giovedì 17 febbraio 2011

PostHeaderIcon Riot!

Alcune sere fa, un po’ di delirio, qualche nota di noia nell’aria. Il desiderio di rivolta, soppressa alla foce dell’immaginazione, e qualche metafora esorcizzata dalla sua croce. Un incubo punk, uno scambio di battute quasi nonsense, quasi poesia.

Vincenzo poi le ha ritinte, allungate, modificate un po’, per creare qualcosa di omogeneo, qualcosa da poter proporre anche ad occhi estranei. In azzurro trovate i suoi pezzi, il resto è mio.

E così, quel che è nato in una sera di chat, diventa questo… diventa Riot.

Voglio completare l'adolescenza assieme a te, buttandoci da un ponticello di Venezia, mano nella mano, e gridando qualcosa di rock con la voce che si è corrosa l'animo appresso. E ora raspa come una caverna.

I canali veneziani sono inquinati.

Ma questo fa rock.

Vorresti rimanere impigliato fra le fondamenta d'alghe di una piccola Atlantide senza speranza?

Sì, oppure no. Però… qualcosa di simile.

Io andrei a Carnevale, vestita di nero, e romperei dieci maschere in piazza San Marco. Poi fuggirei e fra il tintinnare dei vetri soffiati di Murano salirei sulle ali di una gondola, in punta di piedi sulla parte più alta per sfiorare con il naso il fondo umido di pietre grigie di ogni singolo ponte. Una volta raggiunto il mare, solo allora mi butterei per sapere di sprofondare in un’immensità in cui non si può essere soli.

Ci sarò io con la maglietta blu scuro, maniche corte nel più gelido inverno, una faccina triste gialla stampata su e jeans troppo stinti, quasi bianchi, laceri e lerci come un fondale di fogna. Io che faccio le corna da dietro la schiena al gondoliere. E…! È forse, il forse, l’emblema, la sbronza di perdere per un attimo l'equilibrio, ma poi tutto si rovescia, è apposto… È per provare l'ebbrezza di cadere veramente, col cuore, con la mente, per sfregiare l'essenza incrostata di silenzio pesante. Come se ciò che cadesse fossi tu soltanto. E per sempre. Come calcinacci da un muro sradicato dall'anima. Fine.

«Mi dici fine?»

«Forse.»

«Cosa forse?»

«Alle stelle servirebbero dei preservativi per danzare più sicuri, come nastri per reggersi ancora in cielo e non impattare con tavolati dei sogni.»

«Ma tanto c’è… la carta di imballaggio che li protegge.»

Vi passerei la mano sopra, le palline, sfiorandole con la tristezza, sfiorandole con l’ago delle spille da balia rimaste incagliate al vortice di amori diversi, tracciati sulle mani dagli occhi orbi di una zingara. E se scoppiamo è perché abbiamo amato troppo. Amiamo lei, che persa, spremuta su una grattugia, è l’amicizia. Idolo di sangue. Scorze di mele, acido di limoni e sentiero di arancia marcia.

Io andrei a piedi sin da lei, strappando lavande al mio passaggio, infuocando il grano con la benzina

E la schiena rotta dalla pioggia, e la bocca impastata di capelli d’altre, altri

E il silenzio che preme sulla lingua come cenere.

Ho preso un tram e guardavo le stelle fuori per sputar loro in faccia neve e sangue, e le converse coi buchi affondavano la loro marcia sul cuore.

Dille che… il suo cuore è un palloncino adagiato su una lettiera d’aghi, e miele sopra ch’attira le ali, e lavande sterminate. E che per lei una cinta di silenzi e ghiaccio le crepa il volto in rughe di specchio. Passato e presente, valanghe di miseria e schiaffi; si può essere soli, assieme, insieme, un campo di concentramento per scabre crisalidi bastarde.

Dille che ho messo un orso dentro una voliera e falle vedere la tua mano intrisa di sangue, mentre percorri le mie guance con le ossa della barba.

Sei un maledetto, se le dico questo, vorrà sapere il resto, e se le dico che in vero è per te pensa che noi ci amiamo e…

Fanculo, dille…

…e questo è sbagliato. Dille, dille, dille cosa?

‘Fanculo.

Mentirei due volte.

Mi sento bene, così pieno di droga, così pieno di cinismo, di vita.

La vita... Io sento che la mia si sta diluendo come un colorante nell'acqua, e se seguo le tue parole si riempirà di veleno. Sei il mio veleno più dolce.

E tu fiele d’amaro sogno. Vomitata sul campo di un universo ingoiato a forza. E spari di dolore, polvere da sparo a crivellare fogli di storie novelle imbiancate.

Sono le ispirazioni, sono che voglio staccarmi dal mio essere, non voglio poesia, voglio più questo, più follia, più qualcosa che gratta e non smorta. Voglio me stesso, lo sfacciato me stesso.

Dì che hai ricevuto un delirio e hai dato un mazzo di lavande secche, perché io le ho detto di aver ricevuto quelle. Se proprio vuoi uccidermi, fallo con classe.

Posso davvero? Mi permetti l'onore, come mi concedi la mano e invece ti sfilo l'anello…

Sei crudele, non so cosa vado cercando permettendoti di fare certe cose. Anzi, forse lo so, e forse non mi sta più bene. Hai il mio cuore nelle tue mani, fanne quel che vuoi.

No. Non voglio dirle nulla, se non vuoi. Il problema è che sei troppo perversa per capire…

Per non volerlo.

…cosa ti farebbe piacere, e per non volerlo.

Dillo, in maniera bella, con classe. Dillo, a tratti.

Dillo come se ti cadessero le parole dalla bocca, dalle dita, tasti consumati caduti nel tè bianco.

Non credo che capirà tutto. Verrà a chiedermi spiegazioni, e io… io parlerò, se è questo che vuoi.

Per forza?

La forza è una stronza partorita da una bolla soffiata dal naso di un orco.

Mi sarei bruciato le punta delle dita per possederla.

Le costole a sassate e sfiorare stelle con le antenne per…

No. Parlerò perché è meglio non mentire, né avere segreti.

E se non l'invio, parlerai?

Se non l'invii, resterà tutto così, sospeso, e io non troverò il coraggio di abbattere questo muro.

E tu cosa vuoi? Una spinta…

Voglio che mi getti giù dal burrone. Dimmi quando posso cominciare a volare.

Ora. Ti aspetto giù, per prenderti in braccio.

Prima bugia svelata. Devo cadere ancora?

E allora cadiamo giù. Destinazione bollicine d’alcol, unico appiglio che vive sospeso su isolotti come capocchie di spilli infilati sul cranio di una rossa riversa in un lettino, il capo staccato dal collo.

Ho scarabocchiato un bacio di luna sulla tua caviglia, mentre dormivi accanto a me in una cabina telefonica, che strillava asilo per gli immigrati del cielo.

Prendimi! Ora, o muoio.

Presa. Oddio, le mani quasi cedono e i tasti si consumano appresso. Quindi?

Ho bisogno di te. Cos'ho fatto?

Nulla. Solo onestà, solo sfrontatezza. Solo andare al confine, con un fascista che ti punta la canna dentro la gola e scoprire che è bello. Tutto. L’avventura. Ridere di Morte e le sue comari, che come vecchiette indecenti, fanno schedine sulla gente.

E allora… perché? So perché, ma ora mi sento ancora più vuota, ho ingoiato coriandoli di fuoco.

Vuota è quando ti sei tolta tutto dentro, perché eri troppo pesante. E… oh dio, ho mozzicato le stecche del tuo stomaco.

Voglio aspirare la diossina che è salita, una ciminiera d’odio, dai bruciori infernali.

E allora, se mi sono tolta tutto, c’è ancora qualcosa che resta. Voglio affondare, perché solo così, secondo il giudizio di Dio, nella mia ordalia risulterò innocente.

Davvero?

Sì.

Ma è una cosa tanto brutta, quanto rubare una stella al cielo e scoprire che è reato, scritto a penna sull’ultima pagina di un libro di codice penale?

No, è bellissima, se resta solo mia.

Cosa?

Il peso che ho ancora dentro, quello che tace e che mi fa andare giù, una sirena dalla coda di piombo.

E allora fa sì che rimanga bellissima, e stavolta non sarai assolta… Ma solo per oggi, perché alla fine è solo un foglio che sta per essere bruciato. In fondo… in fondo, il colpevole sceglie la sua pena.

Ma non la sua colpa.

Vuoi essere assolta o giudicata? Che devi fare, lo sai che il dito più lungo di un giudice è sempre l’indice? E quello di un nazipunk è il medio…

Niente, devo restare così, sul fondale. Voglio che sia così, ancora per un po’.

Ed è bellissimo, perché adesso il linguaggio è un mucchio di bolle.

Ho visto un treno correre. Alle ruote sono impigliate le ortiche. Ai finestrini rotti, le mani staccate dai corpi di zombie svuotati dal sangue e residui di plasma dentro le vene, tra le mani, fra una cucitura che squarcia le braccia, dentro agli occhi.

Un mucchio di deliri concatenati a un bisogno troppo forte di vodka alla menta e di Russia. Di casinò che in verità è un po' casino.

E che sommariamente, uno scritto? Un delirio, un ciao e un abbraccio troppo forte da stampare addosso profumi che non staccheranno mai la presa dai colli.

E che sia.

Il più bel regalo, quello del per sempre.

Promettimi che lo farai. Non per scherzo. Non stavolta. Non è una presa in giro.

Non è amore.

È affetto. È dirsi, scrivimi per sempre prima che scappi sotto il viale.

Ho ricevuto quattro fogli di diario e un anima d'inchiostro allegata.

«Hanno ucciso il gatto della bambina dei viali. Infilzato sull’antenna del paradiso.»

Ma lei non è mai scappata.

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