mercoledì 23 febbraio 2011

PostHeaderIcon Briciole di Felicità

Anche questo racconto ha partecipato a un Contest particolare. Devo dire che scrivere con idee precise – dettate da altri per certi versi – è più gratificante, e inoltre ti permette di avere giudizi, cosa che postando qui sul blog non è sempre accertata.

Song-fic anche questa. Sì, mi prendono, sì, ho detto più volte di amarle. Avrete ormai capito che da parecchio tempo a questa parte non faccio che scrivere racconti di questo tipo.

Le canzoni da cui ho preso spunto (e che trovate come al solito a fine post) sono:

- "Yksinäisen Keijun Tarina" di Chisu

- Śniadanie do łóżka" di Andrzej Piaseczny

Con questo racconto mi sono classificata Seconda (avete visto? Miglioro ^^), assieme al Premio come Miglior Storia.

E sono ancor più felice di dire che invece il Premio Stile è toccato a Vinci, che si è inoltre classificato primo :)

Buona lettura!

La mia fata si è ammalata.

Ogni mattina strofina le ali con della polvere magica, per poter volare. Perché da sola non ce la fa più. È tutta contenuta in una borsetta di tela che porta legata in vita, la sua polvere, da custodire gelosamente, da usare con parsimonia. Un mucchietto al giorno, per sopravvivere.

Arriva sera ed è stanca, e le sue ali di trasparenti petali di giglio giacciono abbandonate sulle spalle: una sacca di dolore che si trascina dietro. Le occhiaie distruggono la bellezza dei suoi occhi d’ametista, che nemmeno un raggio del sole al tramonto riesce ad accendere di nuova luce.

La mia fata si è ammalata: non vuole più sognare. E io, che la amo più della mia vita, le donerei ogni mio sogno pur di far tornare le sue ali a splendere.

Spesso me l’ha detto, me l’ha sussurrato nell’orecchio, al suo caro fauno impertinente: «Perché suoni sempre di feste e cose belle? I tuoi occhi sono ciechi, forse, che non vedi quante creature muoiono qua intorno?»

Suono perché non so ballare con la Morte, e allora chiamo le altre sue signore, le dame che spesso s’inchinano al suo cospetto, affinché facciano compagnia ai miei saltelli allegri. Credo che le mie canzoni spargano speranza, e loro danzano, danzano intorno, il cerchio magico di Faerie, e la speranza la creano davvero: sono le risa dei bambini che, dal mondo reale, si affacciano sul nostro universo.

Ma ora non suono più neanche io, e Gioia si è offesa con me, e Gaia non mi vuol parlare. Misericordia tace e il suo sguardo mi perfora le spalle, Lussuria si consola con un troll che vive oltre le montagne. Ho perso tutte le mie muse.

Poco male, ho la mia fata da salvare. Devo portarla via dai suoi ricordi, prima che qualcos’altro l’allontani da me.

Però me ne sono accorto troppo tardi. Lei piangeva sola, nascosta fra i petali del suo crisantemo, e io intanto le chiedevo baci, le chiedevo la sua bellezza, e non mi accorgevo che stava morendo dentro. Che sciocco, povero sciocco fauno!

Ma come può un fauno credere che una donna alata possa stare così giù? Ha un cielo immenso su cui perdersi, una piuma smarrita nel vento. Una piuma che ora sta cadendo. La raccoglierò prima che rischi di toccare il suolo, fosse anche l’ultima cosa che faccio. Spero solo che non sia davvero troppo tardi…

Ma, in fondo, chi avrebbe mai creduto che le fate tristi esistono?

Si respira aria autunnale. Attorno al palazzo diroccato, un castello ucciso dal soffio infuocato di un drago, qualche erbaccia lascia spazio a primule gialline che sono le fiammelle sparse dal suo fiato rovente. Le aiuole sono chiazze verdi su cui è stato spruzzato un po’ di colore, senza riflettere, senza idea di cosa s’andava creando. La natura ha modellato un quadro grottesco, dimentica dell’ordine. Un fungo! Che ci fa un fungo sotto quel cespuglio?

La finestra della camera da letto è accostata, solo la zanzariera chiusa, ma è di quelle che si possono aprire dall’esterno. Solo una sottile tenda attutisce i rumori delle auto che, dalla strada, già cominciano a vorticare per le vie della città in un marasma confuso, ma basta a plasmare quella barriera indelebile fra incanto e realtà. Il ragazzo benedice che lei abiti al piano terra. Entra come un angelo, di soppiatto, accompagnando con una mano la reticella che si alza. Tutto senza svegliarla: è importante lasciarla ancora un po’ nell’inquietudine del sonno, nella convinzione della solitudine. Un salto e scavalca il ripiano, i suoi piedi toccano il pavimento di ceramica con la leggerezza del passo di un fauno. Un ticchettio per gli zoccoli che si poggiano, ma niente più.

Lei, fra le coperte, è bellissima come la visione dello sbocciar di un fiore, che allunga piano i suoi petali, saggia l’aria – no, fra troppo freddo, aspettiamo racchiusi altri pochi minuti! – mezza aperta al mondo e mezza accoccolata fra l’abbraccio delle coperte. I capelli castani si sparpagliano in boccoli sui cuscini bianchi, onde spumose di un mare al crepuscolo. Le lenzuola si avvolgono sul suo corpo come foglie a rivestire una fata, e quasi si possono scorgere le ali, un brevissimo brillare che spunta dalle spalle nude e vibra nel vuoto. Oh, no, non sono in alto, le ali, non sono spiegate: sono schiacciate alla schiena, spiegazzate, sgualcite. Pesanti e bagnate.

La cucina è in fondo al corridoio. Si può abbandonare una donna così bella, al suo sonno così magico? Sì, il ragazzo può, deve, ha una cosa da fare. Urgente. Perciò si allontana, a passo quieto, voltandosi a cercare nel riflesso di uno specchio l’ultima immagine dei suoi occhi chiusi.

Arrivato in cucina, svuota sul tavolo il contenuto del suo zaino. Pane fresco, che profuma ancora del legno di betulla vicino a cui si è cotto, e che stranamente è tiepido come se un elfo l’avesse custodito in grembo appositamente per lui, avvolgendolo fra le spire del suo mantello. C’è anche un barattolino di miele, e s’immagina lei che vi immerge il dito – un’ape che si è poggiata sulla corolla del suo fiore. Poi un po’ di latte, qualche arancia ancora da spremere. Un libro di poesie. Prepara tutto su un vassoio, in fretta, per la sua piccola fata. Con amore.

Appena ha finito, torna nella camera da letto. Un anello con un piccolo diamante tintinna solo sull’acciaio del piatto, attende. Il ragazzo poggia il portavivande sul comodino, accanto a un flacone mezzo vuoto di pillole anti-depressive, e le si avvicina. Con un bacio sulle labbra di rosa, la sveglia teneramente dal suo torpore senza sogni.

«Una nuova vita, una nuova vita per colazione» le promette.

Lei si lascia sfuggire un sorriso, ma subito un triste pensiero lo sopprime.

Il fauno deve consolare la sua fata. Deve, o il vento la porterà via… e non le è rimasta molta polvere magica per resistervi. «Su, mangia qualcosa» la invita.

«Non ho fame» sussurra lei, e si stringe ancora di più nel suo involto di coperte. Sembra avere freddo, ma dalla finestra socchiusa qualche raggio di sole si arrotola alle tende pulite, s’infiltra timido a illuminare la stanza.

«Li vedi, quei raggi? Alla fine… alla fine riusciranno a riscaldarci. Devi permettere loro di accarezzarti, però.» Il ragazzo afferra un lembo della stoffa e tira lentamente. Questo cede, e scopre la pelle liscia di lei e la sua camicia da notte azzurrina.

La fata è insicura, protesta: «Non ce la faccio.»

«La stabilità nel volo… possiamo riottenerla insieme.» Lui prende l’anello, e cerca da sotto le coltri la mano sottile della donna, facendosi strada attraverso quel corpo trascurato e ancora stupendo. La fede s’infila all’anulare, si stringe in una morsa che è una preghiera, una richiesta disperata di fiducia. «Ci proverai?»

L’esitazione dura quanto la presa di un respiro. «Sì.»

L’ha detto. Un altro bacio del fauno, e una rassicurazione: «No, non ti preoccupare per le briciole di felicità, fatina. Le nasconderemo nelle fodere dei cuscini, assieme alle vecchie piume della tua vita passata.»

giovedì 17 febbraio 2011

PostHeaderIcon Riot!

Alcune sere fa, un po’ di delirio, qualche nota di noia nell’aria. Il desiderio di rivolta, soppressa alla foce dell’immaginazione, e qualche metafora esorcizzata dalla sua croce. Un incubo punk, uno scambio di battute quasi nonsense, quasi poesia.

Vincenzo poi le ha ritinte, allungate, modificate un po’, per creare qualcosa di omogeneo, qualcosa da poter proporre anche ad occhi estranei. In azzurro trovate i suoi pezzi, il resto è mio.

E così, quel che è nato in una sera di chat, diventa questo… diventa Riot.

Voglio completare l'adolescenza assieme a te, buttandoci da un ponticello di Venezia, mano nella mano, e gridando qualcosa di rock con la voce che si è corrosa l'animo appresso. E ora raspa come una caverna.

I canali veneziani sono inquinati.

Ma questo fa rock.

Vorresti rimanere impigliato fra le fondamenta d'alghe di una piccola Atlantide senza speranza?

Sì, oppure no. Però… qualcosa di simile.

Io andrei a Carnevale, vestita di nero, e romperei dieci maschere in piazza San Marco. Poi fuggirei e fra il tintinnare dei vetri soffiati di Murano salirei sulle ali di una gondola, in punta di piedi sulla parte più alta per sfiorare con il naso il fondo umido di pietre grigie di ogni singolo ponte. Una volta raggiunto il mare, solo allora mi butterei per sapere di sprofondare in un’immensità in cui non si può essere soli.

Ci sarò io con la maglietta blu scuro, maniche corte nel più gelido inverno, una faccina triste gialla stampata su e jeans troppo stinti, quasi bianchi, laceri e lerci come un fondale di fogna. Io che faccio le corna da dietro la schiena al gondoliere. E…! È forse, il forse, l’emblema, la sbronza di perdere per un attimo l'equilibrio, ma poi tutto si rovescia, è apposto… È per provare l'ebbrezza di cadere veramente, col cuore, con la mente, per sfregiare l'essenza incrostata di silenzio pesante. Come se ciò che cadesse fossi tu soltanto. E per sempre. Come calcinacci da un muro sradicato dall'anima. Fine.

«Mi dici fine?»

«Forse.»

«Cosa forse?»

«Alle stelle servirebbero dei preservativi per danzare più sicuri, come nastri per reggersi ancora in cielo e non impattare con tavolati dei sogni.»

«Ma tanto c’è… la carta di imballaggio che li protegge.»

Vi passerei la mano sopra, le palline, sfiorandole con la tristezza, sfiorandole con l’ago delle spille da balia rimaste incagliate al vortice di amori diversi, tracciati sulle mani dagli occhi orbi di una zingara. E se scoppiamo è perché abbiamo amato troppo. Amiamo lei, che persa, spremuta su una grattugia, è l’amicizia. Idolo di sangue. Scorze di mele, acido di limoni e sentiero di arancia marcia.

Io andrei a piedi sin da lei, strappando lavande al mio passaggio, infuocando il grano con la benzina

E la schiena rotta dalla pioggia, e la bocca impastata di capelli d’altre, altri

E il silenzio che preme sulla lingua come cenere.

Ho preso un tram e guardavo le stelle fuori per sputar loro in faccia neve e sangue, e le converse coi buchi affondavano la loro marcia sul cuore.

Dille che… il suo cuore è un palloncino adagiato su una lettiera d’aghi, e miele sopra ch’attira le ali, e lavande sterminate. E che per lei una cinta di silenzi e ghiaccio le crepa il volto in rughe di specchio. Passato e presente, valanghe di miseria e schiaffi; si può essere soli, assieme, insieme, un campo di concentramento per scabre crisalidi bastarde.

Dille che ho messo un orso dentro una voliera e falle vedere la tua mano intrisa di sangue, mentre percorri le mie guance con le ossa della barba.

Sei un maledetto, se le dico questo, vorrà sapere il resto, e se le dico che in vero è per te pensa che noi ci amiamo e…

Fanculo, dille…

…e questo è sbagliato. Dille, dille, dille cosa?

‘Fanculo.

Mentirei due volte.

Mi sento bene, così pieno di droga, così pieno di cinismo, di vita.

La vita... Io sento che la mia si sta diluendo come un colorante nell'acqua, e se seguo le tue parole si riempirà di veleno. Sei il mio veleno più dolce.

E tu fiele d’amaro sogno. Vomitata sul campo di un universo ingoiato a forza. E spari di dolore, polvere da sparo a crivellare fogli di storie novelle imbiancate.

Sono le ispirazioni, sono che voglio staccarmi dal mio essere, non voglio poesia, voglio più questo, più follia, più qualcosa che gratta e non smorta. Voglio me stesso, lo sfacciato me stesso.

Dì che hai ricevuto un delirio e hai dato un mazzo di lavande secche, perché io le ho detto di aver ricevuto quelle. Se proprio vuoi uccidermi, fallo con classe.

Posso davvero? Mi permetti l'onore, come mi concedi la mano e invece ti sfilo l'anello…

Sei crudele, non so cosa vado cercando permettendoti di fare certe cose. Anzi, forse lo so, e forse non mi sta più bene. Hai il mio cuore nelle tue mani, fanne quel che vuoi.

No. Non voglio dirle nulla, se non vuoi. Il problema è che sei troppo perversa per capire…

Per non volerlo.

…cosa ti farebbe piacere, e per non volerlo.

Dillo, in maniera bella, con classe. Dillo, a tratti.

Dillo come se ti cadessero le parole dalla bocca, dalle dita, tasti consumati caduti nel tè bianco.

Non credo che capirà tutto. Verrà a chiedermi spiegazioni, e io… io parlerò, se è questo che vuoi.

Per forza?

La forza è una stronza partorita da una bolla soffiata dal naso di un orco.

Mi sarei bruciato le punta delle dita per possederla.

Le costole a sassate e sfiorare stelle con le antenne per…

No. Parlerò perché è meglio non mentire, né avere segreti.

E se non l'invio, parlerai?

Se non l'invii, resterà tutto così, sospeso, e io non troverò il coraggio di abbattere questo muro.

E tu cosa vuoi? Una spinta…

Voglio che mi getti giù dal burrone. Dimmi quando posso cominciare a volare.

Ora. Ti aspetto giù, per prenderti in braccio.

Prima bugia svelata. Devo cadere ancora?

E allora cadiamo giù. Destinazione bollicine d’alcol, unico appiglio che vive sospeso su isolotti come capocchie di spilli infilati sul cranio di una rossa riversa in un lettino, il capo staccato dal collo.

Ho scarabocchiato un bacio di luna sulla tua caviglia, mentre dormivi accanto a me in una cabina telefonica, che strillava asilo per gli immigrati del cielo.

Prendimi! Ora, o muoio.

Presa. Oddio, le mani quasi cedono e i tasti si consumano appresso. Quindi?

Ho bisogno di te. Cos'ho fatto?

Nulla. Solo onestà, solo sfrontatezza. Solo andare al confine, con un fascista che ti punta la canna dentro la gola e scoprire che è bello. Tutto. L’avventura. Ridere di Morte e le sue comari, che come vecchiette indecenti, fanno schedine sulla gente.

E allora… perché? So perché, ma ora mi sento ancora più vuota, ho ingoiato coriandoli di fuoco.

Vuota è quando ti sei tolta tutto dentro, perché eri troppo pesante. E… oh dio, ho mozzicato le stecche del tuo stomaco.

Voglio aspirare la diossina che è salita, una ciminiera d’odio, dai bruciori infernali.

E allora, se mi sono tolta tutto, c’è ancora qualcosa che resta. Voglio affondare, perché solo così, secondo il giudizio di Dio, nella mia ordalia risulterò innocente.

Davvero?

Sì.

Ma è una cosa tanto brutta, quanto rubare una stella al cielo e scoprire che è reato, scritto a penna sull’ultima pagina di un libro di codice penale?

No, è bellissima, se resta solo mia.

Cosa?

Il peso che ho ancora dentro, quello che tace e che mi fa andare giù, una sirena dalla coda di piombo.

E allora fa sì che rimanga bellissima, e stavolta non sarai assolta… Ma solo per oggi, perché alla fine è solo un foglio che sta per essere bruciato. In fondo… in fondo, il colpevole sceglie la sua pena.

Ma non la sua colpa.

Vuoi essere assolta o giudicata? Che devi fare, lo sai che il dito più lungo di un giudice è sempre l’indice? E quello di un nazipunk è il medio…

Niente, devo restare così, sul fondale. Voglio che sia così, ancora per un po’.

Ed è bellissimo, perché adesso il linguaggio è un mucchio di bolle.

Ho visto un treno correre. Alle ruote sono impigliate le ortiche. Ai finestrini rotti, le mani staccate dai corpi di zombie svuotati dal sangue e residui di plasma dentro le vene, tra le mani, fra una cucitura che squarcia le braccia, dentro agli occhi.

Un mucchio di deliri concatenati a un bisogno troppo forte di vodka alla menta e di Russia. Di casinò che in verità è un po' casino.

E che sommariamente, uno scritto? Un delirio, un ciao e un abbraccio troppo forte da stampare addosso profumi che non staccheranno mai la presa dai colli.

E che sia.

Il più bel regalo, quello del per sempre.

Promettimi che lo farai. Non per scherzo. Non stavolta. Non è una presa in giro.

Non è amore.

È affetto. È dirsi, scrivimi per sempre prima che scappi sotto il viale.

Ho ricevuto quattro fogli di diario e un anima d'inchiostro allegata.

«Hanno ucciso il gatto della bambina dei viali. Infilzato sull’antenna del paradiso.»

Ma lei non è mai scappata.

lunedì 14 febbraio 2011

PostHeaderIcon Iris

Lettera 1

Lettera 2 Lettera 3

Per chi non comprendesse la mia scrittura arcaica, o semplicemente non gli andasse di leggere, qui di seguito il testo.

BESTHEARTEDIT

Qualcosa è cambiato – è ancora tutto uguale, tutto identico a prima, eppure sono particelle diverse nell’aria, segreti taciuti, a vorticare silenti. Le ho trascinate dietro di me, dentro di me.

Solitudine è parola più triste, d’artista intinta nel blu, porta sprazzi di viola e dolore. Si può essere soli insieme, e insieme non esserlo più.

Cercarsi, questo è ciò che più mi fa vacillare, non sono le memorie – quelle giacciono serene a fermentare assieme ai fiori – è l’assenza. La presenza.

Portare via un brandello di te non sarà mai come sfiorare la tua mano indecisa, le sue linee sgraziate, e bisticciare per nascondere il desiderio di avvicinarsi. Occhi negli occhi, lavande e mandorle. Oh! Lavande… e mandorle.

Ho visto un soffione passare veloce nell’aria, in quel giardino d’incanto.

Un pezzetto, un bagliore, ci sorprende volando, spezza il buio delle palpebre socchiuse, e scompare.

There’s magic everywhere.

Senti ancora il mio profumo così come io sento il tuo? Sai, ci vorrà del tempo finché anche questi strascichi di sogno abbandonino la realtà per rifugiarsi fra i ricordi.

Avrei voluto…

Avrei dovuto…

È così difficile rubare al fato la sua stella più bella.

Ogni silenzio, ogni istante, quel timore represso alla bocca di un cuore che muove in un singulto indiscreto, sbarre alla gabbia di filigrana d’oro dell’emozione, per non cadere nella rete della follia. Siamo precipitati lo stesso, forse. Forse la luna ci bacerà, stavolta, dal riflesso di un pozzo, e noi immigrati, prigionieri, con il canotto sgonfiato e dalle ali tarpate, ad arrampicarci e scivolare fra le brame dell’acqua. Gelida, fredda, bollente, cambia al rintoccare delle ore dell’animo.

Restiamo qui? Vicini, alle soglie della disperazione, in fondo all’antro di un sogno. Sogniamo! Afferriamo ogni bolla e ogni palloncino colorato, e spicchiamo il volo. Saremo solo immigrati del cielo, allora, solo questo e nient’altro, come sempre siamo stati, in una volta solo nostra illuminata da stelle e da angeli che ci invidiano amore.

No need to run, and hide

It’s a wonderful, wonderful life.

Una storia, tante storie, per scansare quella più importante, e passare il tempo, e fare i conti con le anime che ci attorniano e non ci concedono… non si concedono. Paura – vibrante rumor sordo di treni che passano e non si mostrano, ricoperti d’ortiche. Niente che dia spazio alle richieste di un attimo, uno solo, per sperare.

Sperare. Incantare. Spaurire.

Svanire. Svenire.

No need to hide…

I need a friend, oh, I need a friend…

To make me happy…

Ma! E ora? Quando? Se non ora, quando? Ave atque vale, tutto è.

Tutto è questo.

Ed è bello averti.

Così.

Mio.

Per sempre.

Fosse anche solo una stupida illusione, fosse anche solo un bacio di luna per gli immigrati del cielo.

mercoledì 9 febbraio 2011

PostHeaderIcon I Can Wait Forever, Interludio 2 - I

Si ritorna. Questa storia diventa sempre più accattivante… Ed eccovi quindi il terzo capitolo, dopo le lettere e l’interludio romantico, qualcosa comincia a smuoversi.

By_Myself_by_skyleaf

30/05/1823 – Interludio

In viaggio per Valensole.

 

«Mi hai trascinato per luoghi oscuri, in questo viaggio.» La carrozza borbotta fra sé, rincarando il passo sulla strada, troppo lenta, troppo ostacolata. Le due coppie di cavalli, all’esterno, grondano sudore addensando macchie scure sul loro manto, intingendo tutto attorno a loro di un lieve odore di fienile.

«Avevo bisogno di assaporare ambienti diversi. E poi non credi che quel breve soggiorno a Orléans sia stato magnifico?» Evangeline siede in fronte a Byron, le gambe sfacciatamente accavallate e la gonna amaranto rialzata, in veli disordinati, a mostrare la caviglia e parte dell’arto nudo.

«Tanto quanto la settimana a Lyon, la sosta a Saint-Etienne, il tè preso a Valence per riposarti…» l’uomo ride. Una risata cristallina, ironica, per nulla stanca. Forse anche a lui ha giovato questo strambo viaggio, questa fuga, che da Londra li ha portati, infine, fra le braccia profumate del loro campo di lavande.

«Domani saremo a casa. La nostra nuova casa.» Evangeline si è fatta pensierosa. Il sole del tramonto inonda le campagne della Provenza fuori dal finestrino della carrozza, invadendola a tratti di fasci di luce, impalpabili lingotti d’oro sospesi a mezz’aria. Il voyage è finito.

«Cos’è che ti turba, amore?» Si sentono i bagagli lamentarsi e sbatacchiare da sotto e da sopra le poltrone. Hanno portato con loro solo il minimo indispensabile: i ricordi di una vita si sono sbriciolati in un mucchio di sabbia che si disperde, nonostante la presa di quella mano possa essere così forte e sicura, e quel che ne rimane alla fine è ben poco, ciò che s’incastra fra le linee del palmo, le tratte del destino.

«Tours, Poitiers… abbiamo detto addio a tanti luoghi, non solo a Londra. Un’orma lasciata su una piazza, e quel posto è già, in qualche modo, un nuovo asilo. Quanti edifici hanno protetto le tue carezze, e i nostri baci? Ci siamo nascosti dalla gente, non fosse che per una manciata di istanti, e la città si è chiusa su di noi a proteggerci da sguardi indiscreti. Non ti mancano, Byron? Non ti manca Parigi?» La donna ha un fiordaliso di vetro appuntato allo jabot, un souvenir di terre straniere e conosciute. I suoi petali, a uno scossone più violento, tintinnano piacevolmente scontrandosi fra loro.

«Stai ritornando sulle tue scelte, forse? Non mi mancano, perché so che un giorno vi farò ritorno.» Segue una pausa di molteplici minuti, lo sguardo e il tempo si consumano ad ammirare lo spettacolo del crepuscolo, il suo sfuggevole stendersi fra le brame del cielo, striato, da lontano, da nubi temporalesche che s’avvicinano violente. È un’ora particolare, in cui ogni evento si macina nel volgersi di una clessidra alta quanto un fiore di prato.

«Non sto cambiando idea» aggiunge la ragazza, ricollegandosi a un discorso che pareva interrotto, concluso, ma di cui ancora si ode l’eco disperso nell’andito della vettura. «Altrimenti sarei rimasta incatenata alla mia villa a Colonia, molti anni fa. Solo penso a come sia doloroso allontanarsi da tutto questo.»

«Sei sempre fuggita. Credevo che ormai ci avessi fatto l’abitudine.» Una goccia di pioggia si abbatte sul vetro.

«Questo mai» sussurra Evangeline, portandosi una mano alla bocca, quasi per rendere ancora più inudibile quel che le è sfuggito dalle labbra. Un tuono consola il battere sconsolato del suo cuore, non più solitario. «A volte ho l’impressione che con tutto questo allenamento il passato sia divenuto più veloce di me.» Il sorriso che le si diffonde sul volto è spento, lacrimevole come la maschera di una tragedia greca.

«Sei stata sulla tomba di tua sorella, questo Natale?»

«No.» La voce le s’incrina. «Non ne ho avuto il coraggio.» Una goccia di pioggia lascia un solco sulla guancia della giovane. È pioggia salata, piove dalle volte dell’anima.

Byron prende il bastone che aveva poggiato sulla restante parte del sedile imbottito, foderato con stoffe lisce e pregiate, e con questo batte sulla griglia comunicante con la parte riservata al cocchiere.

«Eugène, si fermi!»



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