giovedì 31 dicembre 2009

PostHeaderIcon Aquila Bianca e Nero Dragone


Solcando gli immensi cieli, fra le montagne del misterioso Oriente, stava - ali spiegate - Aquila Bianca. Il piumaggio bagnato di brina riluceva nel sole del mattino appena nato, bimbo che sorride alla vastità del mondo, e plana’a ella nel vuoto.

Scorse, occhi acuti e stretti sopra il becco arcuato, una nube contorcersi nell’aëre. S’avvicinò arguta, e distinse un dragone dalle spire torte, inquieto, nero e argento nel giorno che viene.

“Cos’hai tanto da dimenarti, Drago?” chiese allora, curiosa e selvaggia anima del cielo.

“Nelle terre spiegate ai nostri piedi, gli ominidi si stanno preparando a qualcosa di grande, mia Regina dei cieli.” Rispose il Dragone, interrompendo la danza. La punta della sua coda verteva alla lontana Cina, miglia al di sotto, e anche i due lunghi baffi che gli si dipartivano dal volto fremevano nel basso.

“Oh, Dragone Nero, ma cosa vuoi tu dagli ominidi? Dipendiamo per caso noi da essi? No, e allora non ti struggere, ché noi vi siamo superiori, sia per corpo che per spirito.” Proclamò fiera, scuotendo le vaste ali.

“Certo che no, Aquila Bianca. Ma, guarda, loro ci venerano, e fra un po’ comincerà l’anno e me consacrato. E pensavo, qualora le stelle novizie giungeranno per miti istanti dai loro sommessi luoghi, se non fosse ora di mostrarmi nella luce fugace della notte promiscua.”

“Cosa ti porta a tal gesto avventato? Tu che ponderi ogni singolo tuffo nelle nuvole bianche, ora ti azzardi a compiere quest’assurdità? Sono solo uomini senza speranza.”
“È per ringraziarli, mia Aquila opalescente.” Disse quindi il Dragone, svolgendo i meandri del suo lungo e suadente corpo, come fumo trasmutato dal vento. “Saranno pur soltanto ominidi incauti, ma hanno sogni, desideri, fantasie che vanno accompagnate con un pizzico di fortuna. Stanotte è l’ultimo giorno dell’anno, e io passerò sul mondo a spargere la mia polvere di stelle, sicché porti buona ventura a questo popolo in disgrazia.”

“Sciocco!” proruppe l’Aquila, e aprì il becco, ove si intravide per un attimo la sua gola gemmata e fiammeggiante d’ira. “Coglieranno la tua polvere in sacchi d’argilla, e ne faranno concime per i loro vizi. Il tuo sacrificio sarà vano.”

“Da quant’è che noi Guardiani del cielo non aiutiamo gli uomini? Paiono secoli, forse intere dinastie di imperatori. Se per noi il tempo è solo una parentesi della vita, per loro ci son già state almeno tre reincarnazioni, che non mi sembrano esigue. E le anime, nelle ultime esistenze, non sono cresciute. Da quant’è che non ne sale una a farci compagnia, a diventare un nuovo Guardiano?”

“Io fui l’ultima, Dragone.” Disse l’Aquila, abbassando il capo. “e ciò accadde ben cinquecento anni addietro. Dopo di me non ascesero altre anime, ne sono certa.” Poi proseguì, poggiando anch’ella lo sguardo vetusto sulle terre del basso, ove si vedeva la muraglia sacra alla Cina allungarsi per enormi distanze. “Lo scorso Dono, lo ricordo bene, fu del Serpente Piumato. Compì la sua muta in terra, e allora gli ominidi si ricoprirono d’oro.”

“E ci fu pace e amore.” Concluse il Dragone Nero. “Ci sono Regnanti che giurerebbero che, se potesse tornare indietro, il Serpente Piumato lo rifarebbe ancora. Egli stesso, tutt’oggi, dall’alto degli universi dove ora dimora, lo ammette.”

“Non ci lasciare, Dragone.” Supplicò allora l’Aquila, cristalli che si formavano alla punta degli occhi smeraldini, per poi cadere come perle nel nulla del cielo. “Spero tu abbia conservato un po’ dell’egoismo terrestre. Se così è, tiralo fuori e risparmiati. I pezzi del tuo cuore puro non andranno dispersi inutilmente.”

“Forse stiamo un po’ affollati, qua sopra, forse è proprio per questo che la mia decisione persiste…” e un lieve sorriso increspò le dolci labbra del Drago. “I Regnanti dall’alto hanno trascritto nel firmamento lunghe prose sulla gioia del Dono. È un’estasi senza precedenti, così dicono. Non sto trovando fatue scuse, Aquila, voglio solo rassicurarti. Ormai non mi porterai indietro, ma, se vorrai, potrai accompagnarmi in quest’ultimo viaggio.”

Aquila Bianca, pensierosa e casta, prese la sua decisione. Intanto era scesa la sera, poiché nei cieli lo scorrer del tutto segue gli umori dei Guardiani, e scuri erano gli animi quella notte. Aquila Bianca, immane e sicura, esclamò l’ultimo stridio del suo acuto canto. “E sia.”

Il Capodanno cinese, quella notte, fu uno dei migliori mai trascritti dagli scribi reali. Fra i fuochi e le danze, fra le risate e i pianti, tutti – all’improvviso, seguendo l’urlo di un suonatore di gong – voltarono il capo in su, naso all’aria e occhi puntati al cielo. La sorpresa solcò i loro visi, alla vista di un dragone di brillanti e di un’aquila di gemme colorate e preziose che attraversavano la volta celeste. Alcuni confidarono nel miracolo, altri si complimentarono per gli splendidi fuochi, tutti furono pervasi da una nuova e al contempo antica speranza. Perché si apriva una nuova era, più grande e più bella, frutto dei Doni di ben due Guardiani.

Questo racconto necessita di una breve spiegazione. È nato per caso, senza spunti precisi (sempre se il Mahjong non si possa considerare una fonte d’ispirazione), come un po’ tutte le storie migliori. Sono partorite dal nulla, sono orfane, e splendidamente belle.
Qui si parla di anime e di reincarnazioni: secondo la tradizione, l’anima, una volta compiuto il suo corso e una volta accresciutasi spiritualmente, può abbandonare la regola della reincarnazione, e quindi ascendere al cielo al fianco degli dèi. Traslando la teoria al cristianesimo, si potrebbero accumunare queste anime dislocate definitivamente dal corpo agli angeli, agli arcangeli, ai cherubini.
Ho preso in considerazione unicamente la Cina proprio per le sue credenze particolari e radicate in lontani passati, per il calendario che prevede gli anni dedicati alle figure simboliche del loro oroscopo, per i festeggiamenti unici che ivi avvengono a Capodanno.
Da qui, mischiando piccole idee da diverse culture, ho creato la mia personale classificazione: le anime degli uomini, soggette alla reincarnazione e viventi in terra; i Guardiani, che assumono forme specifiche e sono lo stadio delle anime che hanno compiuto la loro crescita, essi vivono in cieli non meglio specificati; i Regnanti, quasi dèi, che sono i Guardiani sacrificatisi a favore degli uomini in terra, e vivono negli immensi universi.
Concludo col dire che è un racconto fuori dalla nostra comune catalogazione degli anni, perciò siete liberi di spaziare con la fantasia e accumunare i personaggi che voi dichiarate illustri ai Guardiani e ai Regnanti, partendo dalla psicologia di quei pochi descritti nel racconto. Personalmente, scrivendo, non ho pensato a nessuno in particolare, ma riflettendoci adesso avrei qualche nome che potrebbe andare bene…
Inoltre, due piccole licenze poetiche che mi sono presa: “plana’a” sta per planava, “aëre” dovrebbe essere il latinismo di aria.
lunedì 28 dicembre 2009

PostHeaderIcon Fotografie di una nuova quotidianità

I polacchi fanno prevalentemente una vita di campagna. La distribuzione della popolazione è assurdamente omogenea, pochi vivono in città, e quelli che lo fanno sono spinti più che altro da motivi di lavoro. Le famiglie si ammassano nei paesini della periferia, che si susseguono a ritmo costante, intervallati da lunghi campi gelidi e boschi, dove spuntano fra enormi querce dei simpatici cespugli di more, mirtilli e fragole.


Quando si parla di paesi, in Polonia, non dovete immaginarvi gruppi di case distanziate da stretti vicoli. La strada è una, quella principale, percorsa anche da tir e pullman che vanno verso altre nazioni; non ci sono vie secondarie. Le dimore si affacciano alla strada, una dopo l’altra, come tante villette. Spesso sul retro si nasconde un orto, oppure parte di bosco di proprietà privata. Sono pezzi di terreno edificati, con un giardino grande e un’inferriata che corre lungo tutto il perimetro della zona. Lo stesso vale per le scuole, che qui sono curatissime come una casa normale, e che sono provviste di tende alle finestre, vasi di fiori ai davanzali, ciabatte per gli alunni e gli insegnanti. Cimiteri, Chiese, supermercati e servizi seguono la stessa regola: una sola strada su cui danno tutti gli edifici, a volte anticipati da un piccolo vialetto non lungo più di qualche metro. Così per chilometri e chilometri, e il passare da un paesino all’altro viene annunciato solo da un cartello che ne riporta il nome. Se questo cartello mancasse, forse non ci si accorgerebbe nemmeno del cambiamento.


La Polonia è una nazione abitudinaria, calma. Laddove mancano i paesi che ne fanno il segno di riconoscimento, si notano immense praterie, con foreste fitte e laghi il più delle volte ghiacciati. L’aria è pura e fresca, scende giù per la gola come un balsamo rigenerante. Non ho potuto conoscere che una piccola parte della vita di città che si conduce qui, ma so che sono soprattutto luoghi in cui si concentrano i servizi, i vari lavori, il centro. Le città polacche le ho sempre viste spente, perché vivono solo in funzione dei paesi vicini, quasi come punti di riferimento. Sai che ci sono, ti rechi lì per le emergenze o per l’indispensabile, a volte ci passi la domenica, ma poi ti rintani nella tua villetta di campagna, a smuovere il terriccio dove crescono le patate, a raccogliere i funghi nel bosco, a leggere un libro vicino al fuoco con il tuo gattino in grembo.


È anche una nazione povera. Molti vivono ancora in case completamente in legno, e dall’esterno hanno un aspetto fatiscente e triste. Numerosi sono i comignoli che sputacchiano fumo giallognolo, a volte nerastro; ed è disarmante credere che quel focolare a volte è l’unica fonte di riscaldamento. I polacchi sono superstiziosi, attaccati alle loro tradizioni in modo morboso, sono il classico popolo del nord che guarda al progresso con scetticismo e paura. Per fortuna con le nuove generazioni qualcosa sta cambiando, anche se conservano lo stesso queste caratteristiche di fondo. D’altro canto sanno essere dolci, generosi, e stranamente timidi.


A Natale, la Polonia si accende di colore, si veste a festa ritirando fuori dagli armadi tutti i suoi gioielli, s’incipria il volto come una fanciulla al suo primo ballo. Ogni casa è ricca di luci, avvolte attorno a balconate, finestre, alberi, ringhiere e colonnati. È quasi una gara per chi addobba: si cerca di essere i migliori, i più originali, e nel frattempo l’aria si carica di atmosfera e di attesa incontenibile. Il vischio è appeso ad ogni porta, per scacciare gli spiriti maligni e forse trovare un nuovo amore. Le canzoni natalizie risuonano in ogni angolo, cantate a mezza voce, accennate nel ritmo, battute con le dita sul manubrio della macchina. Il 25 dicembre, poi, tutte le Chiese si affollano, e molti attendono fuori per assistere alla celebrazione della Messa. Quindi i giovani di ogni famiglia cominciano con la tradizione: si travestono da morte, diavolo, pastore e re, e fanno il giro delle case cantando e recitando poesie. Si dice che sia una specie di rituale per scacciare il male, e nel frattempo i ragazzi guadagnano qualche spicciolo portando gioia di porta in porta. Il più delle volte ci si ritrova con bambini sperduti che biascicano a stento qualche parola, vestiti malamente, sembrano stati gettati a forza in mezzo alla strada giusto per far godere la famiglia di quel poco che sarebbero riusciti a racimolare. Fanno un po’ pena, talvolta spunta un mezzo sorriso, ma sono accolti calorosamente e si fa di tutto per far sì che si trovino a loro agio. Il giorno di Natale si sta in casa, con tutti i parenti riuniti, si mangia, si beve, si gioca a carte. Ci si diverte sperando di riuscire a ignorare almeno momentaneamente la realtà.


A Capodanno, la nostra signora si cambia d’abito: rimangono le classiche decorazioni del periodo, ma si aggiungono palloncini, fiori, nastri, cappelli a punta dai colori psichedelici, e tanti, tantissimi fuochi d’artificio. Il cielo, in questa notte, si vanta di nuove stelle. La musica risuona dalle casse approntate al momento, si da il via a danze sconnesse e spesso imbarazzanti, frutto dell’alcol assunto in precedenza. È una notte senza limiti, dove la tv è sempre accesa in modo da controllare l’ora e guardare i concerti spettacolari che danno nelle principali città. Si possono passare ore senza far niente, stando solo insieme, e anche dopo la mezzanotte questa strana festa continua, imperterrita, finché le membra non si dichiareranno da sole impossibili di proseguire oltre. Ma i fuochi, i fuochi dell’ora di punta, i primi… è come vagare per l’universo, non riesci a contemplarli tutti con una sola occhiata. Se ne vedono a migliaia, perché ogni sparo proviene da una casa diversa, e continuano per minuti interminabili. Contengono la magia e la speranza del nuovo anno. E ti viene da pensare, nel gelo del balcone a cui ti affacci, fra le luci delle fatue stelle, di tutte quelle volte che, scrivendo, sbaglierai anno, nostalgico del passato, incredulo del presente, inconsapevole del futuro.


sabato 26 dicembre 2009

PostHeaderIcon La lapide della strega


Per chi abbia letto un noto libro di Gaiman, la citazione dovrebbe essere chiara. Per chi invece non l’ha ancora fatto, vi dico che il romanzo in questione è “Il Figlio del Cimitero”, capitolo IV. Qui il protagonista Nobody dona una lapide a una strega defunta, bruciata al rogo per presunta eresia, e sepolta in un cimitero per indegni, criminali e, appunto, streghe. Nel cimitero, che affianca quello ufficiale, non ci sono lapidi, le sepolture sono fatte male e ammassate, non c’è nessuno che faccia compagnia agli spiriti. Ma non sto qui a raccontarvi il sunto del capitolo, se volete leggerlo ve lo consiglio (sia per la nota bravura dello scrittore in questione, sia per la bellezza del libro in sé), e procedo col narrarvi la mia storia.


La temperatura è stazionaria sugli zero gradi. Benché sia già inverno, uno strato di foglie secche ricopre il terreno; hanno colori ambrati e di un marrone dalle venature dorate, rilucenti al tardo sole pomeridiano. Scricchiolano piacevolmente sotto il passo svelto e deciso di Sławek. La strada è in continua salita, e per adesso seguiamo un sentiero un po’ fangoso utilizzato anche dalle automobili. Arrivati al crinale della collina, si profila davanti ai nostri occhi una cappella dipinta di bianco. È piccola, con in cima una croce in ferro e al lato dell’entrata un vaso pieno d’acqua piovana. Nella strada percorsa per arrivarci, Sławek mi ha raccontato la storia di questo posto…


Nelle ere primordiali, quando ancora gli uomini primitivi di razza bianca solcavano i boschi selvaggi dell’Europa orientale, nuove religioni si affacciarono loro. La natura richiedeva i suoi sacrifici, il Dio Sole e la Dea Madre proclamavano i loro templi. Gli uomini della zona, impauriti e devoti, costruirono tre cerchi di pietra, scavati nei rudimenti della collina dove noi ora siamo: i tre cerchi erano disposti a triangolo, quasi a ricordare arcani simboli celtici. Al centro, attualmente occupato dalla cappella, convergeva il potere supremo del loro luogo di culto: ivi si facevano i riti sacri, ivi si invocava la magia. In questo territorio fuori dal tempo e dallo spazio, si svolgeva la religione primizia, quella non contaminata che reclamava il suo prezzo senza perdersi in contrattazioni con i miseri umani.


Quando, nel corso dei secoli, le foreste selvagge furono intervallate da castelli in pietra e regioni feudali, la Chiesa ordinò eretici coloro che proseguivano in tali pratiche pagane, e fece distruggere i cerchi magici. Penetrando la cultura barbara, la Chiesa ha fatto sì di instaurare il suo dominio con la distruzione: se la Polonia è una delle nazioni più cattoliche dell’Europa è anche perché qui i templi pagani proliferavano, accompagnati dalle cosiddette streghe. Dando fuoco e profanando i luoghi dediti alla Dea Madre, la Chiesa ha destato la sua furia, che ora giace sepolta in attesa di una nuova rinascita, di una covata rivalsa.


Ma ciò non basta: i predicatori dell’unico Dio hanno eretto cappelle e simboli cristiani ove sentivano il confluire della Magia, cercando di scacciare e sostituire un potere più forte di loro. Così è nata la chiesetta verniciata di bianco, costruita prima in legno nel 1850 e poi rifatta in mattoni. Essa si trova al centro dei tre cerchi druidici, in cima alla collina. Alcune lapidi anonime e ricoperte di muschio la attorniano, quasi stessero lì per fungerle da vialetto. Forse sono le tombe delle streghe, uccise mentre professavano la loro fede nella Magia, prese nell’estasi divina… e ancora le vedo, le sento, a ballare nude fra gli alberi, foglie e rami fra i capelli, il fuoco acceso nella radura lì di fianco.


Ora del loro potere resta ben poco. La pietra nascosta nella collina, quella con cui sono stati edificati i cerchi, è stata quasi del tutto divelta, obiettivo di cave affamate del loro valore monetario. Solo un piccolo tratto, difficilmente raggiungibile, è ancora in piedi. Nonostante i graffiti e gli anelli degli arrampicatori di free-climbing, la sua potenza traspare senza tormenti. Si confonde con la natura perché sua figlia. E credo che rimarrà lì fino alla fine dei tempi, perché nulla si crea e nulla si distrugge, e per quanto impegno si metta il passato torna sempre nelle sue importanti e affascinanti vestigia.


Adesso Sławek mi chiama via, dobbiamo andare. Il racconto è finito, e domani mi aspetta un’altra piccola gita fra gli immensi boschi di questo paese sperduto e inesplorato, spesso sottovalutato. Ma che sono quei suoni, quegli stridii che scendono dal cielo? Sono i rami smossi dal vento… oppure gli spiriti che vagano, e cercano vendetta nella notte che scende, cupa, su ognuno di noi.


sabato 19 dicembre 2009

PostHeaderIcon A Natale si può fare di più...

Come promesso, il racconto. Quando ho cominciato a scrivere, avrei voluto che ci fosse un finale diverso, ma le mie mani mi hanno condotto altrove. È a tema natalizio, forse lo prenderò in considerazione per pubblicarlo come racconto ufficiale per il contest della Ragazza Drago. Ma anche no, perchè per quello avevo in mente una trama più allegra, 'fiabesca'.
Va be', buona lettura. E felici feste...
È Natale e a Natale si può fare di più,
è Natale e a Natale si può amare di più,
è Natale e a Natale si può fare di più
per noi:


Fa freddo. L’aria gelida e umida s’infiltra fra le pieghe dello scialle di lana, riesce a trovare una via fra i fitti nodi del tessuto, per poi scivolare come cubetti di ghiaccio sulla pelle. E quel piccolo corpo inizia a tremare, seduto sulle scale sconnesse del centro, scosso da lievi tremori che si fanno sempre più forti.

Le campane suonano a festa, e una confusione di gente si accalca sulla scalinata, travolge il corpo che si stringe ancor più su sé stesso. In cima c’è una Chiesa, che mostra le luci intermittenti delle decorazioni natalizie, purché nel giorno del Signore tutti possano raccogliersi a pregare.

Intanto la ragazzina si sente sperduta, tutta quella massa di persone l’ha stravolta, e una lacrima solitaria lascia una scia, pulita, sul suo volto scuro di polvere e fango. Ai suoi piedi, la tazza di latta è quasi vuota, eccezione fatta per un mucchietto esiguo di monetine. Il rumore dei pezzi di metallo gettati nel contenitore ammaccato è ricordo lontano, per la bambina. Il tintinnare allegro che per lei significa pane è anch’esso una reminiscenza distante. Lì, sullo scalino sporco di pietra, non chiude gli occhi, non si abbandona al sonno imminente, ma guarda la sua futura cena con bramosia e stanchezza antica. Desidera che domani nevichi. Quando cade la neve, per lei significa niente lavoro.

Qualcuno sta suonando un’armonica, a qualche isolato di distanza. Forse è uno come lei. Si sente l’eco della melodia a volte sconnessa e un po’ ridondante di una canzone di Natale. Vorrebbe cantarla, ma le labbra sono secche, se prova solo ad aprirle in un finto sorriso si spaccano come crepe in un vaso d’argilla cotta. E poi non sa le parole, le ha sentite in giro, questo è vero, ma non ne ha mai compreso il significato.

Vede la gente che si scambia cenni per la strada, e quasi tutti sono avvolti in caldi paltò lunghi fino in terra. Portano pacchi rivestiti di colori sgargianti, e nella loro fretta c’è qualcosa di nuovo ed eccitante, che manca nel resto dell’anno. Tornano a casa.

Il freddo si attenua, o forse è lei che non sente più le mani e i piedi, e che ormai ha abbandonato la testa sul muro al lato del suo angolo di gradino. La guardano, alcuni con pietà, altri con scetticismo. I bambini sono curiosi, ma si lasciano lo stesso trascinare via dalle madri preoccupate del dolore. Non vogliono che i loro figli conoscano il male del mondo, errano nel ritardare l’inevitabile e illuse crescono solo corpicini senz’anima.

È ora di andare, non può più sostare nei pressi della Chiesa. Fra un po’ la Messa sarà finita, e non vuole essere calpestata nuovamente da fedeli che ormai si sentono redenti da ogni peccato, ma che ignorano la regola dell’aiutare il prossimo. Ingenui, a credere che inginocchiarsi basti, a non portare soccorso e poi chiedere scusa. Sciocchi.

Stringe quindi la tazza di latta, e si avvia lentamente. Si mantiene al lato della strada, cerca di passare inosservata, ombra lacera in quel tripudio di colori. Non gira la testa verso le vetrine, non vuole rispecchiarsi in una vita che non è la sua. La presa sulla tazza si fa più forte, mentre osserva gli altri, quelli come lei, che si affacciano come buie finestre nel paesaggio freddo e festoso del centro città.

Allora prende con fatica una moneta. È lucida, tonda, incredibilmente bella fra le sue mani rovinate dal gelo. Si piega leggermente sulle ginocchia, e la lascia cadere nel cappello riverso in terra di un uomo. I loro occhi s’incrociano per un attimo, poi lui torna a guardare fra le memorie del suo passato.

Ripete questo gesto mille e mille volte, o almeno così le pare. Lo fa con ogni persona che trova agli angoli delle vie, anche col suonatore d’armonica che l’aveva accompagnata nel suo sostare. Lo fa finché la tazza non è vuota.

Vaga per la città, senza meta. Forse anche oggi dormirà sulla panchina del parco. Era comoda, la notte prima, sempre meglio della stazione dove loschi individui avrebbero potuto derubarla. Ma tanto adesso non ha più nulla di cui privarsi.
Lei ha sempre creduto che bisogna aiutarsi fra simili, perché i più grandi non capiscono, non comprendono. Se oggi non cena, non se ne farà un problema. È la vigilia di Natale. E forse domani nevica.

PostHeaderIcon The Broken Glass


In questi giorni mi sento come un bicchiere travolto per il peso eccessivo del cucchiaino che aveva all’interno, quel bicchiere che anche se lo rialzi poi ricade di nuovo, spargendo il suo contenuto in un macchia in continua espansione. Il bicchiere sono io, il cucchiaino è il costante peso dei miei pensieri, la macchia è la mia ispirazione che viene assorbita dalla tovaglia e non trova sbocco. Forse il bicchiere si è rotto scivolando giù dal tavolo...
Ho tante, troppe storie che vorrei raccontare, piccoli aneddoti che sono venuti a trovarmi nel sonno, racconti che cercano di spiegare qualcosa ma che alla fine restano fatti fini a se stessi. E poi c’è il disegno di Kendra e il Veggente (a cui ho finalmente trovato un nome…), il Tyrsek che si culla nell’incompletezza dei suoi dieci episodi. C’è la partenza, che sembra così imminente che io non ho nemmeno tirato fuori la valigia dall’armadio a muro, ma che ha già intaccato la mia voglia organizzatrice facendomi scrivere tutta una lista degli oggetti inutili che mi vorrei portare.
Che c’è nella lista? Il cellulare per le foto con tanto di caricatore, libri, le tracce dei due temi d’italiano che dovrei farmi nelle vacanze, la penna USB con i “My Works” ovvero la cartella con tutti i miei scritti, il set da disegno, qualche cd di buona musica. E se trovo un po’ di spazio anche dei vestiti.
Odio il periodo natalizio. Nella sua perfezione si lascia odiare. Perché c’è la scuola che ti riempie di compiti, tutto qui. Il fatto che ogni anno sono costretta a partire, mi mette in condizione di fare i compiti nei giorni più impensabili e agli orari più incredibili. Non sono i compiti in sé che mi spaventano o mi fanno irritare, alla fine sono semplici esercizi o riassunti di brani che riesco anche a ripescare e copiare dal web, ma mi spiace dovermi sbrigare e spesso allontanarmi dal buon lavoro che vorrei fare solo per non portarmi chili di libri scolastici appresso e di cui alla fine avrei utilizzato poche pagine per poche ore. Insomma, forse è anche questo che inibisce la mia voglia di scrivere, sarà la parafrasi di Eneide e il tema sulla pietas che mi girano per la testa gridando “scrivimi, scrivimi” e che fanno a boxe con le mie storie, storie semplici, fragili come fogli di pergamena, fatte della mia stessa pasta mutevole e spesso sottomissiva.
Penso che proverò col buttare su carta quel racconto un po’ triste, un po’ cattivo, che da giorni preme per uscire. Spero solo di riuscire a scriverlo bene, perché altrimenti perderebbe tutto il valore del contenuto. Chissà, forse fra un paio d’ore troverete un nuovo post
giovedì 10 dicembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo X








Un breve brano, dopo il bombardamen- to... tenevo
a pubblicarlo in serata :)








Una coltre di fumo spesso e denso vegliava sulla città, avvolgendosi in pigre nubi che oscuravano il cielo. Le fiamme lambivano ancora alcuni grattacieli, che come mostri uncinati si erano ripiegati su se stessi pronti ad estendere le loro mani imbevute di sangue nei tranquilli vicinati. Uno scenario apocalittico che trasudava panico e rabbia, repulsione; e sorda vendetta che echeggiava lugubre fra le vie, requiem incessante.
Era entrato solo per avvertirmi.
Mani tremanti stringevano convulsamente il cornicione di una finestra, e si sentiva lo stridere delle unghie curate contro il laminato. La donna digrignava i denti, una furia violenta che le solcava gli occhi spalancati a contemplare la pianura dell’orrore che la sottostava. Osservò una ragazzina trascinarsi a tratti, zoppicante, che si manteneva il braccio piegato in una posa scomposta e arrancava lungo una strada a un paio d’isolati di distanza. La pelle lacera in più punti, e abiti che non si potevano definire tali, lacrime nere a incorniciarle il volto spento e intriso di inconsapevolezza e terrore. A poco a poco, decine di figure simili a lei si affacciarono da sotto alcuni detriti. Parevano quasi anime vaganti senza meta, rinchiuse in silenzi opprimenti ove solo il rombo di un ciottolo che rotolava in lontananza, o il cadere delle travi che resistevano ancora in angolazioni precarie, oppure il rantolo di un altro essere in pena, faceva compagnia.
Ma la città sopravvive sempre, risorge dalle macerie, forse più forte. Ogni male porta con sé una goccia di bene, che si trascina pura nel mare del buio per far rifiorire il mondo.
Mi voleva avvertire che i caccia stavano arrivando, e ci dovevamo riparare casomai qualche missile sbagliasse obiettivo.
La donna, tuttora immobile, stava lasciando andare l’ira, che si sostituiva a un vago senso di solitudine e commiserazione. Poi anch’esse se ne andarono, e fu solo vuoto. Un uomo le si avvicinò, guardingo, e si fermò dietro di lei. Le cinse i fianchi con le braccia, dolcemente, e poggiò il volto sulla spalla della donna, assaporando il dolce profumo dei suoi capelli di fuoco. Egli sorrise lievemente, e volse lo sguardo verso lo scempio che si estendeva ai suoi piedi. Il suo sorriso non s’increspò, bensì assunse una lieve piega soddisfatta, mentre un lampo maligno gli attraversava il viso. Tutto era distruzione, eccezione fatta per pochi edifici che parevano incredibilmente illesi, come se il bombardamento li avesse evitati con un’accuratezza esemplare. Uno di essi era quello in cui i due sostavano, un alto grattacielo dalle pareti di vetro oscurato. Alcuni pannelli erano incrinati, altri avevano ceduto, ma nessun danno che non fosse rimediabile in poco più di un paio di giorni.
“Sei un mostro” disse la donna, mostrando un contegno che probabilmente non possedeva.
“Si riprenderanno, vedrai.” Rispose l’altro, e la sua bocca percorreva lenta il collo della sua compagna, disegnando figure invisibili sulla pelle ambrata.
“E forse ti dispiace anche, non è così? Godi a vederli cadere, ma ti roderai una volta che si rialzeranno.” Continuò. Faticava a credere alla sua indifferenza glaciale.
Se si rialzeranno. E allora basterà colpirli di nuovo. Non possono resistere così a lungo, Kendra, non come possiamo noi.”
“Ma ci sarà sempre qualcuno che combatterà per la salvezza.” Soggiunse lei, girando leggermente il volto verso il suo interlocutore.
“Vorrà dire che il gioco sarà più lungo. E tanto più divertimento per noi.”
Il Veggente era il tipo d’uomo che non si fermava davanti a nulla. Crudele e spietato, perseguiva mete solo a lui note. Ma Kendra a volte dubitava che avesse dei veri scopi, e che facesse tutto per il sublime piacere che gli donava la morte.
mercoledì 9 dicembre 2009

PostHeaderIcon Multi-ethnic, Multi-cultural

Oggi è stata una giornata lunatica, direi piuttosto fuori dalla mia solita routine.
Sono un po' giù perchè mi manca da morire una persona.
Sono come al solito un po' arrabbiata perchè certa gente non riesce a comportarsi a dovere nemmeno nei giorni di festa.
Ma d'altra parte sono schizzata e felice perchè mi sento multi-etnica, libera da ogni pregiudizio, aperta all'integrazione della specie; sono contenta di manifestare queste mie (credo) qualità, perchè poi d'altra parte chi si accoglie rende il suo ringraziamento più prezioso. E gli italiani non lo capiscono ancora.
Ho passato il pomeriggio a lavorare in albergo, e lì ho finalmente potuto provare l'Hennè che mi aveva donato una donna marocchina amica di mia zia. E non m'importa dei commenti vari, del 'non fidarsi', dell'evitare alcuni tipi apparentemente loschi, che tali non sono nemmeno a prima vista.
Ho cenato cinese, roba deliziosa a mio parere. E non m'importa se dicono che i cinesi sono poco igienici, se sputano in terra, se sono tutti uguali. Cucinano da dio, e sono persone dolcissime.
Da questi 'stranieri' incompresi, che ogni volta mi parlano dei loro problemi d'integrazione, mi sento quasi capita, apprezzata. Sarà perchè da loro ricevo attenzioni che mi fanno sentire bene, sarà che con loro sono felice, e tanti altri motivi che ancora non mi sono ben chiari.

Ma è pensando a questo che mi godo il mio nuovo tatuaggio.
martedì 8 dicembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo IX

Si aprono nuovi quesiti, nel mondo del Tyrsek: segreti insvelati, nuovi avvenimenti che sconvolgono la mancata quiete dei protagonisti, e tanta voglia di sbrogliare gli intrighi che si intravedono sullo sfondo.
Lo so, non riesco ad accontentarvi abbastanza. Proseguo con brani minimalisti che sanno porre solo nuove domande, e quello che si intende non basta mai.
Lo so, volete sapere che cosa è successo prima, invece di limitarvi ad assistere a questi piccoli avvenimenti che si susseguono a ritmo sconnesso. Ma, lo ammetto, non lo so bene neanch'io.


Le immagini scorrevano veloci, proiettate sulla parete. Una figura scura che si aggirava rapida fra gli intricati corridoi dell’edificio; completamente abbigliata di nero, si accostava alle camere, ascoltava le conversazioni, disseminava microspie agli angoli delle porte. Il demone sentiva perfettamente quell’alone di marcio che si portava dietro; benché da un semplice video non poteva dedurre altro, seppe con certezza che l’individuo che stavano cercando era ancora all’interno della struttura. Uomini, tutti uguali, avviluppati nelle loro coltri cupe che cercavano costantemente di sopraffare l’altro. Sovrastare, schiacciare, eliminare. Giochi di potere in quel pianeta ormai devastato dai suoi abitanti incauti e che si vantavano di essere rimasti incolumi ai disastri dell’universo, quando forse per primi avevano intrapreso la lunga e ardua via del degrado.
“Riesci a percepirlo?” l’uomo che le stava mostrando le pellicole aveva posto una domanda. Sciocco a dubitare di lei.
“Certo. Procedo?” voleva altro sangue. Maledetto! L’uomo di prima non l’aveva ascoltata. Il suo ventre muscoloso vibrava, sentiva le vene pulsare di quella passione effimera in attesa del cibo. Abituata a dare ordini, ora doveva sottostare a quel trio strambo che l’aveva catturata per un puro scherzo del destino.
“Vai pure.” Disse l’altro scrollando le spalle con noncuranza.
Quindi si concentrò, decisa a trovare il prima possibile la sua nuova preda. Risentì lo strano olezzo di prima, quel sapore amaro di tradimento che permeava il corpo della vittima. Ora nella sua mente di demone risuonava anche il forte battito del cuore, le ritmiche pulsazioni. Non avrebbe più avuto di che battere, povero cuore, perché ormai il sangue stava pian piano abbandonando la spia. Il liquido dolciastro prese a scendere nella gola della Sam-rjah, ancora caldo, inspiegabilmente buono.
In un’altra stanza, il Veggente osservava su un monitor la figura accasciarsi alla parete, respirare a scatti, per poi morire.

“No!” gli scappò un grido. La spia in questo momento si trovava dietro la porta della camera di Kendra. Lei era all’interno, e se fosse uscita si sarebbe trovata il suo corpo esanime ai piedi, con la pelle rinsecchita che aderiva alle ossa, la bocca aperta in un muto grido, gli occhi vitrei. Uno scheletro che si portava ancora dietro abiti, pelle, capelli e il dolore della morte. No, Kendra non sapeva nulla di tutto questo. Non sapeva della spia, e non poteva per nulla al mondo venirne a conoscenza adesso che si erano liberati di essa. Così il Veggente abbandonò la camera di sorveglianza e si allontanò correndo.
Arrivato davanti al corpo, si apprestò a prenderlo in spalla, quando sentì il chiavistello della porta girare. I secondi passavano a una lentezza unica, mentre il pomello seguitava a ruotare lentamente. Non c’era più tempo. Doveva bloccarla dentro, almeno finché Elynar non avesse tolto il morto.
Si maledisse. Perché proprio ora doveva andare tutto storto?
Finì di aprire la porta ed entrò nella stanza, chiudendola immediatamente dietro di sé e spingendoci Kendra contro. Ora la donna dava le spalle alla porta, e il Veggente la bloccava tenendola per le braccia, il suo viso a pochi centimetri dal suo. Pregò che non avesse visto niente, aveva tentato di fare tutto con la velocità di un fulmine.
La camera era stranamente buia, solo un filo di luce proveniente dalla piccola finestra schiariva i contorni delle cose. Riusciva a distinguere i riccioli che cadevano morbidi sul volto della Sacerdotessa, i suoi occhi che riflettevano pagliuzze dorate nonostante lui le facesse ombra. Vedeva le sue labbra rosse aprirsi in un sospiro di stupore, e formulare parole inespresse. Sentiva il suo petto, schiacciato contro il suo, alzarsi ed abbassarsi in respiri lievi.
Doveva trovare una soluzione per giustificare la sua presenza lì, ma nulla gli veniva in mente. La sua calma glaciale adesso vacillava, di fronte a una donna, per di più. Se fosse stato in guerra, o in pericolo di morte, avrebbe di certo affrontato tutto, senza esitazioni. Ma adesso…
“Che cosa vuoi?” Kendra era riuscita a vincere la sorpresa, e ora la sua voce tagliente andava ad occupare il silenzio di quei pochi attimi. Non so che cosa voglio, non lo so! Avrebbe voluto risponderle l’uomo.
Ma non ebbe tempo per rimuginarci su, perché un forte scossone distrasse entrambi. Alcuni calcinacci caddero dal soffitto basso, e il lampadario spento oscillava stridendo. Kendra corse prontamente alla finestra, e affacciandosi da quel piccolo pertugio scorse dei caccia sorvolare la città, sfiorando i grattacieli e abbassandosi per gettare quelle che avevano tutto l’aspetto di essere bombe. Il sole riluceva sui vetri oscurati degli aerei, mentre essi si muovevano in cerchi concentrici sopra l’esteso agglomerato urbano, quasi mirando con precisione a luoghi scelti, avvoltoi beffardi, platea del delitto.
“Vieni via di lì!” esclamò il Veggente tirandola a sé. Si accovacciò in un angolo, la donna stretta fra le braccia, cercando solo di proteggerla ogni qual volta pezzi di soffitto cadevano loro addosso. Il sibilare dei motori dei caccia rimbombava lugubre, e le esplosioni si susseguivano a ritmo serrato. Dalla strada si sentivano alcuni allarmi urlare il loro ripetitivo segnale.
Nella stanza si era formato un cumulo di polvere grigiastra che si cullava placido nell’aria, scuotendosi all’impatto di nuovi attacchi e prendendo direzioni impossibili. Tutto sommato, la struttura reggeva bene, ma forse era solo perché l’obiettivo degli aerei bombardieri era ben diverso. Infatti abbandonarono velocemente la zona, una toccata e fuga eclatante, poiché l’atmosfera ritornò calma in un baleno.
Il corpo di Kendra che si muoveva sotto di lui lo riscosse, e il Veggente tornò in piedi, scrollandosi i detriti di dosso. Pareva stessero entrambi bene, anche se dopo qualche secondo si accorse di un forte dolore al labbro, e il sapore del sangue mischiatosi alla saliva. Un piccolo taglio solcava le sue labbra, all’angolo della bocca, formando una piega tetra sul suo volto scuro.
“Ma che cosa vi prende a tutti oggi?” Kendra, stizzita, lo scostò malamente e si diresse alla porta. Uscì dalla stanza a passo deciso, senza voltarsi a guardare il caos che vi regnava.
Il Veggente si passò un mano sul taglio e sorrise, compiaciuto. Elynar aveva tolto il cadavere.


Ah, e trovatemi un titolo per la storia! Che ne dite di "Anime Nere"? Nell'incertezza... ^^
martedì 1 dicembre 2009

PostHeaderIcon Omaggio alla musica


Se si potesse solo rivivere, ammirare ancora una volta il cielo splendente.

Se solo fossi in grado di guardare nei tuoi occhi,

saprei che un piano suona dolci note, srotolando scale di tasti…

e mano per mano, appigliandoci al corrimano di stelle,

raggiungere la volta di violini, che muovono nel loro triste sonetto.

Una nota – che sia un sol, un fa, un si diesis –

Che possa riavvicinare i nostri cuori, riappacificare le distanze,

unire i mari per un oceano di malinconici desideri.

E sulla balconata, ove graziose colonne sorreggono questo notturno,

giurami il non abbandono, trattienimi nell’infinito.

Come un guanto da infilare piano, le dita che vibrano al contatto con la soffice neve;

come una serenata alla luna nelle notti di nubi, dove si chiede di affacciarsi, e illuminare la via.

Se solo si potesse creare armonia nell’universo che tuona,

una canzone, capace di capovolgere lo spiacevole dramma.

Una fenice solca questo pentagramma,

cantando voci di chi non ha paura, e di chi ne ha tanta ma non lo dimostra.

Se solo tu potessi farmi rivivere ancora

Quella libertà, quella gioia, che altro non è che flebile musica:

battute di una danza sublime che si svolge nell’orchestra del presente,

crescendo di una ballata dell’assurdo,

ombra,

reminiscenza.


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