giovedì 22 luglio 2010

PostHeaderIcon Rip Out The Wings Of A Butterfly

Qualcosa, oltre la porta socchiusa, si smuove palpitante fra le mani di un uomo. Si sente lo stridere di carta velina che si lacera lenta. In sé, è un innocuo strappare per creare nuove opere dal sapore dolce di una prelibatezza presa dal pasticcere lì affianco. Ma lo sfrigolio che lo segue… sa di dolore. Bianco dolore dello spegnere di un sogno, come una candela finita in terra, caduta dal davanzale di una madre in pena per il figlio lontano, e schiacciata da una carrozza di passaggio.

La porta è ancora chiusa, si vede solo un triangolo di luce allungarsi tetro in terra, proiezione dei pochi tratti d’aria che si sporgono all’interno del laboratorio. Il suo tenue riflesso mostra le fughe che dividono una lastra di pavimento dall’altra, le fa rilucere un poco, mostra le incavature dell’uscio legnoso, la maniglia lucida e accattivante, dorata. Bella perché forse mezzo dell’apertura di un mistero da svelare. Nel buio, si nota l’ombra appena più scura di una figura piccola e lieve, imperlata in una tunica in lino. Una bambina curiosa.

Si avvicina, le pattine che scivolano silenziose, la veste che segue i movimenti con un ondeggiare leggero. Spia, con il respiro che s’accavalla ad ogni scoperta che i suoi occhi in esplorazione compiono. Un singulto che sa di verità taciute la scuote.

Al di là, l’uomo assapora la carta sottile. L’avvicina al naso con bramosia, lascia che essa accarezzi le labbra grezze e screpolate, le palpebre chiuse ad acchiappare idee. Un’estasi malata che si consuma, e finisce quando il foglio fine viene gettato sull’impiantito. Esso compie un volo leggiadro, sosta in aria, vittima di correnti inesistenti, quindi si poggia portando con sé uno scampanellio lontano. Allora l’uomo prende una penna, la intinge nell’inchiostro e lascia che la mano scorra rapida sulla carta ingiallita. Scrive, scrive, narra la sua storia con desiderio. Non si ferma, e forse anche i polmoni sono bloccati dalla corsa che cerca di compiere, inesausto.

Nella stanza c’è solo lui, i capelli un po’ radi sulla fronte ma ancora di un nero intenso, qualche ruga a incorniciare i tratti. La scrivania è già intrisa di scartoffie, mentre sul lato sono accumulati fogli puliti e calamai. Affianco ha una lampada che fa luce; posta in terra, ha un braccio in metallo che nella penombra pare stranamente opaco. L’intensità della lampadina è regolabile attraverso una rotella rossa, come a invitare di cercare la tonalità giusta per ogni racconto. Un paio di occhiali sono abbandonali lì affianco.

Ma il pavimento, il soffitto, il resto della camera sono un colpo violento. Gabbie lugubre giacciono appese, le trame in ferro fitte come a imprigionare nuvole e nastri d’argento. E non sembrano fiori d’arancio, sprazzi di nubi, cuori argentati, i lampi che si scuotono e avvampano, lì reclusi nel tempo? Solo voliere ad ammobiliare il locale.

L’impiantito è un cimitero. Scheletri di farfalle, senza ali, sono come addormentati, sopiti. Eppure nelle loro posizioni rigide si nota la sofferenza della morte, il sacrificio dolente di una vita che non avrebbero voluto abbandonare così presto. Sono le innocenti sacerdotesse di un culto segreto, e sperano ancora adesso, con gli occhi neri e lucidi aperti sul vuoto, che non venga mai rivelato. Fra le piastrelle scorrono rivoletti di sangue, macchioline rossastre e indistinte. Più in là, sono ammucchiate le loro ali: raggrinzite, lerce, talvolta sminuzzate in più parti, ormai senza una briciola vivida del loro vero colore. Smembrate.

La bambina si sente mancare, stordita, avverte le lacrime solcarle le guance. Quelle lacrime portano il ricordo di giorni passati, cautamente intinte in episodi remoti, vibrano della rimembranza di voci lontane. Poi cadono, in goccioloni pieni che s’infrangono al suolo. Alcune sfiorano i cadaveri, quasi a voler abbeverare i loro visi rinsecchiti, senza sapere che il ricordo che esse portano, solo poche ore prima, avrebbe potuto far parte di un mistero più grande e perduto.

«Papà, papà! Guarda quante farfalle!» grida raggiante.

«Sì, tesoro, sono tutte per te.» L’uomo si aggiusta gli occhiali sul viso e la sua bocca si contorce in un sorriso sbieco. Ha portato la figlia in un enorme prato appena fuori la città. L’erba è alta, sembra non esser mai stata rasata, ma conserva tonalità fresche e delicate, come se si curasse da sé, giardiniera dai gusti pittoreschi e coltura accondiscendente al tempo stesso. Fra essa nascono decine di fiori delle più svariate specie che insieme fanno un caleidoscopio di colori che attrae chiunque, insetto o umano che sia. È un piccolo angolo di paradiso che si crea il suo timido posto nelle campagne, fra i campi arati di tutto punto. Campi che anch’essi hanno un sapore macchinoso, ferree code postume del centro abitato, dove il sapore del grano si mischia ai freni caldi dell’aratro, dove lo spaventapasseri è un gigante in metallo che percorre i sentieri rombando acutamente.

Il prato invece è puro, limpido come il cielo che lo sovrasta, oggi azzurro e venato di nuvolette che sembrano gli sbuffi dei camini invernali per il sentore familiare che emanano. Il sole picchietta a sprazzi, è caldo sulla pelle, ma non duole: le ombre chiare delle nubi sono ripari fra cui saltellare per cercare riposo, e l’estate è lontana con la sua afa avvinghiante. Un vento sospira fra i fili d’erba, li fa frusciare, e rende ancor più lieta l’atmosfera d’amore. La piccina parte per tuffarsi nel suo cantuccio di natura.My Immortal

«Aspetta, tieni» il padre le porge un retino dal manico rosa, comprato apposta per lei.

«A che serve?» chiede la bambina, sbigottita, percorrendo l’oggetto con lo sguardo.

«Per prendere le farfalle. Una volta fatto torni qua e le mettiamo nelle gabbie che ho portato da casa.»

«Ma, papà… sono così belle a volare lì sul prato! Perché le devo imprigionare?» mette il broncio. Non vuole far loro del male.

«Non succederà loro nulla,» continua l’uomo, quasi leggendole nel pensiero, un tono di voce fin troppo rassicurante ad accompagnare le sue parole «è per il tuo compleanno.»

«Il mio compleanno? È fra più di un mese!»

«Lo so. Noi verremo qua ogni settimana, e ne prenderemo un po’. Poi al tuo compleanno le libereremo tutte, e loro voleranno nel cielo colorando i tuoi splendidi dieci anni.» indica la volta celeste col dito, ma gli occhi sono come sempre posati sulla figlia che, pensierosa, ancora pondera la proposta inusuale.

Lei si apre ad un sorriso. Il pensiero di un regalo tale la rende felice, e i dubbi di prima si dissipano come un fiocco di seta sciolto da una sarta. Prende il retino e si fionda nel campo, ridendo, gaia di quella giornata preziosa.

Le farfalle sono davvero tante: ad ogni suo passo qualcuna si libra dal fiore su cui era posata, e si va ad aggiungere alle altre che danzano in aria. I colori brillano alla luce del sole, si creano quasi arcobaleni viventi, nugoli di creature venate dalle tinte dell’anima. Sotto, le formiche fuggono ai passi della bambina, s’infilano nei buchi del terreno a cercar rifugio, magari trascinando un pezzo di foglia o un chicco di grano. Delle coccinelle riposano pigre sui fili verde smeraldo, osservate da qualche ragno curioso che interrompe la sua tela per ammirarle; perdersi nelle loro macchiette nere, incastrate nel rosso ciliegia del manto, non è mai sembrato agli otto zampe un piacere che ne abbia di più dilettevole. Sopra, s’abbandona la penombra della fitta vegetazione, e si entra nel regno dei cieli: bombi, api e vespe si dividono i fiori in tanti capannelli, ognuno occupato a saccheggiare il suo nettare preferito. Lavorano con passione, a volte pare collaborando fra loro, i più arditi che spirano occhiate alle reginette del prato.

  Le farfalle… le farfalle sono fiori, se solo quest’ultimi avessero il dono del volo. Se si osservano bene, a pochi passi di distanza si possono trovare copie perfette. Un crisantemo blu saluta scuotendo la corolla la sua amica, dalle ali tinteggiate d’azzurro intenso, gli occhielli vicini alle punte dalle sfumature violette e contornate di nero. Questa in risposta gli vola affianco, carezzando con la zampa uno dei suoi petali carnosi. Di là, una camomilla lancia occhiate invidiose alla sua gemella alata, che metri più in su volteggia come un sole danzante. O ancora, al ciglio che s’affaccia alla strada asfaltata, il papavero gareggia in bellezza con una farfalla dalle ali enormi, di un rosso fuoco che ricorda un vino pregiato o le labbra cosparse di rossetto di qualche attrice famosa. Entrambi si dannano ad apparire i più belli: l’uno trattiene le sue gocce di rugiada per splendere ardente, l’altra s’atteggia a tango suadenti muovendo altezzosa le antenne sottili.

La bambina ne ha acchiappate molte, ma ora è stanca di inseguirle. Vuole solo sdraiarsi fra l’erba, mettersi il cappello di paglia come cuscino ed osservare con occhi ammirati quel minuto mondo che tanto l’affascina. Restituisce il retino al padre, che è rimasto tutti il tempo appoggiato allo sportello della macchina a guardarla, forse pensando a qualche storia da riportare su carta. È uno scrittore, e la figlia ne è fiera, perché questo significa anche tante fiabe narrate alla sera.

Una farfalla le si posa sul naso. Le ali sono appuntite, un po’ ricurve, sembrano fini come una tenda in raso. Le zampe le fanno solletico, mentre scivolano leggermente sulla superficie liscia della sua pelle, poggiandosi poi in una presa più salda. La piccina cerca d’incrociare gli occhi per agguantare tutte le sfumature d’acquamarina della creatura, che scorrono ondulate, sono le onde di un mare caraibico smosse dal passare di una sirena.

«Qual è il tuo segreto? Perché sei venuta proprio da me?» la voce della bambina esce in piccoli refoli dalla sua bocca, eppure ogni breve folata pare spingere la farfalla a volarsene via. Ma lei si aggancia meglio alla sua seggiola, piega il capo allungato da un lato, fissa gli occhi sull’umana con fare stupito. Quegli occhi neri sono pozzi di fata, gocce d’Empireo che racchiudono qualcosa di indecifrabile e strano a capire. Vedono il mondo enorme, più grande di quello che è, come uno specchio deformante ne carpiscono i sogni per racchiuderli nelle venature dei loro fievoli corpi.

«Quindi tu viaggi per le nostre menti? Non dire bugie. Ho visto… ho visto il mio incubo dell’altro giorno nelle tue ali.»

Lei tace, e come stizzita riprende il volo. Al suo posto arriva la farfalla vermiglia di poco prima, che prende ad arrampicarsi su per il braccio. Al riflesso del sole, pare che ci siano delle mani chiuse a coppa disegnate sulle sue ali. Fra loro scorre sangue, sangue come fosse vino appena versato. Ma è solo un attimo, e la visione svanisce, dileguandosi nel placido rosso di sempre. I suoi occhi fiammeggianti d’Inferno vagano sui capelli ramati della bambina.

«E tu? Qual è il tuo segreto? Non sei ciò che vedo, ci sono storie dentro di te.»

Anche lei scappa, fugge nell’aria. La bimba s’assopisce, e sogna. Sogna le sue fantasie ghermite dalle farfalle, che poi ne fanno storie da portare sulle loro ali in giro per il mondo. E piccola, lei, vola con loro, diffonde ogni briciolo di racconto raccolto per strada, così come le api racchiudono il polline dei fiori fra le loro zampette. Asperge polvere di possibili romanzi, sparge petali di future narrazioni, le aiuta nel loro compito greve.

«Papà, che hai fatto?» finalmente ha trovato un briciolo di audacia per parlare. Forse si era nascosto alla punta delle pantofole, là dove il piedino sfiora la calda intelaiatura. Ha sprecato del tempo per trovarlo, ma alla fine l’alluce ha sfiorato il suo coraggio, rintanato nel suo rifugio, e l’ha costretto a uscire allo scoperto. Ma le lacrime di bambina ancora non s’arrestano.

L’uomo interrompe la seduta di scrittura e si volta a guardare la figlia. Indossa cautamente gli occhiali, quasi per vedere meglio il suo dolore e accertarsi del suo aspetto affranto.

«Papà, che hai fatto? Le mie farfalle… perché hai mangiato le mie farfalle?» è sgomenta dal fatto che un’azione tale ha incrinato l’immagine così perfetta, dolce e protettrice, del suo amato padre.

Lui sospira. Le fa cenno di avvicinarsi con una mano tremante. «Vieni qui.» Anche la voce pare bisbigliata, non ferma, quasi essa stessa non sappia capacitarsi del suo ardire.

Lei esita a prendere posto sulle ginocchia del genitore. Un tempo erano sinonimo di sicurezza, tepore, erano il nascondiglio dalle brutture del mondo. Ora sono solo un luogo dove stare più comoda, in attesa di qualcosa che sa già le farà male. Ma lo stesso ubbidisce, come una brava bambina. Il braccio che l’avvolge è freddo, il petto su cui si poggia, nonostante sia estate inoltrata, è glaciale come uno scoglio di brina sorto in mezzo all’oceano.

«Tesoro, le farfalle non erano per il tuo compleanno… ma questo lo saprai già. Posso raccontarti una storia?» un mesto sorriso gli si apre sul volto. Gli spazi vuoti fra i denti, così scuri nella luce scarsa, sembrano voragini di menzogna. Forse un tempo potevano ispirare simpatia, mista a un pizzico di pazzia che contornava quell’aura fin troppo spensierata, ma ora erano come finestre sul cupo antro di un racconto atroce.

«Ora ci vuole anche il permesso per parlare?» è stata cattiva, lo sente, percepisce dalla smorfia melanconica dell’uomo che qualcosa nelle sue parole deve averlo turbato. Forse un po’ di quella ferocia, uscendo in rivoli fumosi dalle labbra dell’uomo, s’è infiltrato nel suo corpo gracile, e ne ha fatto triste mezzo d’usura.

Lui non desiste, e riprende a parlare con fare affrettato «Non devi avercela con me. L’ho fatto per noi»

«Questa è una brutta storia. Non voglio ascoltare brutte storie.» Ancora termini neri ad oscurare l’atmosfera glabra. La piccola s’aggrappa alla camicia del padre, tira il colletto come per arrampicarvisi sopra. Cerca di arrivargli all’altezza degli occhi, avvicinarsi così che possa scrutare la sua anima falsa, senza che gli anni separino il suo giudizio dalla sua maschera infame.

«Dentro ogni farfalla c’è la storia che tu vuoi ascoltare, quella che ti racconto alla sera, quella che il papà scrive di notte. Vedi, questi fogli, un giorno, saranno presi tutti in un libro. Il libro ci darà i soldi per mangiare e bere,e per farti andare a scuola. Se questi fogli non hanno una storia scritta sopra, il libro non arriva e i soldi nemmeno. E io ho bisogno della storia, per questo uso le farfalle, per averla e prendermela, per scriverla.» Ha fatto confusione, la bambina se ne accorge, ma allo stesso tempo pare di aver capito qualcosa in quel garbuglio di frasi. Ma allora ricorda i pomeriggi al campo, e l’idea si fa strada, si compone leggiadra e crudele nella sua giovane mente.

«Non possono darti le storie? Non puoi chiedergliele per favore?» Perché ucciderle così spietatamente?

«Loro non la raccontano mai. La custodiscono gelosamente. Sono orgogliose e troppo altezzose per dartele. Se tagli loro via le ali, la storia si libera e il papà può scriverla.» L’uomo aveva scoperto il segreto per caso, e tutt’ora non gli sono chiari tutti i particolari. E spiegarlo a una figlia è difficile, specie se sei solo.

«Le storie sono tutte vere, non è così? Le prendono dalla fantasia della gente, dagli altri universi, dappertutto.» Un lampo di consapevolezza si fa strada nelle iridi azzurre della piccola.

«Sì, è così.»

«Papà?»

«Sì? Dimmi tesoro.»

«Io non ucciderei mai una farfalla per una stupida storia.»

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lunedì 12 luglio 2010

PostHeaderIcon I’ve Crossed Oceans Of Wine To Find You

 

La girandola vortica senza sosta. Sola, al centro frammezzato di mezza via. I colori dei suoi spicchi si confondono, mossi da quel vento incostante, e il giallo dei girasoli si tramuta in blu crisantemo, il rosso è allo stesso tempo il verde del cielo e l’azzurro dell’erba. O è il contrario?

Eppure agli occhi della ragazza è proprio così… non può essere diversamente. Il cielo è verde, con le sue nubi nerastre, filamenti avvinghiati da soffici catene. L’erba è azzurra, e ogni tanto vibra, quasi essa stessa respiri di candida gioia.

Presa nel gorgo, la fanciulla è una macchia grigiastra nel foglio della calda campagna, lo sguardo fisso ad osservare le giravolte mobili ma statiche nel loro brandello di aria, il loro rapido fruscio, sguardo che sa penetrare oltre e scrutare anche la fessura in mezzo al giogo incantato. Seduta in fronte al fulcro del suo osservare, sembra perdersi, affogare nel mare dei pensieri. Un forellino, piccolo, incurvato nei bordi, funge da lente per una gradita sorpresa. Quindi spia dall’apertura nella girandola, attorno è solo ruotare, spia e guarda al di là della sua gabbia di colori, prigione d’abbagli.

Fiancheggiando un ruscello vermiglio, un po’ denso nell’atmosfera irreale, un’altra ombra scorre per le rotaie del sogno. Un’altra sagoma dai contorni sfumati, bigia, eppure forse unica nel sentore di tatto gentile che emana, aulente e compagna. Arriva ad affacciarsi alla finestrella al di là del mulinello stornato da brezza che, ne era certa, fanciulla, sapeva di mare.

Perché le uniche cose che tramavano vita… erano le uniche senza uno strascico di tinta vera?

Giovane. Sì, un giovine è colui che si è inginocchiato fra l’alta sterpaglia, lo stesso che prima aveva costeggiato l’acqua rossastra. Fra l’erba il suo sguardo ha colto un fiore cristallizzato in piume d’angelo, e ora poggia l’iride incauta lì all’apertura del mondo. Ivi le due pupille s’incontrano, specchio nel specchio, e tale il viso scorre senza sfiorare il continuo girare, ancora specchio nel specchio, per portare le floride labbra a incrociarsi nel vuoto.

Lei è graziosa, avvolta in un abito bianco, semplice e corto, infagottato di sottili nastri di seta. Due ballerine minute le incorniciano i piedi, e scuri fili di capelli le avvolgono il volto.

Lui è serio, nei ricci nerastri che gli scompigliano l’aspetto. Solo una giacca e dei pantaloni dai toni metallici; scalza l’anima del ragazzo ha vagato per i bizzarri sentieri.

Le mani di entrambi si alzano dopo aver giaciuto immobili in grembo. Si uniscono in una stretta fatale ai lati della girandola, mentre gli occhi si chiudono ad attendere il seguito della loro macabra danza. Non c’è possibilità di un bacio in quei pochi granelli d’aria che distaccano le bocche, contornate di divoratrice voglia e turbinante passione. E allora un soffio, un respiro, è lo scambio. In esso, gocce di vita svanita nella chimera che serra i battiti restii. Allora come una scarica li percuote: i nastri di lei diventano di un rosso ciliegia, ed è l’onda che la trapassa a colorarla a tratti di un biancore reale, le mani rosate che sembrano pallidi fusi imperlati; lui in cui nuove spume si smuovono fra i capelli ramati, ed è la stilla di verde speranza a pitturargli l’iride smorta, il bocciolo di rosa cremisi ancora intento a spirare esistenza.

Si possono trapassare le porte dell’Inferno?

Si rialzano, lenti come il sipario di un’opera incompiuta, docili come fiori in preda alla corrente che con loro non portano emozione. Ora sono l’uno di fronte all’altra, con quello che è il motore di un miraggio che sa di fantastico. Sotto il suo rombare, ogni segno che indica presenza di mare: una conchiglia posata nel tratto di terreno brullo, striscia lunga che pare allontanare i ragazzi, oppure una piuma di gabbiano che galleggia sul fiume di sangue per andare a ricongiungersi con la sua casa. Una squama di sirena smarrita nel vento.

«Lo seguiamo?» voce di donna che è sussurro. Se solo quegli aliti si fossero condensati come brina invernale, a qualche passo di farfalla dalle labbra rinsecchite, la verdognola volta celeste avrebbe osservato un moto di desiderio spostarsi dall’uno verso l’altro, l’inseguimento che si nasconde fra gli spiragli delle nubi nero petrolio. Una patina di plastica pare dividerli. È il segno nel terreno, ove nulla cresce, laddove la girandola vive, il sorgere del muto divieto.

E la girandola corre, corre… trascina un mondo dietro di sé.

«Cosa?» voce di uomo che è raschiare. Come un lupo che ambisce alla preda. Non si resiste al fremere del tormento.

«Il mare…» risponde lei.

«Per dove?»

«Di qua.» Allora rompe la barriera, lo prende per mano, e subito si getta nell’acqua vermiglia. Quindi segue la corrente flebile, che trascina entrambi verso la sua foce vicina. Le loro figure grigie si macchiano di rosso, come una vecchia foto incorniciata dal vetro incrinato, che è immobile vittima di un suicidio di sangue.

Fuggono, lasciandosi alle spalle la girandola che ancora vortica, forte, decisa. Determinata come il volo di una civetta nella notte buia.

Dopo pochi passi, fa la sua comparsa il mare. Distesa cremisi, di un colore marcato e liquido come vino. Forse del vino ha anche il sapore accogliente…

Piano i due s’immergono, restano con i capelli smossi dall’aria, mano nella mano, a contemplare un orizzonte che sa di fine. Una fine infinita, sempre lo stesso bordo di scoglio, come un granchio che s’arrampica sul masso ma poi viene riportato giù dalle onde violente, e riprende la risalita, ancora e ancora.

Un secondo. La confusione. O è caos? La visione si sta capovolgendo. Le proiezioni umane vengono trascinate in fondo al mare, la testa che sbatte e crolla fra gli spuntoni del fondale irto. Quindi una corda si avvolge attorno ai fragili colli, nell’acqua è fluida e sinuosa come un serpente che tenta. Il cappio si stringe.

Due figure, nel sogno, sono impiccate a testa in giù nel letto dell’oceano di vino.

La girandola cessa di muoversi. Nel cielo, le catene delle nuvole s’attorcigliano a formare una scritta. È un addio lugubre, grottesco, la canzone di un giullare burlesco. Come se in quel luogo accattivante ci fosse mai stato qualcosa di concreto… anche l’ultima ombra terrena è svanita, inghiottita. Morta.

“La brezza saprà concedervi un buon vento su cui prendere la via dei sogni… a volte lo scrosciare delle onde, ad occhi chiusi, sa essere quello di un paradiso lontano…”

E lì si nascondono occhi che mai più s’apriranno a vedere. Lì, giacciono orecchie che sempre ascolteranno lo stesso ritmo di mare.

Si può chiamare Paradiso il posto che ha ucciso anche l’ultima ombra di te?

venerdì 9 luglio 2010

PostHeaderIcon Brezza di nostalgia

 

Sorride al pensiero di tutte quelle parole che le stanno sfuggendo via. E' lei, seduta all'angolo del letto, alcuni fogli sbiaditi a giacere sulle ginocchia, il capo dondolante al ritmo di una musica sconosciuta. Non si preoccupa se s'accorge che un'intera storia ormai è andata, se la penna è ormai solo vittima di spenti scarabocchi e la mente vaga, perduta anch'essa, al bacio dell'altro dì, all'abbraccio di quella mattina. O semplicemente si spegne, candelina di qualche compleanno antecedente che trascina con sé lo strascico di un desiderio errato… e se si placa, quel che resta è fumo della sua fatua fiammella.

Oggi non è giornata per scrivere. Lo sguardo scorre sull'intrico di fiori della coperta. E' oggi giornata per vivere?

S'abbandona alla stanchezza degli eventi, all'indietro il suo corpo cade come un velo steso all'ombra di un pesco. Il piumino lancia uno sbuffo, arricciandosi ai lati della sagoma affossata che vi ha preso posto. Un sospiro lo segue. Ha portato l'ispirazione dei gesti, ma il sapore di un racconto sembra ancora lontano.

E allora arriva il sonno, dolce, ristoratore, piccolo viaggio racchiuso nelle accoglienti pareti di una stanza da letto. Pareti lilla, finestre che s'affacciano su ciuffi di alberi e spruzzate di bianco. Anche i fogli sono bianchi, come la neve là fuori. Fra essa, le sottili orme di qualcuno che sta tornando a casa. Sulla carta, le impronte di stelle collegate con ponti di legno: le fragili reti di idee mai sfiorate.

Distante, nella dormiveglia sempre presente, il salire di scale. Vicino, nel respiro che accarezza il collo, il tocco di mani che ricoprono fra fresche lenzuola. Candido, richiesto, forse appagante nel fallimento del giorno, il corpo che, al suo timido fianco, si addormenta con lei.

Piccola scrittrice, oggi non è giornata per scrivere. La notte sorvola il cielo con la sua coltre cobalto, tinteggiata di chiare gocce d'opale che scivolano sulla stoffa brillante. Stende il fondo dei sogni, dipinge gli schizzi dei più cari ricordi. Una mano percorre le forme serene. Oggi è giornata per vivere.

martedì 6 luglio 2010

PostHeaderIcon Recensione: Indica – A Way Away

Ho l’impressione che ultimamente ho la tendenza ad essere incredibilmente prolissa, ma… lasciamo perdere. Buongiorno a tutti, lettori, e godetevi questa sentita recensione :)

Le Indica sono un gruppo finlandese formato interamente da ragazze. La composizione della band si è stabilizzata nel 2002, con Jonsu (voce, violino, chitarra, tastiera), Heini (basso, voce), Jenny (chitarra, voce), Sirkku (tastiera, clarinetto, voce) e Laura (batteria, percussioni, voce); nel 2004 è uscito il loro primo album, Ikuinen Virta. Da allora hanno sempre cantato nella loro lingua natale, il finlandese, finché nel 2010 non pubblicano il loro primo album inglese presso la casa discografica Nuclear Blast.

“A Way Away” è il titolo dell’album, e grazie alla casa discografica e al team che le ha seguite durante tutto il processo di registrazione, hanno intrapreso una forte campagna pubblicitaria in tutta Europa, concentrandosi principalmente in Germania. Così è nato un merchandise sulle Indica con ogni tipo di oggetto si desideri, ben cinque o sei edizioni diverse del loro album, più interviste e eventi particolari che hanno tenuto le giovani impegnate negli scorsi mesi per promuovere il loro progetto, costringendole a volte a prendere più di un aereo al giorno e a dividersi per presentarsi ad ogni appuntamento.

Domenica scorsa ho effettuato un ordine da EMP Online (il sito da cui spesso acquisto abiti punk e cd :P), includendo la versione digipak di “A Way Away”, che comprendeva il cd con una bonus track, un dvd e un bracciale delle Indica.

Giovedì, velocissimo, il corriere mi ha recapitato l’ordine.

Partendo dall’aspetto esteriore, sono rimasta stupita dall’attenzione che si è prestata a ogni particolare, e questo mi ha consolato sul fatto che ero vicina ad acquistare l’edizione nel classico jewel case dell’album, poiché i digipak mi hanno sempre lasciato un po’ diffidente. Bene, se ogni digipak fosse organizzato come questo album, la mia diffidenza verrebbe dissipata all’istante: un ambiente dai colori spenti autunnali fa da sfondo alle pagine da favola, ognuna che porta il primo piano delle cinque ragazze della band, più il volantino interno rappresentante un mini-catalogo del merchandise ufficiale, le sezioni del cd, del dvd e del booklet che paiono copertine di libri antichi.

Il booklet riprende i toni della custodia, dedicando una pagina ad ogni canzone e  contenendo diverse foto suggestive delle Indica immerse in un paesaggio sognante e malinconico. Stessa cosa per il dvd, più lungo di quanto mi aspettassi e ricco di contenuti speciali. Molto apprezzati i video, di una qualità superba, e che guardavo con ammirazione e timido stupore. Le Indica in versione live sono egualmente brave, specie nell’acoustic dove l’abilità di violinista di Jonsu si lascia ascoltare con piacere e devozione. I retroscena sono curati, e lasciano trasparire il vero carattere delle ragazze, seguendole nel loro pazzesco tour promozionale e durante le sessioni di registrazione. Peccato per un filmato in cui ci sono i pareri di adolescenti berlinesi e che, parlando tedesco, non sono riuscita ad afferrare appieno. Per il resto non ho avuto problemi con l’inglese delle Indica, fluente e facilmente comprensibile, a differenza della chiusa pronuncia di Ville Valo che tutt’ora mi nasconde parole segrete su certe sue interviste ^^

Ora arriviamo al cd. Il pezzo forte.

L’altro giorno Vincenzo mi ha chiesto perché la musica preferita dagli scrittori fantasy è sempre di questo genere… Io, ancora persa fra le note, gli ho risposto che è perché essa procede sulla stessa linea dell’immaginario, è come il sottofondo marciato di ogni situazione e ambiente fantastico. È una melodia che entra a piedi nudi fra i sentieri di petali di rose degli scrittori, cammina lasciando flebili orme e incantando con la sua dolce e magica bellezza.

Jonsu ancora passeggia nella mia testa, i capelli rossi mossi da una brezza leggera, l’archetto che si muove ora veloce ora lento sul suo violino, l’abito elfico che fruscia e profuma di bacche di bosco. E dietro vedo Sirkku ad un romantico pianoforte, Laura che sorride e muove la mano per far strepitare una maracas, Heini e Jenny che strimpellano una chitarra e un basso acustico.

Le melodie sono accattivanti, dai ritmi concisi e variabili lungo tutto il cd, così passiamo da una dolce ballata a un canto liberatorio di dee irate, una canzonetta pop per ricordare il passato, una strumentale che rammenta tanto i miei amati compositori New Age. L’ambiente è sempre innevato, ma mai completamente ghiacciato: sotto la sottile patina gelida si nasconde un flusso di emozioni vibranti e cangianti nel loro essere. Ognuna di essa vive in un’alba immutabile, un giardino dell’eden che sa di misterioso e pittoresco, senza mai scadere in un macabro sfondo insanguinato. I testi sono poesie, storie da raccontare sottovoce, vite vissute e rimembrate, libri letti e trasformati in musica, ogni parola odora di sogni opalescenti.

Ci ho messo parecchio tempo a rintracciare tutte le rispettive versioni originali in finlandese, ma alla fine ce l’ho fatta. Alcune hanno un arrangiamento totalmente diverso, che ad eccezione della melodia base o della cadenza della voce, non conservano nulla in comune. Questo è anche uno dei motivi che mi hanno fatto sentire l’album come qualcosa di vicino, ma non di già sentito o ripetitivo. Forse è anche meglio, perché conoscendo i motivetti degli album precedenti sapevo in cosa sarei andata incontro.

Di differenze ce ne sono molte, soprattutto perché le versioni finlandesi si attengono molto di più a un genere movimentato e ballabile che per certi versi mi ricordava i Tehosekoitin, mentre in questo caso i toni si fanno malinconici e quasi seri, sfumando in un genere europeo che invece richiama i Nighwish dei brani più pop.

Avrei da spendere almeno una parola per ogni canzone… me lo permettete? In fondo parte della recensione serve proprio ad invogliarvi ad acquistare l’album, o perlomeno ad avvicinarvi al magico mondo delle Indica.

01 – Islands of Light (Vuorien Taa)

Un inizio potente, orchestrale, che ricorda gli splendidi brani dei Within Temptation. La voce di Jonsu è dolce e graffiante allo stesso tempo. Musica stupenda, con il violino iniziale che nel video si gioca tutta l’atmosfera, con la ragazza che suona a scatti, come impossessata, presa, e il punto (secondo 00:09 nel video) in cui il suo vestito compie quell’onda perfetta… affascinante. I cori di sottofondo sembrano un urlo liberatorio, qualcosa di mistico e agognante, forse sono le fate che abitano queste isole di luce, a chiamarmi verso loro? Un verso del bridge favoleggia un’immagine surreale, ma che ogni volta si ripresenta sotto i nostri occhi nelle serate passate in qualche bar delle città di costiera: una luna, che già si scopre di essere piena e grande, vigorosa, cavalca la marea; il suo riflesso nuota fra i flutti, si sfibra e ammalia come succo d’ametista. Nella cornice gelida del testo si nasconde un rifugio caldo, che un po’ scioglie il ghiaccio che lo attornia, sono gli occhi dell’amato che ci fanno da seducente guida che inebria i sensi.

02 – Precious Dark (Pidä Kädestä)

Forse la canzone da cui sono rimasta più delusa. Sarà che sono sempre stata particolarmente legata a “Pidä Kädestä”, prima canzone che ascoltai delle Indica, ma il nuovo arrangiamento degli strumenti non mi piace. O, meglio, preferivo quello il precedente, poiché anche questo brano come tutti gli altri si ascolta gradevolmente. Il testo, stavolta opera di Tuomas Holopainen (Nightwish), si differenzia in tutto e per tutto dalla versione originale, più legata alla fiducia e agli amori e affetti in genere (“Pidä Kädestä” significherebbe “tieni la mia mano”). In questo posso dire che forse Tuomas ha fatto un buon lavoro, poiché il nuovo testo è più intriso di contenuti, con immagini suadenti che ripercorrono lo stesso filo delle altre canzoni. Perfetta la citazione ad Hansel e Gretel, poiché, dopo paragrafi ambigui che ti preparano al resto, ci troviamo in una casa di pan di zenzero su un’isola di piaceri. È questa l’oscurità preziosa, completamente contrastante col video immacolato di neve di “Pidä Kädestä”, da cui possiamo afferrare giocattoli e brandelli d’infanzia, una sorta di giardino segreto su cui ci si affaccia per conoscere un amore puro o una candida danza nel buio.

03 – Children of Frost (Hiljainen Maa)

L’inizio sembra un ululare di lupi, e già dalle prime note vieni trasportato in un mondo freddo, gelato, è uno spazio onirico in cui non ti viene da dire inverno, ma semplicemente da tacere e accucciarti fra i brividi che lenti ti scuotono. Jonsu a tratti sussurra, e intinge il brano di una cadenza ossessiva e inquietante, specie quando viene accompagnata dal graffiante suono della chitarra elettrica, e i bambini… i bambini di ghiaccio, anch’essi con voce straziante ma che restano in un lugubre sottofondo, per poi comparire ancora nell’andante finale. L’immagine complessiva è gelida, febbrile, pare un teatro tragico in delle lande desolate della Lapponia, e che passo passo ti sta guidando verso la sua possibile fine. E la conclusione della canzone è proprio un pianoforte che sfuma lentamente, dissipando la tensione e lasciando al contempo un senso greve di inconcluso. L’intero brano si lascia accompagnare, facendosi sentire a volte più forte, altre volte debole, per culminare negli ultimi secondi con un assolo oscillante, da un suono che richiama apertamente il vento e le sue raffiche devastanti che ogni giorno spazzano le steppe del nord. Nel primo pezzo ci troviamo con una metafora fascinosa e terribile allo stesso tempo: un lago nero, che è un occhio che sbatte lentamente le palpebre; nel paesaggio innevato, gli alberi sono le sue ciglia di ghiaccio.

Un aspetto che adoro in questi testi è che spesso non trovi un ritornello uguale all’altro. Le parole si susseguono, simili, ma il significato varia. In “Children of Frost” seguiamo l’alba spuntare, e i nostri bambini marciare, troviamo una vecchia altalena scossa solo da una brezza talvolta violenta che però poi viene occupata dall’ombra di un fanciullo. Il primo verso del ritornello attrae per la sua particolare intonazione cromatica: il mare che vediamo era un deserto di nevicate… un blu cupo che s’aggrappa a un bagliore dorato, e poi il bianco della redenzione. Che, in questa canzone, non pare poi così puro.

04 – Lilja’s Lament (Rannalla)

Dolce e indimenticabile ballata, quasi con richiami medievali. La sola melodia tratta delusioni amorose e situazioni drammatiche, che fanno formare un paesaggio silenzioso in cui si può piangere indisturbati. Un tono misterioso si nasconde nel piano e nei suoni che lasciano immaginare delle solitarie civette nei loro fugaci voli. Qui la voce di Jonsu si muove solitaria sulla sua barca altalenante, con alcune eco bellissime, mai inserite a sproposito. Ancora troviamo la particolarità dei ritornelli cambiati: ed è prestando attenzione a questi, che superficialmente sembrano conservare lo stesso ritmo, che si scorge la fine dolosa della storia che stavolta si è deciso di narrare. Poiché l’intero brano è storia ad ogni verso. Libri e libri vengono citati, e con essi seguiamo Lilja nel suo percorso di segreta insoddisfazione. La sua è una delusione dal mondo, un vivere fra pagine del suo speciale universo, con le gocciole tintinnanti che sono la risonanza dei suoi sogni infranti. Ho il tristo pensiero di riportarvi la mia intera analisi (se così si può dire) del testo, che mi ha chiesto un caro amico, anche se così ho quasi l’impressione di svelare un finale tragico che va esplorato con l’ascolto della canzone. Facciamo così, ve la riporto, traduzione più commento, ma voi sentitevi liberi di saltarla e passare ai brani successivi.

 

Il Lamento di Lilja

Passeggiando sotto le luci del porto, Lilja legge una riga: "Povera Tatiana"

Fa riferimento al libro "Tatiana & Alexander" di Paullina Simons, seguito de "Il Cavaliere D'Inverno", favola bellissima di cui, leggendone la trama, ho avuto il desiderio di conoscere di più e acquistare il libro. In sintesi racconta le vicende di un amore romantico, e il seguito di una donna che, rimasta senza marito, cresce da sola il suo bambino.

In un'altra biblioteca, Rochester arriva. "Oh, Lord, lui è mezzo cieco”

Il Conte di Rochester è un personaggio dei tre moschettieri, che, assoldato come scudiero e fidato del cardinale Richelieu, perseguita d'Artagnan per poi diventare suo compagno e amico. Ha una benda sull'occhio destro, vecchia ferita di battaglia, che caratterizza il suo aspetto misterioso e severo.

Lancillotto e Ginevra venivano da qualche posto vicino al molo. Niente amore quest'anno.

Perché, penso conosciate tutti la storia, loro amanti appassionati e Artù solo, ormai tradito.

Marian chiamò Robin Hood per salvarla dal mare, ma le parole sono economiche.

Economiche nel senso povere, poche, forse per racchiudere una storia d'amore tale in un unico verso.

Le storie sono state filate, un mare di metafore sono state fatte,

E Lilja le ha ascoltate, ma lo stupore è una tempesta.

Tutti i libri che lei ha letto, presa nel suo letto, e che hanno ferito la sua mente...

Il suo tragico difetto non era un errore.

Lilja si lascia troppo prendere da queste trame d'amore, e m'immagino una donna sola e triste, che, persa fra i versi delle sue storie tessute con cura, quasi dimentica di vivere una vita per sé, ammirando i lieti fini da lontano per evitare una cattiva (ma reale) conclusione. Forse è questo, per me, il suo tragico difetto. E lo stupore, la meraviglia, che prova di fronte all'amore narrato sono una tempesta di desideri in cui affoga, stesa al chiarore della sua camera, letto che rappresenta un ambiente chiuso, soffocante, e terribilmente malinconico.

Percival si ubriacò e gettò la sua tazza nella neve. Dove è finito il Graal?

Parsifal, cavaliere templare del ciclo arturiano, all'estenuante ricerca del Sacro Graal: metafora che probabilmente porta al perseguire mete nel tempo agognate, e cedere quando esse ti si riducono in cenere davanti ai tuoi occhi. 

Catherine trovò il suo Heathcliff, ma le sorelle Bronte morirono sole. L'aria si fa così fredda.

Tristissimo verso: "Cime Tempestose", di Emily Brontë, in cui, dopo tanti spiacevoli avvenimenti, i due protagonisti si ritrovano: Catherine e Heathcliff staranno insieme nella morte, ma le famose scrittrici, le sorelle Brontë, morirono sole, senza nessuno che le avesse amate o che le potesse accompagnare nel loro ultimo viaggio. L'aria è fredda perché la neve è un elemento fondamentale in Cime Tempestose, ambientato nelle brughiere nel North Yorkshire, che si ripercuote lungo tutto il libro e lo circonfonde di un'aura magica e desolante.

Il vento resuscita i danzatori (o meglio cantori) delle ballate condannati alle loro parole.

Immagine intensa, dai connotati propriamente nordici: mi ricorda una congrega di streghe che danzano attorno a un fuoco, poiché le parole di un incantesimo condannano chi le riceve.

La nebbia significa un ritorno per i bardi e i trovatori, le frasi sono mondi. Noi desideriamo ardentemente, ma non impariamo.

I bardi e i trovatori erano cantastorie e musicisti dell'epoca medievale, spesso si dedicavano a storie d'amore intrise di magia e leggende, sempre con una morale. Erano personaggi di cui non si sapeva nulla, poiché viaggiavano continuamente in lungo e in largo: fra i regni si poteva spargere la loro fama, ma la vita di ognuno di loro era come avvolta da una nebbia di ignoranza.

Barcollando, vacillando (teeter-totter in inglese, quindi, seguendo il gioco di parole, altalenando) per il porto, Lilja alzò lo sguardo e vide una stella di mare.

Sarà forse che tutti questi sogni hanno indebolito Lilja, rendendola schiava e vittima della realtà, troppo cara per poter reggere la tempesta di avvenimenti che cerca di avvinghiarla nel suo timido mondo? La stella di mare è un dolce ricordo...

Ophelia, Smith, Elliot; Plath, Sylvia tenevano la sua mano.

Flusso incontrollato di personaggi che accompagnano la nostra lettrice: Ophelia di Amleto, delusa, folle, vittima degli eventi, muore affogata cercando l'omicidio per vendetta; Smith... ci sono tanti Smith, ma il più probabile è il personaggio di Persuasione, libro di Jane Austen, donna malata e caduta in miseria, persona di contorno che è quasi un narratore; Elliot, cognome della protagonista del libro da sopra citato, oppure del ben più noto Billy Elliot, il ballerino incompreso che fa di tutto per sfuggire al desiderio del padre, che lo vuole pugile, e realizzare il suo sogno. Sylvia Plath, poetessa e scrittrice statunitense, spesso vittima di depressione e morta suicida.

Le storie sono state filate, un mare di metafore sono state fatte, ma Lilja visse la sua errata tempesta.

Tutti i libri che lei ha letto l'hanno portata a riposare su un fondale marino, il suo tragico difetto ancora mi sorprende.

Lilja ha perseverato nel suo errore, fuggendo ancora la realtà per rifugiarsi nel suo mondo. Si toglie la vita, su quello stesso porto, spinta dalle sue storie e dalla sua tragica esistenza.

05 – In Passing (Valoissa)

Avete presente quella canzoncina che parte dal lettore musicale qua affianco ogni volta che aprite il mio blog? Bene, quella è “In Passing”. Brano molto orecchiabile e dal video sognante, narra di un rapporto stretto, di nostalgia, di perdite che però col tempo saranno destinate ad attenuarsi nel loro dolore, per poi diventare un sordo battere in fondo al cuore che s’accompagnerà finché anche tu non sarai passata per queste terre. Forse una delle canzoni più pop del disco, ha un inizio ossessionante, che prende al primo ascolto e che appunto per questa peculiarità l’ha fatta diventare trampolino di lancio dell’album, nelle veci singolo estratto. La palazzo antico del video riprende benissimo i toni del pezzo, che rimandano sempre a un sentore d’arcaico. L’incanto della notte, l’occhiata sfuggente al diario della sorella, i ricordi. Quando l’ascolto mi pare di sentire l’odore del legno di vecchi mobili che pervade l’aria, quell’odore buono che sa di casa, così come i tappeti un po’ impolverati, la cenere che ancora scoppietta leggermente nel camino, le candele profumate e mezze consumate che si reggono sui lampadari d’argento. Se già si prende la versione precedente (sempre in inglese, contenuto speciale del dvd), questa strana atmosfera scompare per far più tangibile un effluvio di aria aperta, portando in primo piano una spensieratezza che successivamente si è fatta scomparire. E forse il motivo nascosto sarà quella scritta, nel fondo della pagina del booklet, che così recita: Smiles you remember · Riikka H · 1974-2004 · & Heidi

06 – Scissor Paper Rock (Ikuinen Virta)

Arriviamo alla sesta della tracklist. La mia preferita, quella che conserva ancora tutta la sua grinta finlandese. La sua… ehm… sisu (coraggio, energia, perseveranza, determinazione, non so tradurvelo altrimenti perché è una caratteristica finlandese che traduzione in altre lingue non ne ha). La melodia incanta, mi viene voglia di cantarla ogni volta che attacca. Saranno le mie origini radicate nel metal e nel punk, ma quando sento un ritmo andante come questo parto a seguirlo con mani, piedi, testa, e tutto ciò che ho a disposizione a quel momento. È accattivante, tremendamente. E guarda caso è la più simile alla sua rispettiva in lingua originale, sia per arrangiamento che per testo.

Per ogni canzone recensita, mentre scrivevo, l’ascoltavo di sottofondo con la sua rispettiva compagna finlandese, e intanto le mani volavano a commentare, lasciando libero lo spirito. Con questa non ce la faccio, perché il mio istinto è riattaccarla daccapo e canticchiarla, ballarla, andare passo passo con lei, perché talmente mi coinvolge che stento a riuscire a impegnarmi in altro. Ok, stacco le casse e provo a scrivere qualcosa di sensato.

Il testo stavolta non narra storie particolari, ma è più introspettivo, dedicato al mondo di un’infanzia che dolcemente scivola via. Penso che tutti abbiate giocato almeno una volta a “sasso, carta, forbici”. In questo giochino è radicato un senso di ineluttabilità devastante: è il ricordo della fanciullezza, ma più volte, da sola e ancora bambina, mi sono soffermata a chiedermi come sappia di morte quella forbice schiacciata dal sasso, forbice che essa stessa momenti prima ha divorato e spezzettato la carta, carta che supera l’aura immutabile della roccia avviluppandola in una coltre d’impotenza. In “Scissor Paper Rock” troviamo questi tre elementi che degradano, le pietre che si trasformano in polvere ricongiungendosi alla sabbia, le forbici che arrugginiscono col passare degli anni, la carta che deperisce col suo inchiostro che diventa via via sempre più chiaro. Quando il gioco tace, il corpo cresce e l’anima con esso, padroni di un paesaggio sognante. Non preoccuparti, non correre, dice Jonsu: cresci nel modo che ti è più congeniale, sai che dovrai passarne molte, ma alla fine ci sarà sempre una nuova alba ad asciugare le tue lacrime amare.

07 – A Way Away (Nukkuu Kedolla)

È la più triste dell’album, fredda, sembra quasi una canzone da funerale. Stilla dolore e disperazione da ogni verso, e il pianoforte che l’accompagna rende l’aria tetra e cupa. Eppure sembra scorgere un barlume di luce dorata nel porto grigio in cui ci troviamo catapultati. Una valigia in pelle marrone al fianco, è il sottofondo che si addurrebbe facilmente alla partenza di una nave vittoriana per il nuovo mondo, perché in fondo la melodia non manca di una speranza recondita, trascinandoci verso la narrazione di un viaggio. Il canto che si trova nel finale è come il rollio della barca, altalenante, caustico a tratti. Il ritmo si riprende con il passare dei minuti, assieme al testo fornisce sempre più elementi per risorgere dal suo inizio compianto e costernato. Interessante la citazione religiosa all’episodio di Giona e la balena, che arriva inaspettata in un album fatato, che di legami con la realtà conserva ben poco. La critica dei versi sembra riferirsi a quel periodo della vita in cui tutto pare errato, e a tutte quelle volte in cui il mondo pare abbandonarti a te stesso, non prima di averti fuorviato dai tuoi scopi e fatto perdere ormai ogni punto d’appiglio. Il finale fa venire in mente l’immagine di una fenice di ghiaccio che risorge dalle sue stesse ceneri. Di ghiaccio perché, ascoltando l’album, non si hanno mai idee che contemplino colori caldi e forti, di cui l’unico esponente restano i capelli rossi di Jonsu e nulla più. Ogni aspettativa è persa, ma non per questo la volontà propria non permette di rinascere e farsi forti nelle avversità: un brano carino che con sé non porta nulla di sconvolgente, se non la melodia triste che funge da preludio a un seguito speciale. Qui c’è il viaggio… successivamente troviamo il luogo.

08 – As If (Elä)

Apertura dai toni orientali, oserei dire in pieno stile “Prince Of Persia”. Anche perché qui si va incontro alla fatalità del tempo, e a una muta ribellione che pare scatenarsi solo all’interno di un corpo, senza trovare sfocio puro nella realtà. Ma è anche senso di giovinezza ed essere spensierati… graziosi, per certi versi, così da doversi nascondere dietro a un sorriso vuoto di significato che è nostra maschera d’accoglienza per gente ignara. Il ritmo prende, e anche qui ci troviamo con una canzone che incita a essere cantata con lei, facilitata anche dalla ripetizione a stretto distacco degli spezzoni iniziali, che poi d’altro lato contribuiscono a rafforzare parte del testo. La voce di Jonsu qui è molto, forse esageratamente espressiva: interpreta ogni parola, fino a dare l’impressione che stesse recitando un musical. Bene, questo brano spezza con tutti gli altri, si condisce del rosso carminio ma spento di un tramonto sul deserto, del magenta di un vestito da danzatrice del ventre, e se ci si presta attenzione sembra sentire il tintinnare dei pendenti che si sbattono fra loro ad ogni tenue scossone. Sono suoni arabi che si mischiano alla cultura scandinava, e il risultato è un ambiente onirico e seducente, che prepara al crescendo del brano successivo.

09 – Straight And Arrow (Pahinta Tänään)

Ritmo incalzante e delirante, fin troppo, e quasi sempre seguito da chitarra e voce che non trovano pace, e si alternano e si susseguono velocemente, come se avessero fretta di annunciare la loro ribellione rivoluzionaria. L’oppressione della situazione rivelata si lascia sentire, traspare fin troppo da questo rincorrersi delle parole, una dopo l’altra, quasi con l’intento di far scoppiare i polmoni per mancanza di fiato. Poi nel video si trova una Jonsu ancor più infervorata, e tutte le Indica che dimostrano la loro estraneità alle grandi metropoli, il restar stupiti davanti ad ogni effetto della tecnologia che a volte rasenta il magico. Il loro è un passeggiare per la città con intenzione di scoprire, o comunque comprovare l’ambiguo tono grottesco che si nasconde nelle vie di periferia, dove ogni cosa può sostare in agguato, nascosta da un bidone della spazzatura o dall’ombra di un’insegna pubblicitaria. Attraverso metafore e immagini suggestive si ritrovano spicchi dei problemi tempo prima ripresi da Dickens, con lo stesso distacco fiabesco e strambo, con sfumature che nascondono l’ingenuità fanciullesca e la dichiarazione della propria disubbidienza alle regole del mondo. Le insidie della società vengono viste come serpenti che si annidano negli angoli, e il cupo timore di ogni azione controversa è come un uomo impiccato all’ingiù: terrificante nel suo infrangersi di opportunità, ma che imbracciando una freccia, nella morte, cerca ancora di indicare ai più fortunati quale potrebbe essere la giusta strada. Poiché il timore di una decisione errata, sia anche minima, attanaglia sempre l’animo debole che s’intristisce al pensiero delle possibili conseguenze sui suoi compagni. Non c’è tempo di preoccuparsi o pensare al passato, è quasi una fuga che si ripercuote lungo l’intera melodia, e che dirige verso l’abolizione di tutte le catene che provano a fermare l’anticonformismo e lo spirito libero dei giovani. Un brano difficile nel significato, e che forse contempla ad ogni ascolto e lettura del testo nuove e nuove allusioni. Fin qui però le nostre ragazze sanno che vogliono comunicarci: nel loro universo fiabesco, sono le imposizioni della società che stavolta diventano il mostro delle favole… ma c’è possibilità di scelta. Alla fine, una scelta, una salvezza, c’è sempre.

10 – Eerie Eden (Vettä Vasten)

Ai primi ascolti l’ho paragonata ad “Exogenesis I” dei Muse. Non consideratela un’eresia, ma la forma in cui è composta la canzone è all’incirca quella: voce dolce, di secondo piano, e base strumentale curatissima che si conclude con un’orchestrale magnifica, nei primi tempi alternata a strumenti moderni che però non fanno contrasto, anzi, si omologano perfettamente con l’aura paradisiaca che si cerca di creare. Non a caso, in un’intervista, hanno notato che la musica delle Indica andrebbe bene come colonna sonora di film fantasy, di preciso quelli diretti da Tim Burton. E infatti l’atmosfera è proprio quella: fantasia pura, mai banale, ricca di piccoli particolari come il coglier di un fiore o il passare di una farfalla. Sarebbe una collaborazione unica, e intimamente vi spero con tutto il cuore.

Il testo della canzone non racchiude in sé nulla che non sappia di già sentito. L’obiettivo da raggiungere con questo brano è quello di far rilassare l’ascoltatore, accompagnarlo nell’Eden che si è formato pezzo dopo pezzo durante il percorso. L’obiettivo sta in una conclusione non semplice, ma di quelle che finiscono per lasciarti con la bocca semiaperta, gli ultimi strascichi d’immaginazione ancora persi nelle vie dei giardini di Versailles. È un distaccarsi lento e non doloroso, un tornare alla realtà come trasportati su una nuvola, e scendere questa scala in punta di piedi sarà piacevole, sotto il soffice tocco delle nubi candide. “Resta”, ci dicono, resta con noi. Una mela, nel booklet, fa da cornice al testo: è l’implicito invito, tentazione, a riavviare il cd per riascoltarlo daccapo.

11 – Outside In (Bonus Track) (Ulkona)

Lo sprint finale viene dato dal bonus track. Quando comprai il cd non ero a conoscenza della presenza di quest’ulteriore brano, che è uno scossone dopo l’esser stati cullati da “Eerie Eden”, è uno strappo violento dal sonno incantato in cui si è soavemente caduti. Ogni tanto si sentono dei respiri quasi affannati, in sottofondo, i soffi di vento di un elfo che fugge nel bosco. Jonsu ci invita a non arrenderci davanti alle difficoltà, anche se questo messaggio pare provenire da qualcuno più in su di noi, che nei nostri stessi ostacoli sembra non essersi mai imbattuto. Canzone mediocre, sommariamente, un motivetto bello da canticchiare e con un inizio accattivante. Ecco, essendo sincera, mi pare di sentire un richiamo a “Running Out of Time” dei Simple Plan: stesso brano ricco di ribellione contro i poteri politici, con melodia bella, testo interessante a una prima lettura, ma nulla di più. Entrambi sono bonus track, conclusione di stupendi album ed è gradevole, diciamo, aver avuto la fortuna di accaparrarsi un altro brano allo stesso prezzo del cd normale. È la più rock del disco, e ritroviamo la voce sottile e graffiante come il miagolio di un gatto della Jonsu finlandese, quella ancora un po’ acerba, ma lo stesso emozionante e compiacente.

Amo le Indica. Nonostante la loro canzone che mi porterò sempre nel cuore sia “Ihmisen Lento”, con questo album la mia ammirazione per il loro lavoro non ha fatto che aumentare ancor di più. Ed è per questo che per un bel po’ di tempo dovrete sopportarvi il lettore musicale e i due banner pubblicitari che ho inserito nel blog. E se vi va lento il pc… non me ne frega niente, compratevene uno nuovo o non passate più di qua :P

 

Per approfondire:

- Il sito ufficiale delle Indica

- Il MySpace delle Indica

- La pagina di Facebook sulle Indica

- L’account Twitter delle Indica

- Il canale YouTube delle Indica

- I testi in inglese di tutte le canzoni esclusa la bonus track



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