelli che fuggirono in una scia devastante. Attenta a strattonarlo; mi portò via, per certi versi, staccando a forza l’essenza di un amore straziato.»
Il distacco dei loro respiri, le mani sciolte dal casto nodo che dapprima s’era creato, il sentiero di riccioli d’erba che affiorano dal terreno, li accompagna distendendo la terra in piccole dune. I loro piedi che tratteggiano il sentiero verso casa.
«Lei viveva in me e io in lei. Un essere decomposto, disfatto, l’embrione che si serviva di me, la scintilla dell’incendio. D’un tratto la vidi, la vampa che allungava le sue lingue, colate mai fredde, lungo l’apoteosi del nostro amore. Oh, Eva, l’amore è servitù, nevvero?»
Lei deglutisce, socchiude gli occhi, le labbra dischiuse, appagata e affranta dalle parole di Byron.
«Erano quindici, gli anni che aveva, seguivo la sua ombra per casa. Timida e fragile, furba, artefatta. Mi mise un dito sulle labbra, il monito di un silenzio oscuro. Aveva progettato tutto. Mi aveva messo fili immaginari in una schiena e li aveva trascinati. Mi sono sempre chiesto cosa sia ciò che l’abbia spinta a fare tutto… questo. Perché i cocci della sua infanzia distrutta invasero anche la mia.»
«L’imbroglio, giusto. È come dipingere un quadro difficile, la punta che si spezza, il pennello che sbava. È arte l’inganno di mascherare il tutto.» Evangeline alza le ciglia schiarite, di fulgido grano, e pare quasi voler sfiorare il cielo, con gli occhi, le dita, che rotea in su per cogliere quel raggio di sole che s’insinua come un silenzio sepolto e riemerso.
«Katherine aveva bisogno di me, me lo aveva scritto. Impossibile negare che m’aveva avvisato. Le sottili lettere sulle mura della soffitta, tracciate col dito sporco d’inchiostro, tondeggiavano. Non stavano mai ferme. Quel reclamare a me, un grido strozzato che parte dall’oltretomba e non giunge in vita. Ho bisogno di te, sei tutto, sei l’ordito in cui inseguo i miei sogni, mi diceva. Era il cartello di polvere, una cancellata impercettibile che sotto la mia presa, prima o poi, si sarebbe spezzata.»
«Ma dimmi, cosa è successo veramente?» Lui le rivolge uno sguardo intenso, gli occhi di lei colmi delle increspature del ghiaccio, di un amore di vetro incrinato. Un acchiappasogni dalle tinte riprese a guardare specchi di mare riversi, un fondale che proietta i propri sogni in lustrini dorati che s’interpongono all’acquamarina infinita.
«Disse che mio padre… tradiva mia madre. L’aveva visto con un’altra donna, l’intreccio d’altre vesti, il profumo d’altre carni. Era qualcosa di doloroso, mi fidavo di Katherine. Era come camminare su un filo sospeso sopra l’oblio del terrore, avrei voluto chiudere gli occhi, ma l’attrazione verso ciò che reclamava il mio essere dabbasso, era troppo forte. Sai, il filo si fa sempre più sdrucito mano a mano, lungo il cammino, fino a quando non c’è più nulla. È una sciocchezza superare il vuoto, camminarvi sopra, viverci, alla fine la caduta è inevitabile.» Ride. E si sente cadere, le ciocche dorate che gli ricoprono la fronte tersa da goccioline di sudore, che nascono dall’interno, paiono avvizzire, spegnere le loro tinte accese.
«A quei tempi, mio padre era il riflesso distorto di mia madre. Era lui che aveva assecondato l’accoglienza di Katherine nella nostra famiglia. Mi sentivo trafitto, trafitto in controluce. Lei, lui; lei che mi diceva: chi ha i capelli rossi porta solo male in famiglia, lui che osservava le note scorrere dalle labbra aperte di Katherine, sciogliere tutti i nodi intricati nel cuore e farsi beffe di noi.»
«Cantava, Katy, allora, era lei la tua vera musa.» Lei cerca le sue dita lunghe, le trova, le stringe, assapora il gelo raccolto in quella pelle, si propaga in una malinconia immensa.
«Lo fu per tanto tempo. Lo fu di tutti, tuttavia mia madre non restava ammaliata e non ne ho mai capito il perché. Mio padre pagava le lezioni di canto, potevamo permettercele, sì, ma era sempre un costo che gravava su un componente della famiglia indesiderato da…»
Madre. Tutto questo vuoi dire. Quanti sono i petali di margherita rimasti? Li hai donati tutti ad altre donne, per me, cosa offri per me?
«Byron, cosa fece Katherine?»
«Mi ha ingannato, mentre l’alcol corrodeva mio padre che tornava a casa a sera attardata, mentre mia madre guardava afflitta disfarsi tutto. Piansi anche io. L’ultimo limbo a cui si stringevano le mie mani diventava un brandello caduto nel vuoto. Ero convinto che amava un’altra, Katherine aveva detto così, sapendo quanto tenevo alla felicità di mio padre. Qual era la verità? Evangeline, la vuoi davvero?»
L’istante, il secondo, l’ora, perfetta in cui il cuore disperde il suo acido. Lei annuisce mentre Byron sbarra gli occhi, intrattenendo tutto il timore a galla.
«Katherine voleva andarsene dalla famiglia. Katherine non voleva me, voleva solo i soldi, un’eredità che spillava dalle attenzioni di mio padre, a poco a poco, goccia a goccia fino a riempire un vaso. E ora lo vedi, il vaso, trabocca, in frantumi di ceramica. Mentre la verità era solo un uomo deluso dalla morte del fratello caro. Ma nell’inganno che Katherine mi aveva tessuto addosso, dovevo difendere mio padre e porre fine ai suoi pianti. E lo vuoi il finale, Evangeline, lo vuoi davvero?»
Un sospiro. Non v’è bisogno che legga il suo volto per scoprire la risposta.
«Ho ucciso mio padre.»
Si sente una macchia d’inchiostro. Isolata. Stacca la mano da Evangeline, la guarda negli occhi disperso, ferito, il viso sfregiato in una smorfia di sconforto che per poco non si trasforma in pianto. Ma lui è forte, non può piangere, anche se il rimorso lo è di più. E poi le macchie d’inchiostro sono già un immensa lacrima partorita da uno scrittore distratto.
Nessuno li ha visti, nessuno ha parlato di loro, non una figura umana che s’interessi di cosa si stia consumando in quella stanza, ove ogni sera vi si sprangano, con il clangore di una serratura che mette a tacere ogni voce. Può un lutto serrare le bocche di qualsiasi individuo? L’arte del silenzio è il frusciare delle ombre. Le tende che s’aprono e si riversano da una finestra discosta: un fruscio.
«Lo soffri, eppure continui ad amare il freddo. Chiudi gli scuri, Evangeline.»
Una veste cala a terra, dopo che i lacci che racchiudevano il tutto – è lo schiudersi di un fiore, il dilagare di ogni emozione – sono stati sciolti da una mano rapita dal fremito dell’incoscienza. Le gonne turchesi prendono le forme di una distesa marina, una polla sull’aldilà che frantuma la monotonia del gelido marmo. Da esso, spunta una sirena dai capelli dipinti di sorbo. Dietro un paravento di fine carta vermiglia, una voce risponde: «Non ancora.»
Non ancora. Aspetta lì, Byron, sdraiato sul letto, lo sguardo triste e pensoso, la camicia sbottonata tanto che basta a far affiorare la pelle del cuore. Questo batte, bussa alle porte del desiderio, mentre lo sguardo rifugge dalle zone buie di un corpo nudo, un mimo perfetto, nascosto. Il sussurro della seta che lo riveste trascina con sé un muto grido, la dolcezza del suo suono è paura, sconcerto, indulgente disperazione. Le mani di lei annodano un fiocco dietro la schiena per stringere la vita in un abbraccio sottile.
Evangeline esce, i piedi nudi che calpestano il pavimento come se stessero galleggiando fra petali di rose, tra le braccia l’impacco maldestro del vestito da giorno, il mare che l’ha partorita. La vestaglia si ferma più su del ginocchio, ed è tenuta in cima da due fettucce rosse così come il tessuto. Si è sbrogliata i capelli, le ricadono sulla schiena in un rivolo di ciocche dalle sfumature ramate.
«Chiudi gli scuri, Evangeline. Prenderai freddo» insiste.
Fa finta di non sentirlo, getta l’abito su una poltrona azzurra e si avvicina al letto. L’alcova ha un soffitto intelaiato a fiori color orchidea e lampone, le cui foglie vanno a creare un manto intricato d’arabesque. Sui colonnati si sparpagliano motivi d’edera e malve intrecciate.
Lei gli poggia un dito sulle labbra quando questi fa per protestare, accostandosi al suo volto. «Voglio farti vedere una cosa.»
S’inginocchia e rimesta con un braccio sotto al baldacchino, alla ricerca di qualcosa. Quando ne riesce, ha in mano la sua valigia da disegno. Le borchie che ne costringono gli angoli sono ammaccate e scurite, il cuoio nero graffiato, caduchi protagonisti di viaggi e mostre, arti e lavori. La apre, e i ganci che ne legavano il contenuto scattano via all’unisono.
Una manciata di fogli si riversa a terra. Tutti i colori con cui dipingeva le anime del mondo, i barattoli in cui intingeva ogni emozione, i pennelli unghiati e sempre pronti a graffiare la tela, sono tutti spariti. Solo pagine, carte, pergamene – ogni tonalità capace d’accogliere tratti di grafite – è ciò che si scaglia sul pavimento come il getto di una fontana: un fruscio. Si nascondono per l’impiantito, piastrelle scalfite di volti e reami lontani, specchi che danno su una realtà distorta dall’effluvio di un incantesimo.
«Ma…» sfugge dalle labbra di Byron, più un suono impercettibile che un reclamo vero. Non lascia le coperte, ma ne infiora di pieghe infervorate la superficie liscia, le sue dita strette ad afferrare il tessuto.
«È tutto a posto» dice la donna. Si china a raccogliere il primo che ha toccato il suolo, lo tiene vicino al petto per non farne vedere il contenuto all’amato, è una bambina che protegge la sua bambola preferita stringendola al seno. Si siede appena sotto il bacino di lui, lasciando che le sue mani l’abbraccino, quindi rivolta il disegno perché lui possa osservarlo.
I colori sono sprazzi intonsi di luce su una scena dominata dal nero. Per una volta Evangeline non si è dedicata alle tenui tinte degli acquarelli, ma ha usato pastelli oliati per generare il fascino di un distacco infelice. Una, due, cinque spighe di lavande dai riflessi vitrei sono poggiate su un pianoforte verticale, e i tasti s’incavano sotto la loro premurosa pressione. La melodia delle terre di Provenza si sparge sugli spartiti appena sbozzati.
«Bianco, nero, bianco, bianco…» sussurra lei.
Il dipinto è ripreso di profilo, e si vede la figura in ombra di un uomo, seduto su uno sgabello di fronte allo strumento. Le braccia sono abbandonate sui fianchi, in un atto di mesta rinuncia, e gli occhi socchiusi paiono fremere allo sfiorare di ricordi distanti nel tempo. Un piede è poggiato sul pedale, quasi a voler spingere quel suono a non smorzarsi, a durare finché anche il destino non ne avrà tracciato una fine sicura.
È tutto buio, è la coltre della morte che si distende e si rivela sullo sfondo sfumato: una tenda bianca, così sottile che si intravede da essa l’infinità di un cielo stellato, e così pieghettata su se stessa, sgualcita, che le sue crespe formano un altro volto, femmineo, contrapposto a quello del giovane.
Il viso etereo si protende verso di lui, le labbra schiuse in un bacio consolatorio. E si sa, ora, che la macchia biancastra che rischiara parte della guancia del ragazzo è in verità una mano di fumo, una carezza proveniente dalle distese di un territorio sconosciuto. Vaucluse, non sei mai stata rifugio più bello.
«Non l’avevo finito. Non volevo mostrartelo prima, ma ora… ora era il momento giusto.»
«Sono io» constata Byron. Oramai il foglio giace fra le sue dita, gliel’ha strappato per perdersi fra i ricami della sua vita, coinvolta in una bozza piccola, inferma, delicata come la sua esistenza ora riposa appesa a un filo. E la lascia, inutile pergamena – che scivolasse pure in terra fra le sue compagne di carta. Si dimentica, nella notte, ciò che affolla le vie del tormento.
Prende Evangeline fra le braccia e la porta a stendersi su di sé. I primi baci si consumano nella disastrosa quiete di un segreto sussurrato troppo forte, nella bramosia di cadere vittime dell’ardore. Il gelo che proviene dalla finestra aperta è divenuto brezza piacevole, aria fresca da concedersi in respiri affannosi.
Byron fa scivolare le labbra sul collo della donna, percorrendone la pelle con la leggiadria di un accordo, e brividi di piacere scuotono il corpo di lei. La spallina le ricade sul braccio, mentre la bocca dell’uomo si muove lungo la spalla e scende, cauta, a liberarla da ogni pudore. Il giovane accoglie il suo seno turgido, pervaso da un profumo più caldo e tenero, che si scontra con la sua lingua ansiosa.
Più in basso, le mani di lui raccolgono la vestaglia in spire che sono il cristallizzarsi del volo di una farfalla, onde marine permeate da un sapore vermiglio, e in una carezza che sfiora i fianchi di lei porta il tessuto a cedere dalla carne.
Dita d’artista slacciano gli ultimi bottoni della stropicciata camicia di Byron, sfilano i calzoni di velluto marrone; a far compagnia ai sogni di lei dispersi al suolo, si aggiungono le vesti portate via con insofferenza. Un fruscio, e non è più silenzio.
«Ti prego, scappiamo incontro alle lavande in sboccio» lo implora lei.
E si chiude così, come se nulla fosse mai accaduto, un velo che si stende sulla fulgida superficie del mare… un bacio di luna per gli immigrati del cielo.
Colonia.
Oggi, in qualche parte del mondo, è il compleanno di qualcuno. Forse il tuo.
Scrivo su un tavolo minuto che non mi è mai appartenuto, e che per caso s’è trovato in questa stanza dove sommariamente soggiorno. Il letto è a due posti, ed è strano addormentarsi da sola in questo vasto spazio, con coperte calde e morbidi cuscini che nella notte prendono forme umane, ma non mi abbracciano. O, almeno, non lo fanno come lo facevi tu.
Al nostro addio, ci siamo detti che nessuna distanza avrebbe potuto dividere i nostri cuori. L’uno nell’altro, mano nella mano, sangue che scorre in due vene di due corpi diversi, ma che – disgrazia! – è lo stesso, condiviso come una caramella fra due bambini. Ogni goccia mia ha sapore di te.
Oggi mi sono tagliata. Un piccolo graffio sull’indice, sottile. Colpa del gatto. Ed è sgorgato un po’ di sangue, sai? Ma non sapeva di te. Era aspro, acido, era solo mio, era qualcosa d’estraneo a ciò che ero abituata a condividere.
Posso aspettare. Posso aspettare di sentire di nuovo quella dolcezza scivolare fra il liquido rosso, e avvolgermi del suo incantevole odore. Ma intanto… ogni giorno senza di te – senza te con me – è come un coltello che va a recidere sempre la stessa ferita, e apre cascate acidule da cui non vorrei mai attingere vita.
La sedia da dove ora ti scrivo è un semplice sgabello in legno, la parte superiore rivestita di un cuscino duro e ruvido al tatto, color panna. Odio quel giallognolo che mischiano dappertutto, è un colore così obsoleto! Rivoglio la mia stanza acquamarina, quella che condividevo con te. E rivoglio quello specchio sottile in cui apparivo così fantastica, come lo eri tu quando mi sedevi al fianco e mi carezzavi la schiena, dolcemente, un ricordo cui per ora non desidero rimembrare. Altrimenti finirei per disperarmi ancora.
Qua lo specchio è un enorme lastrone posto in fronte alla scrivania, e ogni volta che alzo lo sguardo dalla pergamena vedo il mio volto deturpato dalla solitudine. Le guance incavate sotto il naso, che seguono lunghe curve fino ai bordi delle labbra, perennemente rivolti al basso. Gli zigomi sembrano ancora più appuntiti di come lo sono di solito, e il viso è gonfio, gonfio di dolore e della cioccolata che mangio. Divoro tutto, perché ho paura che la mia bocca, nell’astiosa brama di muoversi, cerchi altre lingue cui concatenarsi. Che pensiero stupido. Sono solo golosa. Golosa di qualcosa che s’avvicini al sapore del tuo collo, delle tue labbra, del tuo corpo…
I miei stessi capelli sono spenti. Vorrei che ci fossi tu a pettinarmeli; perché, ricordi? Ti dicevo che erano troppo lunghi, ma tu non volevi che li tagliassi, e allora mi venivi alle spalle, mi toglievi delicatamente la spazzola dalle mani e prendevi a lisciarmeli fino in fondo alla schiena. Eri così leggero che quasi non sentivo il tuo tocco, e i nodi restavano lì dov’erano perché temevi di farmi male, eseguendo più pressione del dovuto. Nodi che creavano un groviglio imbarazzante, invero, però quanto mi mancano, ora!
Posso aspettare a lungo, forse per sempre… e chiedermi quanto durerà questo maledetto viaggio lontano da te. Non ho nemmeno un ritratto che riassuma i tratti del tuo volto. Non ho avuto il tempo di fartelo. Deplorevole, non credi? È che ho paura di uccidere la tua bellezza, se solo cercassi di riprodurla con le mie mani grossolane, poco gentili. Tuttora ho paura, di cosa non so.
Mi sento come una margherita: m’ama, m’amerà ancora, davvero m’ama ancora? E intanto sfiorisco. Deliziosa, mi ritroverai che sarò solo un gambo! Un tuo bacio, solo uno, e sboccerò di nuovo. È una promessa.
10/01/1823 – Lettera alla mia amata
Parigi.
Io posso aspettare. Per sempre, forse, per un secondo, due o magari anche tre, l’inseguire un filo rosso che imbroglia il nostro destino.
Ti scrivo che ora è sera, con macchie di luce come steli allungati sulla pergamena, muovo le dita e il pennino scivola, con la sua piuma, sono impigliati i nostri sogni. Oh, mia donna, c’è sempre la paura che essi s’infrangano per la strada.
Ora, il crepitare del fuoco, ch’abile dolor frammisto alle note più basse della tua mancanza, scalda queste lettere, forse troppo acute, algide, vigliacche.
Ora, avrei voglia di tirarmi indietro.
Ma ahimè, questo pensier che mi strugge, questo filo rosso che pian piano storno a me, e che un giorno all’altro, finirà. E tu, magari, tra le mie braccia, mi dirai ti amo.
“E... m’ama? M’amerà”. Pizzicheremo assieme petali di margherita, per scoprirlo.
Tra poco, quest’arso crepuscolo, si laverà da solo, tingendosi in un corteo abbagliante di stelle, che fioco bisbiglia alla luna. E io, non son forse tra quelli? Non son forse, anch’io, a bisbigliare il mio rorido amore a te luna, alla più bella?
27/01/1823 – Seconda lettera al mio amato
Sulla strada per Parigi.
Caro. Sto partendo… sto tornando.
Il paesaggio che mi dice addio è di una struggente bellezza. La neve, nella notte buia, ha tinteggiato i prati sporchi del suo velo adamantino. L’aria è frizzante, pizzica appena il naso, e ne sento la frescura sotto le mie dita, infagottate in umidi guanti di raso. Vorrei carezzare queste dolci colline, ma è tardi… era tardi, quando vi ho dovuto dare l’ultimo saluto. E tuttora rimpiango di non essermi svegliata, nottetempo, per meravigliare per l’estrema volta la mia mente, con il lento discendere dei fiocchi e il loro danzare fra i bagliori di luna. Un giorno ti porterò con me, un giorno, fra questi boschi incantevoli, giocheremo a rincorrerci. Mi sbroglierai le gonne dai rami, quand’esse vi s’impiglieranno, birichine come i miei pensieri?
Una cameriera stamane è arrivata trafelata che già, triste, avevo posato il primo piede sul predellino della carrozza. Mi ha consegnato la tua lettera. Non posso non immaginare cos’avrei perduto e lasciato indietro, se non avessi indugiato quell’attimo in più a rimirare ciò che ero prossima ad abbandonare. Avrei dimenticato anche una parte preziosa del mio amato cuore!
Ora ti scrivo che i cavalli si muovono ad un allegro trotto, e se porto lo sguardo oltre la finestrella posso ammirare le campagne scorrere mute e solitarie al lato della strada. Che sciocchezza che sto facendo! Ho appoggiato una delle valigie in grembo e ivi, in fretta, vi ho aperto il calamaio e la penna, la pergamena stesa… non oso pensare a come s’imbratterebbe il mio vestito, se un incauto dosso scaraventasse tutto all’aria! Ma questo e altro, tutto, tutto per la gioia e la prontezza che mi porta a scriverti ancora.
Non so quanto durerà il viaggio. Forse rimarrò giorni senza la possibilità di comunicare con te: quest’amara riflessione mi strugge, il pennino tentenna al tremore della mia mano. Mi sento indifesa, senza le tue braccia a cingermi… e a sussurrarmi poesie.
Le tue poesie… sei l’unico che in una manciata di parole sa infiammarmi le membra, spezzettarmi l’anima, e poi raccogliere il tutto per creare una composizione solo tua: la mia vita rimodellata, una statua dagli occhi socchiusi in estasi.
Post scriptum: nel viaggio di ritorno mi fermerò alcuni giorni – meno di una settimana, in ogni caso – nella dimora di Madame Leroy, una mia vecchia conoscenza, per riprendere le forze. Il viaggio è lungo, e non me la sento di affrontarlo tutto d’un fiato: lei abita a Namur, quindi lungo la strada, ed è tanto che mi prega di farle visita. Spero che questo ulteriore ritardo non ti faccia spiacere.
12/02/1823 – Seconda lettera alla mia amata
Parigi.
Oh, mia dama, che quel filo rosso di cui v’avevo parlato non imbrogli davvero il nostro fato? E che esso sia sgraziato non v’è dubbio.
Notre-Dame è una stella scesa in cielo, di quelle infervorate dai sospiri della mezzanotte. E mentre questa scoloriva i suoi panni oramai usurati, è dentro al mio core che s’aperta una frattura.
Stamane, il nitrire dei cavalli fu il tristo annunzio della mia partenza. Con tal rammarico ve ne chiedo venia, che il vostro solerte animo non disdegni ciò che mi spinge a farlo.
Parto col respiro asciugato in ciò che scrivo, sulla mia grafia è dove passa il vento. Poiché ebbi la sacrale notizia di mia madre, che reclama il mio nome al suo capezzale morente. Mi sento quasi in imbarazzo a confidarlo a voi. E pure è tutto questo che posso fare, celarmi dietro la vostra ira che scalcerà ai portoni della mia residenza. Ho paura, mia signora, che quando voi arriverete agli spalti di questa città, io sia già troppo lontano per udire ancora il rumore del vostro battito.
Ora vi scrivo, il calamaio stretto tra le cosce, sulla condensa di questo finestrino che frappone il mio sguardo al mondo. Bagna il retro di questo foglio, così sottile. A vostra differenza, non ho valigie su cui incidere le mie sentenze, non ne ho portate. La fretta che mi ha ingiunto il grave stato di mia madre ha indotto a portare solo le carte della mia novella, racchiuse in una sacca di camoscio marrone, e fogli bianchi a cui è stato estirpato quest’immaturo su cui ora scrivo. L’altri fogli, casti del mio inchiostro, saranno impregnati dal dolore di questa imminente morte. Il dolore di una, ahimè, certa morte a cui vado a porgere i miei ultimi saluti. Ma sarà un attimo, ve lo giuro, mia dama.
E ancora gli attimi che ci separano sono infiniti. E non è forse vero che un attimo è per sempre?
Londra, mentre osservo questi fiocchi di neve che scendono giù dalle stelle, è l’angosciosa sorte a cui vado incontro.
E che sappiate perdonarmi. Stringere il nodo della benedizione attorno ai pensieri che mi concederete, che sian lieti o mesti.
Oh, addio, monna musa!
Addio! Addio!
Post scriptum: Speditemi le vostre lettere a Casa Hinchinghooke, nell’amata Londra a cui sto per far ritorno. Al mio arrivo, avrò modo di leggerle. Ho ancora bisogno dei vostri umidi baci, non scordatelo.
12/02/1823 – Terza lettera
Parigi.
Finalmente sono tornata. Stanca, ch’era sera, o forse già notte inoltrata.
Sono tornata, bramando ogni volta il sapore fruttato della tua pelle, desiderandolo sempre di più ad ogni passo, ad ogni singolo sospiro di giglio, che mi avvicinava a quel quartiere parigino che tanto conosco, e che tanto mi è caro.
Ero lì, a strapparmi lo strascico della gonna da viaggio, tanto i miei piedi calpestavano veloci e agitati le pietre della strada, e i tacchi che vi s’impigliavano senza possibilità di scampo. Tanto correvo, per raggiungere il tuo portone in legno chiaro, e per sommergerlo, il sorriso al volto, di piccoli pugni di gioia. Aspettando che tu, dai piani alti, dal tuo studio – oh, riuscivo anche a vederlo! La luce giallognola delle candele che traspariva dall’ombra delle tende alla finestra, e un’ombra più scura, il tuo corpo chinato a scrivere – arrivassi trafelato a darmi quell’abbraccio di ben ritrovata.
Non che sia indifferente al fragile corpo della tua adorata madre.
Ma davvero il mio cuore ha urtato i cancelli della desolazione, schiacciato come un prigioniero in una gabbia per canarini, quando ha realizzato la tua spiacevole assenza.
Colonia è lontana da Parigi. Era un breve viaggio, solo le vacanze natalizie, niente più, per riappacificarmi con quei parenti lontani che da tanto non vedevo. Colonia è lontana, anche Londra… una manciata di giorni! Non ti avrei chiesto altro.
Dannazione al dì in cui il mio sguardo s’incatenò ai tuoi occhi di mandorla e cannella dispersa. M’hai frantumato l’anima!
Ora basta divagazioni, ecco com’è andata: ho trovato il tuo maggiordomo, solo, nella cucina, e mi ha consegnato la tua lettera. Non ha pronunciato parola, né un tocco di conforto, nulla, mentre mi scorgeva davvero sfiorire come una rosa arsa dal sole. Perché ribollivo di disperazione e dolore, ma anche – e soprattutto – di rabbia. Sì, sono irata con te!
Le tue promesse, vanificate in un soffio. Saremmo potuti partire assieme, affiancati nella stessa carrozza, soggiornare a Le Havre, là dove io ben ricordo che… no, non voglio ricordare ciò che ivi accadde. Ora, mi pare una romanticheria alle soglie del sogno, distante secoli o ere, lontana universi. E pensare che invece è stato solo quest’estate… tutto era cosparso dal profumo dei gelsomini in fiore.
Leggendo al flebile lume che il tuo maggiordomo mi offriva, ho lasciato cadere la valigia sottile che sempre porto con me. Era pronta per irrorare, una volta per tutte, il foglio candido delle tinte del tuo splendido corpo inondato d’amore. Quante mattine mi sono svegliata al tuo fianco, desiderando d’imprimerti così, nel tenue sonno fanciullesco e fra le lenzuola che a stento nascondevano le tue forme. Il mio corredo da disegno, precipitato al suolo! Un gesto così sconsiderato, ma così naturale… tremavo, lo ammetto, e non ho saputo più controllare altro che non fosse il battere delle mie ciglia per scacciare le lacrime. I miei pastelli, riversi a terra, sembravano da soli formare le tinte per un quadro di angosciosa bellezza, alcuni incrinati per la caduta, altri ancora mezzi infilati nella custodia del piccolo bagaglio. Hai distrutto un brandello della mia arte.
Sai bene che le mie mostre, e i tuoi astrusi viaggi da scrittore, finiscono sempre per dividerci. I momenti passati assieme sono una perla di mare che resta perennemente nascosta nel suo ruvido guscio, per proteggerla, per renderla più intima e preziosa di quanto già essa sia. Non puoi vendere la nostra ultima perla così. All’aria, all’asta, lanciala giocoliere, più in alto, cosicché tutti gli interessati possano vederne i riflessi luccicare alla luce. Via, via, chi è il compratore migliore? Tu, vigliacco, che giaci nell’ultima fila, e offri il tempo per comprarla, offri un affetto insulso per una madre che non vedi da anni.
Non sprecherò altre parole.
T’inseguo.
In capo al mondo.
19/02/1823 – Terza lettera alla mia amata
Le Havre. Lettera non giunta a destinazione.
Vi scrivo sopra i banchi di una stanza abitata da ricordi troppo densi, si fanno strada, vibrano come echi negli anditi bui di questo palazzo, ove ora ricucio la mia infanzia. Sono nato qua, vi ricordate? Rammentate di quell’estate quand’io vi conobbi? Era sera, e il vento laminava ogni stanza, le luci delle lanterne ch’ora sporgono da questi muri illuminavano il vostro volto, così ambrato, delizioso, miele funesto, insito del veleno più dolce.
Rimembrate le ore gentili in cui la vostra mano scorreva sulla tela ora vuota, ora colma dei tratteggi di esili pennelli, i volti che prendevano vita nelle tinte decise che incidevate con grazia propria, e si affinavano lungo gli orizzonti che ponevate, cesellati tramonti che… Le mie dita s’aprono lungo l’aria, sento lo scoccare del vostro cuore, il pennello impietrito nella mano vostra destra, richiudo con fermezza il pugno dei miei brividi al vostro polso, il pennello che casca giù, quel lieve sibilare che sfuma nell’ombra delle vostre labbra volte alle mie e in quell’attimo, un frantume di silenzio sceso in mezzo, i cocci si ricompongono nello scorrere dell’elisir di lunga vita. La porta s’apre.
Un vostro bacio, tutto ciò che bramo.
Proprio in questa stanza, bruto scherzo del destino che mi distoglie dalle parole.
In questi quadri incorniciati da trafori d’oro, leggo quasi il distacco che v’ho sempre posto, quello che v’è dall’oro alla tela, il passepartout, un lenzuolo candido in cui vi trattengo. Per farvi sentire unica regnante del mio corpo. Questo porgervi lontana, questo voi che v’incava nella crisalide di cristallo che ho cercato di costruirvi attorno, invano.
È normale, penso, che questo filo s’allunghi sempre più. È normale che prima o poi sarà crudelmente reciso.
In serata ho fatto una camminata nei dintorni. L’aria tagliente e la neve che insiste s’era placata, e la patina a ricoprire il tutto, dolcemente, ha reso una piacevole passeggiata nella quiete di questi anni. Si respira un’aria stabile, un’armonia dei sensi che quasi mi trasferirei qui. Sapete, vi ho comprato una tavoletta di cioccolato, quello che voi amate, alla cannella. Lo divoravamo assieme di nascosto, rubato dalle riserve in cucina. L’ho avvolto in una carta che scricchiolante era dir poco, crepitava, rossa, come il fuoco del mio cuore, come quella vampa che è finita per ardere anche voi. Ho messo il nastro, come il broncio, l’ira inestricabile che so abbiate in volto quest’ora e non saprete mai perdonarmi.
Ora, la tormenta si è risvegliata. Vi devo lasciare, quasi le mie dita non riescono a staccarsi dal pennino impregnato dell’odoroso inchiostro di cui è amante, e scenderò giù nella tavolata di questi miei parenti, già immagino le candele che bruciano come il nostro amore, da troppo tempo cristallizzato nelle lacrime dei dorsi e, oh, mai consumato.
Domani sarà la volta di partire. Non vedo l’ora che quest’inferno finisca per riavere le vostre mani, labbra, il vostro corpo.
Ritornerò. È una promessa.
Non vi muoviate. È un ordine.
21/02/1823 – Quarta lettera al mio amato
Le Havre.
Ho deciso che resterò a Le Havre. Oh, non mi sfuggirai, stanne certo. Il tuo viaggio si è rivelato più breve del previsto, e io troppo lenta nel mio folle amore a rincorrerti, che già m’eri scivolato fra le dita. Sei come un nastro rosso, un legame che mi stringe il polso e che poi, per disattenzione o per un evento increscioso, si slega e vola al suolo. La tua stretta è sempre stata delicata, quasi impercettibile, ma nonostante tutto mi riscaldava. E ora, più che mai, è davvero questo calore che mi manca: sono fredda come una rosa abbandonata al gelo del più niveo degli inverni.
L’attesa… questa attesa, impagabile, per raggiungerti ancora, si sta scoprendo un periodo raro. Ho sempre avuto un temperamento agitato, tu stesso hai potuto… constatarlo, leggendo la mia ira repentina della scorsa lettera. Ma adesso ho tempo, finché la tua nave non salpi nuovamente alla volta del porto sicuro di Le Havre e delle mie braccia, per riflettere e far ragione dei miei sentimenti.
T’amo ancora, come quel primo giorno. Sotto il mio tocco, il mio sguardo desideroso, ti ho osservato mutare nella candida immagine di un quadro perfetto. È del mio amore che, prima di tutto, sono sicura.
Forse sto cominciando a perdonarti… oh, tutto, tutto questo, pur di averti di nuovo con me. Il fato s’è rivoltato contro i nostri cuori, un nodo nel filo scarlatto che ci lega, e che non vuole permetterci di toccarci ancora.
Ti aspetto. Interrompo qui il mio inseguimento, fino a che la mia anima riuscirà a resistere a questa distanza sgradevole e amara. Può darsi che più in là parta davvero, se solo potessi avere notizie tue e della tua povera madre… spero che questa situazione non si prolunghi più del dovuto. Il piacere dell’attesa che sto riscoprendo mi fa notare che, sai bene, si brucerà presto. È un piacere ingannevole che copre un bisogno ancor più impellente - parlo dei bisogni del cuore, quelli a cui non puoi mancare.
Non permettere che questa miccia arrivi alla sua fine, finirei per scoppiare.
26/02/1823 – Quarta lettera
Londra, Casa Hinchinghooke.
La finestra cigola. La candela fraseggia nel suo tremante abbraccio. Nastri ocra screziati sulle pareti di questo pallido inferno. Davvero, potreste capirmi? È opprimente, le lacrime di vetro che ricadono in acide spire sul mio volto mi corrodono le gote, arrossate dal mesto e melodioso flautare basso dello scuro, che ahimè, subito, ora, incrina la volta celeste.
E si tinge d’immenso, la notte. Una vena contorta frange il cielo in miriadi di diamanti fasulli, ricordi soffiati dal vento, si gioca a biglie sul terreno arido e febbrile di questo lutto.
M’avvicino. Ha il volto infiammato da ciocche che increspano come carta straccia la sua fronte. Ho appoggiato le mie labbra, anni orsono dal distacco del mio respiro a quest’anima pia. Il guanciale la stringe, è una morsa fatale, insipida. La donzella non è altro che la metamorfosi, il feto intricato nel suo pensare, così assorta… svegliati, mia bella.
Un bacio. Tutto quello che desideri?
Un altro passo. Un altro grido.
«Chiudete la finestra!»
Un altro silenzio. Un altro. Un altro.
Capocchie nere che appassiscono nelle braci di queste lanterne. Fiori, ancora fiori. L’odore inebria d’alcol, cognac, acquavite, fragole e ciliegie raccolte in grembo. E d’un tratto la vedo, la mano che si cinge a me e mi trasporta verso i lidi d’un passato… picchiettato di mari, nevi che scendono. Oh, mia dolce Provenza. Le lavande in fasci sbocciano come sogni nell’azzurro del cielo che sfuma le sue nuvole come creste spumate, amorosa morte di sirene alla deriva. Camminiamoci ancora, oh madre, tra questi signori d’ametista schiariti che accordano il mio cuore al vostro, e d’un tratto sono assieme, note all’inverso tratteggiate nel vostro sorriso.
«Ti voglio bene.»
«Anche io.»
Strinsi il lembo delle sue vesti e ridetti. Gaio come un angelo caduto, beato della sua ribellione a Dio, logorato dalla fiamma felice che vi vibra in corpo. Oh, madre, lacrime amare al melanconico ricordo.
La trascinai per una mano, il polso così seccato ai vostri sbuffi, tutti da convincere, fasulli come l’illusione del vostro riposo mortale. Tra l’altre dita lasciai correre i fili candidi fioriti dell’aquilone, ricamato coll’amor vostro. Oh, lo vedete? Vola alto, verso voi, lascia che le vostre mani s’appiglino stanche come ultimo doloso riscatto a questa vita, e poi rifugge vigliacco, lasciandovi sull’orlo stroncato del purgatorio. Ma meritereste solo il paradiso.
Farò il pianista, vi dissi un giorno, madre. Vostro era il picchiettare ferrato e algido, saporoso di siero, che ascoltavo ozioso nell’altre stanze, sull’altre carte sudate dello studio mio, frammisto al mio cupo ansimare interrotto dall’incanto da voi tessuto. M’alzavo, allora, inseguivo la scia del vostro suono nelle dimore che ho lasciato. I miei occhi vagavano sul vostro divorare le note ammansite, un diesis dall’innalzare solenne il suo imperioso comando, un bemolle dall’acquietare il mio animo. V’amo, madre. Ora è il per sempre.
Studiai piano sotto la vostra veduta. Sulle stringhe di quell’inchiostro, tuttavia, vi dissi, farò lo scrittore.
Avrei bucato storie, vi raccomandai, con lo stesso solerte tono delle vostre dita. E sarebbe stato fatto con la sacrale impronta dell’animo vostro.
Sparisco, vi dissi, un giorno. Ritornerò, l’altro.
Tagliai quel filo d’Arianna come l’estirpare un fiore di lavanda dalla terra. M’aggrappo al peccato mio come le nuvole sopra il cielo di Fiandra.
È ora, v’è morta? Su questo capezzale sfiorito giace la rosa scarnificata da Dio.
E che la paghi, tra le spire di quest’incendio sfiorirò anch’io, vorrà dire. Mi ritroverete, tutti, che sarò solo il silenzio bruciato da queste lacrime. Mi vedrete, tutti, sparire come la donna immacolata nella crisalide del ricordo, su questo letto.
Oh, vi racconterò la mia infanzia, monna musa. Un giorno o l’altro. Forse mai.
02/03/1823 – Quinta lettera
Le Havre.
Le Havre si è rivestita, con l’arrivo della tua lettera, di una calma surreale… pare aver trattenuto il fiato assieme a me, mentre leggevo. Mi avevi già preannunciato, giorni addietro, della grave fine cui andavi incontro, ma sentirne il dolore, palpabile, il tuo forse stupore a dover accettare il tutto… mi spiace.
Le vite volano via come un soffio, ognuno, in un modo o nell’altro, dovrà passare il periodo dell’ammissione di una perdita. L’arte di perdere non è difficile da imparare, diceva qualcuno. Anche se alla fine si tratta solo di relegare la sofferenza in una parte del cuore, farla giacere e maturare finché essa non deciderà da sola di raggiungere scogli più quieti, privata della forza della mareggiata, e divenire, ormai, un palpitare sordo, l’ombra triste di un ricordo lontano.
Vorrei essere lì con te, in questo momento, consolarti, per quanto le mie fragili membra possano riuscire a farlo. Non sono mai stata brava con le parole, ho comunicato, lungo la mia vita, solo per immagini: il narratore di ogni nostra ballata sei sempre stato tu, con le tue dita lunghe e sottili, da pianista, ogni storia un tasto – nero, bianco, nero, bianco, bianco… un tasto nero è la dolente visione di ogni racconto che non raggiunge il lieto fine. Non ti sembra ridicolo? Piccolo, relegato nell’alto, più duro a premersi, ma così struggente! Lucidato, si riflette dei lucori altrui, per nascondere sulla sua superficie solo gorghi oscuri in cui smarrirsi per sempre.
Ed è per questo che ritengo opportuno venire da te. A salvarti, finché può la mia sola presenza eluderti dal commettere sciocchezze. Non che non confidi nel tuo buon senso, o altro. Oh, non ho più voce per spiegarmi meglio. Desidero solo stare al tuo fianco, rassicurarti, stringerti la mano e con un bacio asciugarti una lacrima fuggitiva che s’allontana dai tuoi occhi tristi. Perdonami se non potrò essere in grado di fare altro, ma quel poco permettimi di donartelo.
Le giornate nella tua villa a Le Havre trascorrono lente. Tua zia è stata molto gentile con me, ad accogliermi come ha sempre fatto, nonostante stavolta tu non eri con me. Ha preso la notizia con garbata mestizia, ma nella notte l’ho sentita abbandonarsi a un breve pianto, nella sua stanza affianco alla mia.
È una donna forte. La mattina dopo, nella sua crocchia argentea, era di nuovo perfetta come lo è sempre stata. Solo due cambiamenti ne incutevano le sembianze: la veste nera, a collo alto, e una luce un po’ più spenta negli occhi.
Io ho trascorso oziosi pomeriggi di lettura. Non mi riesce facile abbandonarmi all’arte, quando ogni pennellata s’inasprisce di rimembranze infelici. Solo una storia può portare, in questo momento, la mia mente altrove: non immagini quanti mari ho navigato, quanti posti ho visitato, nella notte, all’alba, fra le coltri di un cielo cosparso da costellazioni diverse, più nuove, più vive! Ho letto con attenzione trasognata di amori così simili al nostro, ma che mai si sono rivelati più intensi del sentimento che custodisco in me.
Ieri, per festeggiare il sopraggiungere di Marzo – sai bene quanto ami questo mese, quanto gioisca delle ultime, sparute nevicate che ogni tanto mi fanno visita a sorpresa – mi sono addentrata nel giardino della villa, lasciando indietro il patio da cui sovente avevo già assaporato l’aria marina di Le Havre. Il sale pare corrodere qui, prima che negli altri luoghi, la neve che in Febbraio vi si era posata. Ho scovato, nei rami di un biancospino, spuntato come un fiore, un mucchietto residuo di neve. L’ho sfiorato, incauta, graffiandomi la mano e permettendo che i guanti in pizzo venissero pizzicati dalle fronde, ho goduto del suo tocco gelido e dell’incavo sciolto che il mio dito ha formato nel grumo. Per un istante mi sono sentita una bambina. Quante volte mi hai chiamato così, lambendo parti del mio animo che a me stessa erano ancora sconosciuti.
Passeggiare in solitudine, scortata dalle meraviglie della natura fino al pergolato d’ipomee che tanto amo, è stato piacevole e ritemprante. Forse l’ispirazione di un nuovo quadro, qualcosa, stavolta, di davvero sensazionale, si sta affacciando alle finestre della mia mente occlusa dalla nostalgia. Potrei provare a darvi una prima bozza a Londra, che ne pensi?
Ah! Dimenticavo di comunicartelo. È passato di qui tuo cugino per visitare la madre, durante un pomeriggio. L’ho trovato in ottima forma, fresco come un frutto estivo, e sono contenta che la moglie stia conducendo una vita felice. Mi ha chiesto, impudente, quand’è che anche noi decideremo di condurre in matrimonio la nostra relazione. Ho sviato la domanda con una risata lieve, dopodiché mi ha sfidato a scacchi per trascorrere il tempo, accorgendosi forse della sua sfrontatezza e ritornando sui suoi passi. Ha imparato bene dai tuoi insegnamenti, dalle diverse partite che abbiamo fatto non sono riuscita una volta a batterlo.
Sapendo della tua passata sosta, però, si è infervorato non poco. Credo siano due anni che non vi incrociate, dopo un’infanzia intera trascorsa fra le pareti di un’unica dimora, e tu hai eluso una delle possibilità che avevi anche solo per stringergli la mano, come si fa fra vecchi amici. Ha promesso che al tuo ritorno verrà di nuovo.
Ho l’impressione che non siano in pochi coloro che ti danno la caccia.
Tua, per sempre,
Evangeline Leibniz
Post scriptum: nonostante tutto, la domanda del tuo parente mi ha scosso. Quando, per una buona volta, mi sposerai? Non ce la faccio più a far tacere i timori del cuore e le dicerie della gente.
06/03/1823 – Interludio
Londra, Casa Hinchinghooke.
La tela s’incava sotto le sue mani sottili. Il corpo di una donna, apoteosi di piacere che rifugge dall’armonia fatale, la matita che consuma la sua grafite nei tratti grossolani e imprecisi delle sue fragili dita. Il tramonto tinge d’oro le fibre tessute, così delicato che pare quasi mortificare il suo animo con la fuggevole bellezza dei suoi nastri. Passati lì per caso a condurlo in una scia di docile piacere.
Vi amo. In ogni secondo. Ascolto l’organo che abortisce voi nell’accordo di rimembrarvi sempre. Prima o poi.
Un movimento più in basso, strascicando le forme di un braccio, i pizzi e i merletti affinati dal filare una mano. Fasci di lavande a ricoprire il tutto, un universo frammentato, una marea ritratta nell’odoroso ricordo. È così forte che quasi infastidisce: l’alcol che permea forte e stilla di dolore acidi tagli. Le lavande hanno l’odore di fiori blu in un campo deserto. Hanno odore d’oceano, di quello forte, del sale che corrode la stessa tela, fino a sfinirlo nelle lacrime che cascano in frantumi d’infanzia.
Si vede appassire, sfiorire greve, sulle gambe petali seccati, strappati crudelmente alle rose ch’aveva donato alla madre al suo arrivo. Poi sospira. La matita gli sfugge quasi, ma stringe di nuovo, deciso. Si sente burattinaio, costruttore del miraggio, artefice di una composizione incisa a parole, e visioni sussurrate nell’inseguirete il distacco.
Un sibilo fioco più in fondo, asciutto, gli annunzia che la matita ricade al suolo, nello scoccare, all’unisono, del suo cuore.
Mani. Mani. Ancora mani. Mani che si allentano, come un affresco decadente, separati da una crepa che apre uno squarcio inafferrabile. Un vuoto marginale. Il vuoto in cui ricade, straziato come i suoi sogni, amori affacciati da un oceano di carta.
Non era mai stato un bravo pittore. Ci aveva provato, talvolta, suo malgrado bozze increspate e sporche, stracciate delle proprie mani, abituate forse all’inseguire l’inchiostro, che ad altro.
Il ribollire ridente dell’acqua, il pennello che vaga nella frescura del barattolo di fragili vetri incrinati.
Veloce. Il chiaroscuro sulle ombre delle mani, il respiro trattenuto un attimo prima di scoppiare. Li ha dipinti. Apparsi misticamente come anelli su un fondale ingrigito.
Il violetto, la punta d’ametiste fuso, così fluido a puntellare gli steli. Indorato è l’orizzonte in cui si spiega il fragile volare della sera, su ali arrossate d’imbarazzo.
Mancherebbe solo il piano, si dice. La melodia che l’accompagna algido nell’altalena di soni, frammisti e fragili, il cantilenare d’inaudite sirene.
Sirene, vi prendo e vi porto via. L’inganno della bugia che serbate in seno, siero invischiato al petrolio più oscuro, vanifica ogni vostro respiro.
Madre, sapete del ricadere di gocce in un pozzo profondo.
Una scia rossa gli imporpora le gote di lui bambino. Screzia gli occhi in un temperamento che sa di cioccolata, mista a lacrime di cannella. Ha il volto sporco di terra.
Piange.
Poi una danza più oscura, più dolce, l’infinito, il tremore del cuore afferrato d’altre mani…
Lei profuma di crisantemi, invece. Ha petali che sono ciglia, lunghe, sottili filamenti di violino, sbocciate nel rigoglioso silenzio che vi cresce dentro. L’intimità odorosa di lapidi e petali fusi nell’essenza del suo respiro.
La porta è socchiusa. Non cigola, non produce rumore, quando una mano la spinge per entrare nella stanza. La figura viene investita dai raggi brucianti di un ultimo sole, che alla fine del suo percorso riesce a infuocare l’ambiente, intrufolando tiepidi serpenti di rubino da ogni interstizio.
Un odore di vernici la investe. Casa. Casa è dove c’è lui: dove ogni filo dei suoi capelli di grano si trascina il sapore dell’estate, dove la vita si consuma nei baci riversi sulla sua pelle luminosa.
Sta dipingendo. La sua mano, decisa nell’impugnare una penna, ora è insicura sulla tela e pare giocare con i peli del pennello che tratteggiano delicati il suo dolore.
Gli si avvicina, nonostante vorrebbe in cuor suo restare un’eternità a rimirarlo nell’ombra, sentendolo ignaro della sua presenza. Lascia scorrere le dita sul suo braccio – il primo tocco è un tuono che percuote le membra –, la camicia bianca arrotolata fino al gomito, quindi gliele avvolge attorno al polso con cui acquerella il quadro. Lo guida in alcune rifiniture, qualche istante per assaporare in pace il suo profumo di fiori di pesco, e cannella, e legno di sandalo. Un’armonia di sensi che le inebria la mente.
Ferma il tratto, ed entrambi tremano, hanno sempre tremato, delle foglie nate sullo stesso ramo di betulla e pronte a cadere sulle sponde del fiume. In silenzio. I loro sguardi non si cercano perché non ancora pronti a incontrarsi, rifuggono adocchiando il nulla.
È seduto su uno sgabello senza spalliera, e lei sente la sua schiena che le sfiora il grembo. Stavolta non è il corpetto azzurro troppo stretto a levarle il respiro, è una presa diversa a scuoterle l’animo. Quasi non si accorge di essersi chinata appena, per lasciar scivolare le labbra sul suo collo liscio, le spighe di grano della sua chioma che la sfiorano e le solleticano il viso, come una carezza data in un campo pronto al raccolto.
«Byron, mio Byron.» È un sussurro che infrange ogni specchio.
«Scacco matto.»
«Oh, perdessi meno spesso» sospira Evangeline.
«T’amerei di meno?» Il ragazzo fa per rimettere a posto le pedine, un giocatore accorto, che carezza ogni pezzo levigato con la stessa cura di una sarta che ammira la sua ultima creazione. Un sorriso mesto spunta appena dal suo volto, quindi prende un respiro e continua: «A dodici anni m’innamorai per la prima volta. Una ragazza di strada, capelli rossi, l’accento di Nantes. Una figlia di Satana.»
«Un po’ azzardato, per un bambino.» Lo aiuta nel richiudere la scacchiera in cristallo, dopo che l’esercito è ritornato silenzioso nelle sue bare, custodite da quella lastra lucida, troppo pulita per portarsi dietro così tante vite mangiate. Il re nero giace accanto alla sua regina, ma non si tengono per mano: muto è il ringraziamento verso quella figura femminea che, di nuovo, lo aveva salvato.
«Non ero immaturo» dice, quasi stesse cercando una scusa per il suo comportamento, quindi si alza dalla poltrona rivestita di velluto rosso. Il salone è pervaso dalla solitudine, solo il fuoco nel camino crepita stanco le sue lamentele. Pochi sono i riverberi di luce, qualche candela poggiata su un candelabro dorato, sparse per l’ampia stanza con la casualità di un cameriere distratto.
Tutto giace nell’immobile penombra di una scena da consumarsi al buio.
«Non lo sei mai stato, vero? Non hai età, non hai mai avuto anno in cui annotare un cambiamento nel tuo spirito.» Evangeline resta seduta, e osserva l’uomo percorrere il tavolino rotondo di legno, lentamente, un passo per volta, accompagnando il tutto con una mano che soprappensiero ne ripercorre il bordo incavato. Un dito che segue il percorso del destino, lasciandosi trasportare, senza rivolte.
«Ho cristallizzato la mia vita nel momento in cui mio padre è morto. L’ho visto cadere come un bicchiere di vetro. L’ubriaco tira un po’ la tovaglia, e il calice s’infrange al suolo. Sparge un veleno d’imbrogli.» Lo sguardo, invisibile, coperto da ombre fragili e impalpabili come nebbia, è privato anche del suo consueto chiarore. Il ricordo si disperde, è il liquido che macchia il tappeto una volta che il bicchiere ha completato la sua caduta. « Lei, la rossa… quella bambinetta dei miei sogni, colpa sua» e l’incertezza si diverte a colpire la sua voce in balbuzie stolida. «Mia madre mi aveva… avvisato, e così aveva fatto con lui. Chi ha i capelli di fuoco è solo un bugiardo partorito dall’inferno.» Una pausa: la voce roca sfuma nel soffio di una vita devastata. «Io ho aperto le porte dell’oltretomba, portandola in casa. Era un angelo sperduto fra la polvere di Vaucluse, ma poi s’è rivelato demone dell’anima mia.»
«Continua, per favore.»
«Fuggimmo, incontro alle lavande in sboccio. Vaucluse non è mai stata rifugio più casto: eravamo aliti dispersi nel vento, non eravamo nulla, eravamo la proiezione di un passato cancellato male. Io e la rossa, che ci confondevamo fra i fiori, amandoci fino allo scandalo, fino al disastro, il sangue che riverse la mia vita. Colpa sua, maledetta!» È arrivato alle spalle della donna, ma non la tocca. Osserva la dolce linea della sua nuca piegata in basso, i capelli castani raccolti in uno chignon semplice, gli occhi socchiusi in un ascolto assorto. Osserva le sue bugie, i suoi segreti taciuti, scivolare a terra e liberarsi della loro coltre di gelo.
«Lei… è ancora viva?» chiede.
«Oh, Eva, non sai che il demonio non muore?»
Sfiora il corteo, bianco, una crisalide di lapidi spezzate e poi subito nere. La scia del suo dito, l’unghia tonda, che scivola fluida in una scala gentile, le fa crescere brividi di solitudine in seno.
La tentazione a cui sta per cedere il suo amato è languida, mortale. Ha paura che quelle dita, come filamenti spinati, ricadano in cenere nell’alternanza del campo santo nella quale, ora – per sempre – incide il suo tono. Più in alto, imperioso, come un mare di vetro in frantumi.
La stanza è un locale oblungo, illuminato dalle luce di un camino che arde nel rossore delle sue braci e combatte la notte, una fiamma s’infila come un’ombra lungo la parete e crea un ramo frastagliato, un teatrino di luci e tenebre circonfondono il tutto. Un pianoforte, un uomo su uno sgabello, una donna oltre la coltre di legno scurito, in fronte all’amore impersonato.
«In principio ci furono due mani. Odorose d’inchiostro che s’amavano in un intrecciarsi perpetuo, profilate lungo una penombra interminabile. Un’assenza, un’angoscia che premeva nel petto dei due. Si contesero, appena, per sempre. Combatterono a rose rosse e talvolta dal nero gentile, asservite con rovi che stillarono sangue puro. Poi nacqui e sfilarono cinque anni senza accorgermene, intrisi nei miei occhi di bambino. Da Le Havre, la vergine neve imbiancava i loro animi insanguinati d’amore, scappammo a Vaucluse, Valensole. E là, le lavande imperversavano in un oceano di ametiste, acute, rozze, accoglienti come le mani dei miei genitori.»
Scomposta, il suo respiro ansante le percuote il petto, ansiosa. Pretende. Sta seduta in una poltrona, ricamata con rami neri e foglie di primavera beccate da passerotti infatuati. Sta in fronte a lui e lo guarda negli occhi.
«La conobbi che era appena cominciata l’estate, in uno di quei giorni in cui s’attendeva oziosi lo sboccio delle lavande, così frementi d’avere in corpo il profumo screziato di quei fiori, in cascate di gemme dal proprio stelo. La conobbi che di nascosto m’ero inoltrato in un campo violetto, i fiori trattenuti ancora a sé, alcuni prematuri reclamavano la loro morte per sfuggire all’astiosa vita solitaria, in attesa dei loro fratelli. Ne raccolsi una, la spiga più bella, piegato, con gli occhi accesi di stupore.»
La musica intorno a loro, quelle note che salgono al cielo e ricadono meste, s’accorda perfetta, richiudendo porte d’inferni e paradisi al loro passaggio, alla voce narrante che novella un’immagine e ne interpreta un’altra.
«M’ero piegato, le dita strette intorno al verde del gambo, premevo con forza perché venisse via. Il tatto, scottante, invasivo e distorto d’altra pelle, che sfilava dal terreno la pianta novizia. Ci ritrovammo instabili, la spiga violetta stretta nelle sue mani. Nel trionfo di due volti. Uno solo.» Lei lo guarda, la sua pupilla dilatata trattiene nell’intenso il buio, distoglie per un istante lo sguardo.
«Le disgrazie, Eva, sono ghiacciate. L’amore però s’accende del rossore soffuso, placato, dei suoi capelli. Lei, impacciata, le mani in grembo, lasciò la lavanda a me, e s’allontanò d’imbarazzo dipinta sull’esanime pelle.»
Byron cessa la fugace melodia. Le candele brucianti ai muri indorano i contorni del pianoforte come filigrana di sole ad accendere picchi d’intimità.
«Per poco non scappò. Oramai ammaliato, corsi dietro al suo fuggire, lo strascico della bianca veste che le copriva le gambe in una corolla di giglio, rialzato tra le mani. Era lacera, povera, sporca. Timida come la farfalla che si posa sul suo primo fiore.»
«Sai, mio Byron, ho un inconsueta passione per i tuoi racconti. Sono bestiole ammansite dalle tue sillabe, sussurrate col dolcezza, intrinseche di melanconia; accendono fuochi di gelosia in me. Continua, oh mio Byron, pure per sempre.»
«La trascinai a casa, corremmo come due fiori estirpati dallo stesso stelo, mano nella mano, e pian piano calava la sera.»
Evangeline esitante, chiede, il farfugliare delle sue mani a mezz’aria è il giogo di un linguaggio profondo, taciuto.
«E fu tua?» Lui affranca un dito alle labbra schiuse, lascia che il monito plachi tutto, cali il sipario di un intoccabile silenzio.
«Mio padre la raccolse in casa, mia madre l’occhieggiò come un gatto randagio, e lei odiava i gatti che d’estate sgusciavano nel verone passeggiando.» Stacca il dito dalle labbra, semoventi, il monito spezzato, le dita che scompaiono sulla tastiera del pianoforte.
«Non aveva famiglia, lei era il reietto a cui tanto aspiravo, il fascinoso terrore che mi incastrava nella trama intessuta. Mi amava, o faceva finta.»
«E basta? Solo questo?» Pensierosa, le palpebre che si socchiudono in una foga, la smania di un bacio, mosaico di ciglia.
«Era il mio segreto più turgido, il rampollo di un fiore d’oro che splendeva ai tramonti di baci, le lavande sotto i nostri piedi intralciavano il passo. Che amore, quel profumo, la fragranza di toni assaporava il bacio. E fu il mio primo bacio, l’inimitabile.» Si blocca, la musica attorno si riaccende con un botto basso. Le mani avevano sbattuto con forza contro i tasti, poi di nuovo silenzio. «Oh, Evangeline, l’emozione che trasudate è un concetto d’invidia pura, non vogliatemene. È una parte importante. È d’infanzia.»
«Non curartene, Byron, è solo il mio cuore che piange a tradimento. Avrei voluto esser io quel papavero appena colto e curato con tanta passione. Quando l’hai baciata, che sapore ebbe?»
«Un sapore diverso. Ha sapore? Tutto ciò che è tensione allo spasimo, ha tutt’altro sapore. È lo sbocciare di un mondo silente, dove le timide roselline crescono sottosopra e sopravvivono alimentandosi di brividi contrastanti. Perché con lei, c’era una soglia focosa in cui sprofondavo lieto e incauto e spiragli di brina che stoccavano ai fianchi.»
«Qual era, il suo nome?»
«Katherine.» E mentre lo dice, contrae la faccia in un espressione dolosa.
E poi s’alzano, statuine affusolate che vagano sul palco di un carillon stonato.
Riprenderai, mio Byron, perché nell’altra parte, son sicura, il soleggiare del giorno mi aiuterà a non averne paura.
07/03/1823 – Interludio
Londra, Casa Hinchinghooke.
Il suono delle posate d’argento è lo straziante requiem dei cuori soli. Poche parole, solo quelle più necessarie, l’imbarazzo dell’infanzia perduta e delle memorie comuni: non v’è alone di consolazione, solo triste e immutata condivisione del dolore.
La composizione di frutta, nel vassoio al centro, pare attendere l’artista che ne dipingerà i tratti, con cauta lentezza e studio d’ombre. Giorno dopo giorno, aspettando l’ora del primo mattino, resterà lì a impolverarsi e a rinsecchirsi, finché di essa non rimarrà che un’immagine senza sapore.
I piatti sono pieni di ricordi, vuoti di cibo. I ghirigori attorno ai bordi, sapientemente dipinti da mani esperte, giacciono nella loro tenue tonalità salmone, e si tengono forza, filamento per filamento, lì a sospendersi in un cerchio nel bianco della porcellana.
Una domestica interrompe la quiete, portando un cesto di pane appena sfornato, caldo, poi tiepido, poi abbandonato a raffreddarsi intonso. È entrata da una porticina in legno, secondaria, con un intaglio in vetro nella parte alta che tuttora è appannato dai fumi della cucina. Quando rientra, l’uscio si richiude facendo vibrare l’argenteria accuratamente lucidata negli armadi a vista, con uno scampanellio che si riversa fra i vetri delle ante e dei ripiani.
«Quali sono i vostri programmi per la giornata?» Chiede Evangeline. Ha un segno sotto l’occhio sinistro, come una piega lasciata dal segno di un cuscino – un sogno interrotto, e le palpebre appena schiuse di chi è desto ma assonnato. Offre un sorriso prudente ai tre uomini che siedono alla tavola rettangolare.
Il più giovane, che le siede di fronte, prende un tovagliolo e se lo tampona sulle labbra. «Io e Delbert saremo fuori fino a stasera» dice, indifferente, quindi si passa le dita fra i capelli biondo cenere raccolti in un codino.
L’altro, seduto alla sua destra, annuisce con fare intento. Si dondola sui piedi della sedia, portando lo schienale in un’angolazione impossibile. Le labbra rosee come quelle di una fanciulla hanno una piega orgogliosa, carica di una dignità affetta dal risentimento. A ritmo del suo dondolio, le tende rosa pesco piegano in numerosi sbuffi da una delle vetrate, confondendosi al raso bianco dei veli più sottili e irrompendo nella sala da pranzo. Una finestrella è stata lasciata aperta per rinfrescare l’ambiente.
«Eva, che ne direste di prendere una boccata d’aria? La colazione è terminata, non c’è bisogno che ci tratteniamo più del dovuto. Sono certo che anche i miei fratelli abbiano le loro incombenze da svolgere» propone Byron e le prende una mano da sotto il tavolo, sgusciando fra i riccioli merlettati della tovaglia chiara, raggiungendola in uno spasimo d’amore.
Lei arrossisce, accorgendosi della sua impudenza, e con un cenno del capo che s’avvicina a un inchino si accommiata dai due: «Vi auguro di trascorrere una bella giornata.» Il suo sguardo si sofferma un istante in più su Delbert, che però non risponde, scuote soltanto la testa, lasciando che i ricci castani gli coprano parte del volto.
Mentre si allontanano, il parquet ricoperto dal tabriz persiano attutisce il ticchettio delle suole, il cui ritmo si uniforma a un solitario pendolo nell’angolo. Tic-tac, tic-tac, è anche il rumore dei telai che tessono fitti orditi nelle terre d’oriente.
Byron la trascina in giardino, attraverso una vetrata scorrevole che vi s’immette direttamente dalla stanza. Una ventata fresca li investe al primo impatto e la giovane rabbrividisce.
«Volete che rientri per prendervi una cappa?»
«No, Byron, non ce n’è bisogno. Sto bene così.»
Il prato fruscia sotto i loro passi sommessi, l’erba che si piega in dolci onde e che si rialza, carezzando le caviglie con un bisbiglio inudibile. Nel vialetto di pietre, fra un masso levigato e l’altro, sono cresciuti sparuti mucchi erbacei, da cui spuntano boccioli di timide primule. Il fiore giustifica i mazzi.
Il sentiero conduce, con una lieve salita, a un ponte in legno, con dei sostentamenti di ferro leggermente arrugginito ai bordi. Sotto la passerella gorgoglia un rivolo d’acqua pura, che si colora dei riflessi verdini della natura appena inselvatichita che lo circonda.
«Vi è sempre piaciuto, questo posto. Nelle primavere, bevevate l’acqua a lunghe sorsate, senza preoccuparvi delle macchie d’erba che vi sporcavano il vestito. Vi inginocchiavate lì, fra le libellule, pronta a spiccare il volo.» Indica una conca sabbiosa che immette gradatamente al rio, ampio in quel tratto non più di un paio di braccia. Per tutto il tempo non le ha mai lasciato la mano, e ora che sono saliti sul ponticello, il legno geme contrito ad ogni spostamento di peso.
«E tu mi trascinavi lontano, perché temevi che sarei potuta scivolare in acqua, nonostante il torrente sia poco profondo. Mi portavi sul ponte…»
«Vi bloccavo il corpo contro la balaustra che in estate gettava foglie di rampicanti a sfiorare le rive sotto di loro.»
«Come stai facendo ora.»
«E vi…» Una mano lo blocca, fermandosi sulle labbra di lui. Un paio d’occhi azzurri, intimoriti, bagnati di lacrime sospese sull’orlo dell’abbandono, si fissano in quelli dell’uomo. È una preghiera muta che induce al silenzio.
È il sussurro: «Smettila di darmi del voi. Ti prego, Byron, non posso sopportare più questo tuo lasciarmi indietro, lontana da te.»
Lui ride, poco più che un andirivieni, un tintinnio di felicità cosparso nell’aria. La condensa che spira dalla sua bocca, ora aperta, strascica fumi che velano vascelli d’intimità, vascelli di carta, con le ali ripiegate lungo le fiancate.
«E ti dicevo che eravamo solo un sussurro. Un sussurro nel vento, e che presto saremmo volati via con esso, danzando su quei piani impalpabili di una passione che ci allenta e poi restringe i nostri corpi in un tango che è veleno d’amore, scorre nelle mie mani intrecciate alla tua schiena e…»
E s’infiorano ali d’argento che trasudano disperazioni imperlate dal vuoto che li separa. Un respiro, due, è un sospiro che si trasforma in ordine e muta in piacere.
«E voleremo più giù, più su, più in fondo. Ove non si fa ritorno.»
«Byron! Rose, rose rosse! Rose fiorite, rosse come il filo che m’hai legato al polso.»
Evangeline alza il volto, pallido, quasi mascherato di porcellana, la crocchia di filamenti screziati di cannella, cioccolato al latte, fuso nell’assecondare il denso mormorare dell’animo.
Byron accorre, nel vialetto incorniciato da verdi cespugli, peonie rosate sono sporte come pettegole indiscrete, premature, ingenue. I suoi passi sono pacati, cheti, imprimono vestigia sulla terra smossa, come petali di rose corrose.
Nel cielo, i banchi di nuvole londinesi sono canarini da trattenere tra le stecche di ferro di una voliera, si ha paura che possano increspare le ali verso lacrime che ingrigirebbero il soleggiato meriggio ch’ora si godono.
Le betulle si librano accanto, affrancate da braccia più alte, confuse, ramate e schiarite di un verde che s’accende e s’arriccia.
Lei è in fondo, china tra petali come pizzi arrossati dal sangue, la veste di raso magenta la costringe in una statua dal profilo incerto, quasi si contenga a stento nella gabbia posta. Ora s’alza, lieve, le ciocche che le ricoprono il volto, le scosta con un gesto delle dita. Mentre Byron le gira dietro, lento, il cuore che gli batte in petto, un palpitare simile alle onde frante, le cinge la vita. Lei s’infiamma in volto, le guance cosparse di quella tinta apparsa in sprazzi a intrecciare un piacere scabro. Sente il corpo dell’amato, quel petto premerle contro la schiena, freme. Fremono tutt’e due. Vibrano al cospetto della loro felicità. Questa è l’ouverture di una sinfonia dal timbro talmente basso da strisciare in terra.
Byron abbassa il capo posando il volto nell’incavo tra il collo e la spalla sinistra della sua dama. Le prime note che s’accendono del profumo di fiori gelati.
«Rosse come il demonio. Come i suoi capelli che fuggirono in una scia devastante. Attenta a strattonarlo; mi portò via, per certi versi, staccando a forza l’essenza di un amore straziato.»
Il distacco dei loro respiri, le mani sciolte dal casto nodo che dapprima s’era creato, il sentiero di riccioli d’erba che affiorano dal terreno, li accompagna distendendo la terra in piccole dune. I loro piedi che tratteggiano il sentiero verso casa.
«Lei viveva in me e io in lei. Un essere decomposto, disfatto, l’embrione che si serviva di me, la scintilla dell’incendio. D’un tratto la vidi, la vampa che allungava le sue lingue, colate mai fredde, lungo l’apoteosi del nostro amore. Oh, Eva, l’amore è servitù, nevvero?»
Lei deglutisce, socchiude gli occhi, le labbra dischiuse, appagata e affranta dalle parole di Byron.
«Erano quindici, gli anni che aveva, seguivo la sua ombra per casa. Timida e fragile, furba, artefatta. Mi mise un dito sulle labbra, il monito di un silenzio oscuro. Aveva progettato tutto. Mi aveva messo fili immaginari in una schiena e li aveva trascinati. Mi sono sempre chiesto cosa sia ciò che l’abbia spinta a fare tutto… questo. Perché i cocci della sua infanzia distrutta invasero anche la mia.»
«L’imbroglio, giusto. È come dipingere un quadro difficile, la punta che si spezza, il pennello che sbava. È arte l’inganno di mascherare il tutto.» Evangeline alza le ciglia schiarite, di fulgido grano, e pare quasi voler sfiorare il cielo, con gli occhi, le dita, che rotea in su per cogliere quel raggio di sole che s’insinua come un silenzio sepolto e riemerso.
«Katherine aveva bisogno di me, me lo aveva scritto. Impossibile negare che m’aveva avvisato. Le sottili lettere sulle mura della soffitta, tracciate col dito sporco d’inchiostro, tondeggiavano. Non stavano mai ferme. Quel reclamare a me, un grido strozzato che parte dall’oltretomba e non giunge in vita. Ho bisogno di te, sei tutto, sei l’ordito in cui inseguo i miei sogni, mi diceva. Era il cartello di polvere, una cancellata impercettibile che sotto la mia presa, prima o poi, si sarebbe spezzata.»
«Ma dimmi, cosa è successo veramente?» Lui le rivolge uno sguardo intenso, gli occhi di lei colmi delle increspature del ghiaccio, di un amore di vetro incrinato. Un acchiappasogni dalle tinte riprese a guardare specchi di mare riversi, un fondale che proietta i propri sogni in lustrini dorati che s’interpongono all’acquamarina infinita.
«Disse che mio padre… tradiva mia madre. L’aveva visto con un’altra donna, l’intreccio d’altre vesti, il profumo d’altre carni. Era qualcosa di doloroso, mi fidavo di Katherine. Era come camminare su un filo sospeso sopra l’oblio del terrore, avrei voluto chiudere gli occhi, ma l’attrazione verso ciò che reclamava il mio essere dabbasso, era troppo forte. Sai, il filo si fa sempre più sdrucito mano a mano, lungo il cammino, fino a quando non c’è più nulla. È una sciocchezza superare il vuoto, camminarvi sopra, viverci, alla fine la caduta è inevitabile.» Ride. E si sente cadere, le ciocche dorate che gli ricoprono la fronte tersa da goccioline di sudore, che nascono dall’interno, paiono avvizzire, spegnere le loro tinte accese.
«A quei tempi, mio padre era il riflesso distorto di mia madre. Era lui che aveva assecondato l’accoglienza di Katherine nella nostra famiglia. Mi sentivo trafitto, trafitto in controluce. Lei, lui; lei che mi diceva: chi ha i capelli rossi porta solo male in famiglia, lui che osservava le note scorrere dalle labbra aperte di Katherine, sciogliere tutti i nodi intricati nel cuore e farsi beffe di noi.»
«Cantava, Katy, allora, era lei la tua vera musa.» Lei cerca le sue dita lunghe, le trova, le stringe, assapora il gelo raccolto in quella pelle, si propaga in una malinconia immensa.
«Lo fu per tanto tempo. Lo fu di tutti, tuttavia mia madre non restava ammaliata e non ne ho mai capito il perché. Mio padre pagava le lezioni di canto, potevamo permettercele, sì, ma era sempre un costo che gravava su un componente della famiglia indesiderato da…»
Madre. Tutto questo vuoi dire. Quanti sono i petali di margherita rimasti? Li hai donati tutti ad altre donne, per me, cosa offri per me?
«Byron, cosa fece Katherine?»
«Mi ha ingannato, mentre l’alcol corrodeva mio padre che tornava a casa a sera attardata, mentre mia madre guardava afflitta disfarsi tutto. Piansi anche io. L’ultimo limbo a cui si stringevano le mie mani diventava un brandello caduto nel vuoto. Ero convinto che amava un’altra, Katherine aveva detto così, sapendo quanto tenevo alla felicità di mio padre. Qual era la verità? Evangeline, la vuoi davvero?»
L’istante, il secondo, l’ora, perfetta in cui il cuore disperde il suo acido. Lei annuisce mentre Byron sbarra gli occhi, intrattenendo tutto il timore a galla.
«Katherine voleva andarsene dalla famiglia. Katherine non voleva me, voleva solo i soldi, un’eredità che spillava dalle attenzioni di mio padre, a poco a poco, goccia a goccia fino a riempire un vaso. E ora lo vedi, il vaso, trabocca, in frantumi di ceramica. Mentre la verità era solo un uomo deluso dalla morte del fratello caro. Ma nell’inganno che Katherine mi aveva tessuto addosso, dovevo difendere mio padre e porre fine ai suoi pianti. E lo vuoi il finale, Evangeline, lo vuoi davvero?»
Un sospiro. Non v’è bisogno che legga il suo volto per scoprire la risposta.
«Ho ucciso mio padre.»
Si sente una macchia d’inchiostro. Isolata. Stacca la mano da Evangeline, la guarda negli occhi disperso, ferito, il viso sfregiato in una smorfia di sconforto che per poco non si trasforma in pianto. Ma lui è forte, non può piangere, anche se il rimorso lo è di più. E poi le macchie d’inchiostro sono già un immensa lacrima partorita da uno scrittore distratto.
Nessuno li ha visti, nessuno ha parlato di loro, non una figura umana che s’interessi di cosa si stia consumando in quella stanza, ove ogni sera vi si sprangano, con il clangore di una serratura che mette a tacere ogni voce. Può un lutto serrare le bocche di qualsiasi individuo? L’arte del silenzio è il frusciare delle ombre. Le tende che s’aprono e si riversano da una finestra discosta: un fruscio.
«Lo soffri, eppure continui ad amare il freddo. Chiudi gli scuri, Evangeline.»
Una veste cala a terra, dopo che i lacci che racchiudevano il tutto – è lo schiudersi di un fiore, il dilagare di ogni emozione – sono stati sciolti da una mano rapita dal fremito dell’incoscienza. Le gonne turchesi prendono le forme di una distesa marina, una polla sull’aldilà che frantuma la monotonia del gelido marmo. Da esso, spunta una sirena dai capelli dipinti di sorbo. Dietro un paravento di fine carta vermiglia, una voce risponde: «Non ancora.»
Non ancora. Aspetta lì, Byron, sdraiato sul letto, lo sguardo triste e pensoso, la camicia sbottonata tanto che basta a far affiorare la pelle del cuore. Questo batte, bussa alle porte del desiderio, mentre lo sguardo rifugge dalle zone buie di un corpo nudo, un mimo perfetto, nascosto. Il sussurro della seta che lo riveste trascina con sé un muto grido, la dolcezza del suo suono è paura, sconcerto, indulgente disperazione. Le mani di lei annodano un fiocco dietro la schiena per stringere la vita in un abbraccio sottile.
Evangeline esce, i piedi nudi che calpestano il pavimento come se stessero galleggiando fra petali di rose, tra le braccia l’impacco maldestro del vestito da giorno, il mare che l’ha partorita. La vestaglia si ferma più su del ginocchio, ed è tenuta in cima da due fettucce rosse così come il tessuto. Si è sbrogliata i capelli, le ricadono sulla schiena in un rivolo di ciocche dalle sfumature ramate.
«Chiudi gli scuri, Evangeline. Prenderai freddo» insiste.
Fa finta di non sentirlo, getta l’abito su una poltrona azzurra e si avvicina al letto. L’alcova ha un soffitto intelaiato a fiori color orchidea e lampone, le cui foglie vanno a creare un manto intricato d’arabesque. Sui colonnati si sparpagliano motivi d’edera e malve intrecciate.
Lei gli poggia un dito sulle labbra quando questi fa per protestare, accostandosi al suo volto. «Voglio farti vedere una cosa.»
S’inginocchia e rimesta con un braccio sotto al baldacchino, alla ricerca di qualcosa. Quando ne riesce, ha in mano la sua valigia da disegno. Le borchie che ne costringono gli angoli sono ammaccate e scurite, il cuoio nero graffiato, caduchi protagonisti di viaggi e mostre, arti e lavori. La apre, e i ganci che ne legavano il contenuto scattano via all’unisono.
Una manciata di fogli si riversa a terra. Tutti i colori con cui dipingeva le anime del mondo, i barattoli in cui intingeva ogni emozione, i pennelli unghiati e sempre pronti a graffiare la tela, sono tutti spariti. Solo pagine, carte, pergamene – ogni tonalità capace d’accogliere tratti di grafite – è ciò che si scaglia sul pavimento come il getto di una fontana: un fruscio. Si nascondono per l’impiantito, piastrelle scalfite di volti e reami lontani, specchi che danno su una realtà distorta dall’effluvio di un incantesimo.
«Ma…» sfugge dalle labbra di Byron, più un suono impercettibile che un reclamo vero. Non lascia le coperte, ma ne infiora di pieghe infervorate la superficie liscia, le sue dita strette ad afferrare il tessuto.
«È tutto a posto» dice la donna. Si china a raccogliere il primo che ha toccato il suolo, lo tiene vicino al petto per non farne vedere il contenuto all’amato, è una bambina che protegge la sua bambola preferita stringendola al seno. Si siede appena sotto il bacino di lui, lasciando che le sue mani l’abbraccino, quindi rivolta il disegno perché lui possa osservarlo.
I colori sono sprazzi intonsi di luce su una scena dominata dal nero. Per una volta Evangeline non si è dedicata alle tenui tinte degli acquarelli, ma ha usato pastelli oliati per generare il fascino di un distacco infelice. Una, due, cinque spighe di lavande dai riflessi vitrei sono poggiate su un pianoforte verticale, e i tasti s’incavano sotto la loro premurosa pressione. La melodia delle terre di Provenza si sparge sugli spartiti appena sbozzati.
«Bianco, nero, bianco, bianco…» sussurra lei.
Il dipinto è ripreso di profilo, e si vede la figura in ombra di un uomo, seduto su uno sgabello di fronte allo strumento. Le braccia sono abbandonate sui fianchi, in un atto di mesta rinuncia, e gli occhi socchiusi paiono fremere allo sfiorare di ricordi distanti nel tempo. Un piede è poggiato sul pedale, quasi a voler spingere quel suono a non smorzarsi, a durare finché anche il destino non ne avrà tracciato una fine sicura.
È tutto buio, è la coltre della morte che si distende e si rivela sullo sfondo sfumato: una tenda bianca, così sottile che si intravede da essa l’infinità di un cielo stellato, e così pieghettata su se stessa, sgualcita, che le sue crespe formano un altro volto, femmineo, contrapposto a quello del giovane.
Il viso etereo si protende verso di lui, le labbra schiuse in un bacio consolatorio. E si sa, ora, che la macchia biancastra che rischiara parte della guancia del ragazzo è in verità una mano di fumo, una carezza proveniente dalle distese di un territorio sconosciuto. Vaucluse, non sei mai stata rifugio più bello.
«Non l’avevo finito. Non volevo mostrartelo prima, ma ora… ora era il momento giusto.»
«Sono io» constata Byron. Oramai il foglio giace fra le sue dita, gliel’ha strappato per perdersi fra i ricami della sua vita, coinvolta in una bozza piccola, inferma, delicata come la sua esistenza ora riposa appesa a un filo. E la lascia, inutile pergamena – che scivolasse pure in terra fra le sue compagne di carta. Si dimentica, nella notte, ciò che affolla le vie del tormento.
Prende Evangeline fra le braccia e la porta a stendersi su di sé. I primi baci si consumano nella disastrosa quiete di un segreto sussurrato troppo forte, nella bramosia di cadere vittime dell’ardore. Il gelo che proviene dalla finestra aperta è divenuto brezza piacevole, aria fresca da concedersi in respiri affannosi.
Byron fa scivolare le labbra sul collo della donna, percorrendone la pelle con la leggiadria di un accordo, e brividi di piacere scuotono il corpo di lei. La spallina le ricade sul braccio, mentre la bocca dell’uomo si muove lungo la spalla e scende, cauta, a liberarla da ogni pudore. Il giovane accoglie il suo seno turgido, pervaso da un profumo più caldo e tenero, che si scontra con la sua lingua ansiosa.
Più in basso, le mani di lui raccolgono la vestaglia in spire che sono il cristallizzarsi del volo di una farfalla, onde marine permeate da un sapore vermiglio, e in una carezza che sfiora i fianchi di lei porta il tessuto a cedere dalla carne.
Dita d’artista slacciano gli ultimi bottoni della stropicciata camicia di Byron, sfilano i calzoni di velluto marrone; a far compagnia ai sogni di lei dispersi al suolo, si aggiungono le vesti portate via con insofferenza. Un fruscio, e non è più silenzio.
«Ti prego, scappiamo incontro alle lavande in sboccio» lo implora lei.
E si chiude così, come se nulla fosse mai accaduto, un velo che si stende sulla fulgida superficie del mare… un bacio di luna per gli immigrati del cielo.
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