PostHeaderIcon Il Tyrsek

Due figure ammantate procedevano lente fra le dune del deserto. I loro corpi erano leggermente piegati, e il vento sferzava il loro viso. Flebili orme segnavano il loro percorso, subito cancellato dalla sabbia depositata dall’aria gelida. La volta celeste era buia come l’oceano invernale, l’orizzonte ornato da curvi cumuli di rena, appena distinguibili nella tempesta. I granelli scintillavano, nonostante non ci fosse nessuna fonte di luce, di un verde fosforescente. Tutto il paesaggio riluceva di quei colori spettrali e al contempo mistici.
E le due ombre, macchie indefinite nella desolazione, proseguivano imperterrite.
“Keren’hir non è mai stata così spenta…” bisbigliò uno dei viaggiatori, con una soave voce femminile coperta dal mantello avvolto attorno alla bocca. “Ma, guarda, la rena splende ancora.” Rispose l’altro, con lo stesso tono sommesso, appena udibile. Erano uomo e donna, i due viandanti sperduti.
“Sei ancora sicuro che funzioni? Sono giorni che camminiamo, e il tempio non è ancora in vista.” Riprese la donna.
“A volte sottovaluti con chi hai a che fare, Kendra. Non è ciò che sembra. O, almeno, Keren’hir non lo è.” L’uomo fece un gesto di stizza, ma non aggiunse altro.
“Stai forse insinuando che il tempio sia sotto i nostri piedi, o, peggio ancora, a un palmo dalle nostre mani? E noi non siamo capaci di vederlo perché questo stupido pianeta non ce lo permette?” Infuriata, l’ombra di nome Kendra accelerò il passo, come se il vento la stesse inseguendo rabbioso.
“Prova a farti accettare, e forse anche le stelle torneranno a splendere. Oggi è buio. Non vedo nemmeno le nove lune nere…” e l’uomo alzò lo sguardo al cielo, assorto, dimentico delle folate che si abbattevano violente sul suo volto.
“E lo capisco, che non le vedi, Veggente, con questa oscurità sarebbe impossibile riconoscere qualcosa a un palmo dal mio naso, figurati le tue lune tenebrose a cui piace tanto giocare a nascondino…” quindi la donna proruppe in una breve risata acuta, zittita subito dal suo compagno. “Taci, idiota.” Lei lo guardò irritata. “Pensa piuttosto a controllare il Tyrsek.” Più parlava, più il tono del Veggente si faceva distaccato. Ormai i due non camminavano più.
“Sì, Signore.” Rispose Kendra, questa volta sottomissiva, prendendo da sotto il mantello qualcosa dai riflessi dorati. Si trattava di un oggetto piatto, dallo spessore di due centimetri circa, caratterizzato da un semicerchio d’oro inciso di rune lucenti. Al suo interno un cerchio blu scuro, punteggiato di brillanti. La donna fece scorrere il disco verso sinistra, mostrando un pannello nascosto, una pellicola quasi trasparente sui toni del grigio. Lo puntò verso l’alto. Attraverso il piccolo schermo, invece di scorgervi il cielo scuro, si accesero numerosi puntini aurei, bianchi e luminosi, con varie sfumature di diversi colori. Affianco ad ogni punto, si stavano formando minute scritte, che come nastri d’oro si intersecavano a formare nomi e coordinate di stelle e pianeti.
“Veggente…” ma la donna non seppe proseguire, la voce repressa da un gemito compiaciuto.
“Siamo sotto Deneb, non è così?” proseguì al suo posto l’uomo, accennando a un sorriso da sotto il cappuccio. “Allora credo che il tempio stia solo aspettando il momento giusto per mostrarsi.” E così dicendo si sedette fra la sabbia, come aspettando qualcosa, e dando l’impressione che ciò che attendeva si sarebbe fatto desiderare per molto tempo ancora.
Kendra si era addormentata quando ormai le prime stelle illuminarono il cielo, schiarendo di poco il buio circostante. “Svegliati, Kendra.” Disse il Veggente, scuotendola. Era rimasto seduto a gambe incrociate, in meditazione. “Keren’hir ci ha finalmente accettati.”
La donna aprì gli occhi giusto quando un nastro d’oscurità scese da una luna nera e avvolse le dune verdi che li circondavano, prendendo la forma di un altare d’ebano, scarno e privo di decorazioni, sulla cui cima sostava un oggetto ricoperto da un panno, nero anch’esso.
Le due figure si alzarono lentamente, accelerarono il respiro, stupite. La terra vibrava leggermente sotto i loro piedi, alzando cumuli di sabbia. Il Veggente scostò lentamente il drappo di seta…

Una luce li travolse. Furono scaraventati pochi metri più in là, mentre il tremore che scuoteva il pianeta si faceva sempre più insistente. I due si guardarono intorno spaesati. L’altare era circondato da un bagliore rossastro, che impediva loro di vedere l’oggetto posto al suo interno. Il panno di seta giaceva scuro sulla rena, e veniva pian piano sommerso dai granelli di sabbia scossi da quel terremoto perenne. “C’è qualcosa che non va” mormorò il Veggente con voce spezzata. Stare in piedi era impossibile, il tutto tremava costantemente. Solo l’altare rimaneva immobile nel suo tenue splendore.
Gli attimi trascorrevano densi, e le menti dei viaggiatori correvano veloci alla ricerca di una via d’uscita. Per un istante il tremore cessò, e i due ebbero il tempo di rialzarsi. Il silenzio regnava sovrano, nascondendo qualcosa in agguato.
All’improvviso le dune parvero rinchiudersi su sé stesse, attirate da una forza oscura, mentre la sabbia veniva aspirata in profondità. La terra ricominciò a tremare, e dalle voragini s’innalzarono alture di smeraldo puro e tetro, dalla forma di piramidi capovolte, con numerosi spuntoni ai lati. I viandanti vennero risucchiati verso i gorghi, ma riuscirono comunque a inerpicarsi sulle colonne di pietra. I bordi erano taglienti, e le superfici lisce e levigate. Un solo passo falso e avrebbero potuto ricadere nell’abisso in continuo movimento, che adesso scorreva come fiume verso le fenditure apertesi nel terreno.
Kendra respirava a scatti, il petto che si alzava irregolare. Mai nella sua vita aveva immaginato un luogo così irreale, quasi fantastico, eppure adesso le si presentava così, nella sua più struggente e fatale bellezza. Afferrava gli appigli che trovava, incurante del tagli alle mani che avevano preso a sanguinare copiosamente. Il mantello le si impigliò su una sporgenza appuntita. Fece per liberarsi, ma la stoffa si aprì in un lungo squarcio, lasciando scivolare un oggetto appeso a una sottile catenina dorata.
La donna proruppe in un grido. La loro ultima speranza di ritrovare la via era svanita, se l’era fatta sfuggire dalle mani… ma forse non tutto era perduto. Un lieve luccichio proveniva da qualche metro più in basso. Kendra cominciò la discesa e riafferrò il Tyrsek. Non aveva tempo per controllare se fosse ancora intatto, così lo cacciò nella sacca che portava a tracolla e riprese la sua dura inerpicata.
Il Veggente attendeva sulla cima dell’altura che gli aveva quasi salvato la vita. Si trattava di un quadrato liscio, di un verde bottiglia che non rifletteva nulla. Il terremoto si stava lentamente calmando. L’uomo di guardò intorno, supplicando mentalmente Keren’hir di lasciarli andare: in fondo, erano solo profughi alla ricerca di un bene perduto; sì, certo, i loro scopi non erano dei più puri, ma forse meritavano ancora una possibilità per riscattarsi.
Da quell’altezza aveva un’ottima visuale della distruzione che lo circondava. Non v’era più nemmeno il ricordo di quel manto fosforescente che era stato Keren’hir. Gli smeraldi enormi troneggiavano cupi sul paesaggio. Nel fondo, fra gli stretti sentieri che distanziavano le alture, vi erano numerose crepe e baratri che impedivano il passaggio. Lontano, si intravedeva, velato, l’altare, immutato. Sulla sua destra scorse la sua compagna, anche lei ferma a osservare i dintorni, intenta a metà della scalata. Le fece cenno di cominciare a scendere, e lei rispose con un deciso cenno del capo.
Entrambi erano all’oscuro delle motivazioni di tutto ciò. Cosa era accaduto? Ma, soprattutto, perché? Il pianeta stava forse giocando con loro? Se era davvero così, allora li aspettava il gioco più duro che avessero mai intrapreso nella loro breve vita. Solo una cosa era certa: la caccia era ricominciata.

“Hai ancora intenzione di recuperare… quel coso?” disse Kendra, appena raggiunse il suo compagno. “Le tue parole sono sempre fuori luogo. Ebbene sì, credo non abbiamo scelta.” Rispose il Veggente, in un sospiro gravoso. “Fammi vedere le mani” aggiunse poi.
La donna mostrò i palmi insanguinati, distogliendo lo sguardo. La pelle era aperta in più punti, coperta da strati di sangue rappreso, mentre filamenti rossastri si erano seccati nelle venature del palmo. Della pelle ambrata della donna si vedeva ben poco. Il Veggente estrasse dalla sacca una borraccia d’acqua, semivuota. “Ma sei pazzo? Qui non c’è nemmeno una fonte, niente, e tu vuoi sprecare gli ultimi sorsi così? In fondo non sono gravi.” Sbottò Kendra, ritirando le mani dalla sua presa. Il suo spirito di contraddizione si faceva vedere anche qui, nonostante tutte le difficoltà il suo carattere scontroso e lunatico non era ancora sopito. In fondo era una buona donna, e un’ottima Vestale. Se non fosse stato per questo, l’uomo non l’avrebbe mai scelta come alleata.
“Eravamo d’accordo che avrei deciso io. Se non ti lasci curare le ferite si infetteranno, e allora diventerà veramente inutile proseguire.” Quindi la donna si mostrò più accondiscendente; non voleva farsi sottomettere, ma al contempo comprendeva la gravità della situazione. Il Veggente sfruttò il minimo d’acqua per lavare il sangue rappreso, poi strappò alcune strisce dal mantello già logoro di Kendra, e coprì le ferite.
Mentre si accingevano a riprendere il cammino per avvicinarsi nuovamente al tempio, Kendra si decise a parlare. “Signore, dovrei dirvi una cosa.” Mormorò, più gentile del normale. “Parla” rispose l’altro. “Durante il terremoto, quando mi arrampicavo… io… ecco… mi è caduto il Tyrsek. Però l’ho recuperato subito, adesso è con me.” E così dicendo estrasse l’oggetto dalla bisaccia. “Solo che non sono in grado di verificare se sia ancora intatto.” Aggiunse, preoccupata sia per il manufatto prezioso che per la reazione del compagno. Il Veggente rimase impassibile; muto, prese il Tyrsek dalle mani della donna e aprì lo scomparto nascosto. Numerose venature estranee intaccavano la pellicola grigiastra. Lo puntò al cielo. Comparirono alcuni punti, qualche scritta, ma nello schermo erano evidenti i vuoti enormi nelle prossimità dei graffi. “Si è rotto.” Constatò il Veggente, atono, senza manifestare rabbia o rammarico. “Mancano numerose stelle, e i pianeti sono invisibili. Però non tutto è andato a male. Ringrazia il fato se con le mie conoscenze astronomiche riusciremo lo stesso a capirci qualcosa.” E così riprese a camminare, attento ad aggirare gli abissi e i sentieri pericolosi. Non restituì la bussola celeste, bensì la tenne stretta nella mano avvolta da uno spesso guanto di pelle. Non aveva mostrato la sua collera per il semplice fatto che sarebbe stato del tutto inutile, in una situazione così era ovvio cercare di evitare ogni minima discussione, e quindi andare avanti verso la meta in ogni caso.
Raggiunsero nuovamente l’altare. Restarono alcuni secondi a contemplarlo: pareva invitarli a fare un altro passo falso, un altro ancora, così da poter porre fine alle loro vite. Ma i viandanti non si sarebbero arresi così presto. “Che facciamo?” chiese Kendra. “Sinceramente, non lo so” e così il Veggente si sedette sulla terra brulla, entrando in meditazione.
“Ti sembra questo il momento per dormire?” disse la donna dopo un po’, guardandolo di sottecchi. “Forse è ora che cominci a calmarti, signorina. Fino adesso ho tollerato il tuo comportamento, ma a quanto pare non ti sei accorta che per tutto il tempo sei stata d’intralcio. Ora, fa qualcosa di utile. Fammi vedere che hai portato con te.” Gli rispose a tono l’uomo.
Kendra obbedì. Svuotò di malagrazia il contenuto della borsa: una sacca di tela che conteneva il cibo, due borracce d’acqua e una più piccola contenente un liquido dai poteri curativi, un grimaldello, quattro cerchi di onice di diverse dimensioni e una pietra bianca levigata di dubbio uso. Il Veggente prese questi ultimi, e gli osservò nella scarsa luce riflessa dagli smeraldi. Era un sortilegio comune, spesso influenzato dal Sacerdote che imponeva l’incantesimo, che quasi certamente non avrebbe funzionato. Ma ormai era agli sgoccioli, e anche la sola speranza di una riuscita era capace di rianimarlo. Quindi posò i quattro cerchi uno all’interno dell’altro, esattamente di fronte all’altare. Poggiò la pietra sopra di essi e attese. I cerchi levitarono lentamente, assorbendo la luce rossastra emanata dal piccolo tempio, trascinando con sé anche la pietra. Questa prese a brillare lievemente, per poi mandare una luce tale da impedirne la vista. I bagliori erano vermigli con sfumature bianche, e scendeva lentamente, tanto che sembrò che i cerchi si stessero pian piano riportando a terra. Tutto tornò come prima, tranne che al posto della pietra adesso giaceva qualcos’altro… “Visto che dei miei sortilegi non si può mai dubitare?” esclamò Kendra, sentendosi finalmente riscattata.

L’incantesimo di scambio aveva sortito il giusto effetto. Ora la pietra bianca giaceva apparentemente innocua sopra l’altare, mentre l’oggetto, liberato dalle maledizioni poste a difesa del tempio, era posato sui cerchi d’onice. Si trattava di una rosa di cristallo, con uno stelo adamantino irto di spine, e i petali vorticanti quasi fossero liquidi. Dalle spine stillavano piccole gocce rossastre che appena toccavano terra si diradavano in volute di fumo. I due viaggiatori esitavano a prendere la rosa, ben consci dei suoi poteri oscuri.
Keren’hir non è sempre stato un pianeta disabitato. Dapprima era un continuo di selve e savane, in cui si svilupparono esseri simili a rettili, enormi serpenti pieni di aculei e talvolta provvisti di ali membranose. Nella loro evoluzione presero ad adorare –o quantomeno a proteggere- l’unico roseto del pianeta, cresciuto esattamente nella congiunzione astrale delle nove lune nere, sotto la splendente Deneb. Nei suoi pressi non vi erano fonti d’acqua, perciò produceva solo una rosa l’anno, delle più belle, ogni volta di un colore diverso. I rettili erano usi definire i periodi della loro storia con il nome della varietà di rose nata quell’anno. Quindi vi furono le dodici guerre della rosa tea, e la lunga Pace della rosa blu, durata addirittura tre cicli. Finché non venne l’era della rosa rossa, l’Immortale, e vi fu morte per ogni cosa. La rosa si nutriva della linfa delle piante del pianeta, e i rettili, non trovando cibo, presero a divorarsi fra loro. Quando la terra diventò un deserto di desolazione, semicosparso di alberi secchi e sterpaglie che si polverizzavano ad ogni minima folata di vento, l’Immortale era l’unica pianta rimasta. I pochi rettili superstiti tentarono l’impossibile, ruppero il culto che avevano proclamato per intere generazioni. Attaccarono la rosa in piccoli gruppi, per nutrirsi della linfa vitale che essa serbava in sé e per distruggerla, ma nessuna sortita uscì vittoriosa. Appena i rettili si avvicinavano al rovo, perivano inspiegabilmente, e la rosa diventava pian piano più grande, e più fatalmente bella.
Gli abitanti di Keren’hir entrarono nella disperazione; decimati, comprendevano la loro inevitabile fine. D’altro canto, la rosa divorava anche i clan più lontani –e le fu facile, perché Keren’hir è un pianeta di piccole dimensioni-, mai sazia nella sua sete di sangue. Perché era di ciò che si nutriva: le sue vittime morivano dissanguate dall’interno, quasi prosciugate e senza lasciare segni visibili delle cause, se non i loro corpi pallidi e flosci; mentre lei gioiva nell’immergersi in quel liquido scuro.
Nelle ere successive, la fine di Keren’hir fu nota anche ai pianeti vicini. Si sa che, nell’immensità dello spazio, le informazioni, così come la luce, faticano a propagarsi. Quando alcuni stregoni sopraggiunsero per salvare il pianeta, ormai non vi era più speranza. Protetti da sortilegi oscuri, sigillarono il potere dell’Immortale per evitare che allungasse le sue dita bramose sulle altre popolazioni, recidendo il rovo che la proteggeva e posandola su un altare d’ebano. Occultarono l’altare e maledissero il pianeta: se su Keren’hir non ci poteva essere più vita, allora nessun’altro avrebbe dovuto percorrere quei territori, né tentare di recuperare colei che definirono la Rosa di Sangue.
Così narrano le leggende, ma mai fino ad allora qualcuno aveva creduto all’esistenza di tale abominio, seppure evitavano di sostare sul pianeta, e chiamavano la desolazione di Keren’hir un semplice scherzo del destino.
Il Veggente raccolse la rosa con la mano coperta dal guanto. Se la sottometteva al suo volere, avrebbe potuto distruggere un intero esercito in pochi minuti, osservando la scena da lontano. Ma non era quello il suo scopo, e la rosa doveva rimanere sigillata per altro tempo ancora. “Su, Kendra, torniamo a casa.” disse, dirigendosi verso un sentiero che conduceva a nord.

“Si è chiuso!” disse Kendra, sconvolta. Non smetteva di voltarsi intorno alla ricerca di qualcosa. “Non è possibile…” riprese la donna. Il Veggente la interruppe: “Calmati, sarà pure da qualche parte. Forse nel terremoto si è spostato.” Ma Kendra non ascoltò le parole dell’uomo. Si era fermata sulla soglia di un precipizio, e guardava l’abisso con occhi terrorizzati. “Ah, bene.” Disse il Veggente, raggiungendola.
Nel baratro riluceva un ovale ceruleo, dai contorni poco definiti, sospeso a mezz’aria: un varco spazio-temporale. Il principio su cui si basava per funzionare era semplice, connubio fra scienza e magia, al suo interno annullava il tempo e lo spazio permettendo agli uomini di spostarsi per lunghe distanze. Una volta entrati nel varco era necessario visualizzare la destinazione, altrimenti sarebbe stato come passare da una porta che ti riconduce alla stessa stanza. Per i novizi ciò avveniva spesso, perché le visualizzazioni non erano ancora abbastanza potenti, ma il meccanismo di per sé difficilmente falliva. Quindi erano stati creati diversi varchi, alcuni perenni, altri con una determinata durata, altri ancora che duravano solo il tempo di un viaggio.
La preoccupazione della donna era dovuta ai suoi problemi di visualizzazione, e anche al fatto che aveva un solo tentativo a disposizione. “Andiamo in due” disse il Veggente. Kendra lo guardò, confortandosi alla vista del suo volto deciso. Si presero per mano, arretrarono di qualche passo, e poi si lanciarono nel vuoto.
Kendra chiuse gli occhi e strinse forte la mano del compagno, incurante delle ferite. La caduta sembrava infinita, un attimo che dura un’eternità. I mantelli volteggiavano sopra le loro teste in una danza di onde. L’impatto con la barriera del varco fu come scivolare su uno spesso strato di bolle. “Ti prego, ti prego, ti prego…” bisbigliò la donna, prima di sentire il suo corpo toccare il pavimento freddo.

“Codice Dem0971R.”
“Cosa?”
“Una Sam-rjah.” Il silenzio scese cupo fra loro.
Tre figure sostavano in un ambiente asettico annesso alla stanza dove Kendra e il Veggente erano apparsi. La visualizzazione era avvenuta perfettamente, e la coppia non aveva perso tempo per mettersi al lavoro. Un bianco abbacinante dominava il luogo dal soffitto alto. Al centro vi erano numerosi macchinari e monitor di svariate dimensioni, da cui proveniva un ronzio sommesso. Un giovane uomo li controllava tutti dalla sua postazione, sotto l’occhio attento dei viandanti.
La rosa galleggiava in una teca trasparente; attorno alla sua superficie vorticavano filamenti azzurrini, scariche elettriche dalla forma mutevole di saette. Su uno schermo comparivano scritte e codici a ritmo sostenuto, intanto che la sagoma tridimensionale di un mostro si delineava pian piano sullo sfondo nero. Aveva parvenze di donna, con lunghi artigli che si propagavano dalla pelle scarlatta. Due corna taurine spuntavano dal capo ricoperto da una fitta peluria nera. Occhi vitrei, senza sguardo, e lunghe zanne che si allungavano dalla bocca, piccola e suadente. Le labbra erano carnose, piene, assetate di sangue.
“Potevi dirlo subito di cosa si trattava!” sbottò Kendra, incrociando le braccia. “Che senso ha tutta quella sfilza di numeri e lettere? È una Sam-rjah, e questo basta.” Aggiunse, avvicinando il volto alla rosa, che circondata da quella gabbia d’energia pareva ancora più eterea, e fragile. “Letale”, pensò la donna, storcendo lievemente il naso.
“I codici sono informazioni essenziali per individuare il corpo intrappolato nell’oggetto da analizzare. Sappiamo ora che si tratta di un demone, precisamente la 971a specie catalogata.” L’uomo posto a comando degli strumenti elettronici prese a snocciolare varie informazioni, noncurante della poca attenzione ricevuta. Indossava una lunga veste dorata, che contraddiceva con la folta chioma di un colore adamantino dai riflessi cerulei. Capelli che quasi toccavano terra, e che non avevano mai incontrato la luce del sole. “E sappiamo anche che si tratta di un codice rosso, ovvero…”
“Che dobbiamo procedere con la massima cautela.” Concluse Kendra al suo posto.
Il Veggente era rimasto tutto il tempo discosto, ad osservare la scena. La sua mente lavorava febbrilmente, gli occhi percorsi da impercettibili guizzi. “Ci puoi dire qualcos’altro sulle Sam-rjah?” chiese d’un tratto.
“Oltre a quello che sapete già? No, null’altro.” Rispose l’uomo, quasi trattenendosi dall’aggiungere le sue perplessità.
Lo schermo che circondava la rosa si fece più sottile, per poi dileguarsi. Il fiore ora appariva indifeso, adagiato sul tavolo come in attesa di una ragazza che l’avrebbe posto con cura in un vaso colmo d’acqua, e che l’avrebbe ricordato dono di un amore ingenuo. “Letale”, pensò il Veggente, mentre un’ombra scura sfiorava il suo sguardo di ghiaccio.

Kendra si era lasciata trascinare dal suo compagno di viaggio in una stanza attigua, abbandonando così quella sorta di laboratorio e l’uomo che vi albergava. Il nuovo ambiente appariva più sobrio: impiantito nero, soffitto basso e cosparso di appigli, pareti ricoperte da lunghi scaffali di libri e armadi chiusi da lucchetti. Non c’era bisogno di illuminazione, perché tutto il versante rivolto a est era fatto di finestre di vetro spesso. Quel lato, dalla forma semicircolare, mostrava un cielo limpido ma spento, dai toni grigiastri. Si dovevano trovare molto in alto, perché non v’erano altri edifici in vista.
Se la prima camera era moderna, tecnologica, innovativa, questa conservava l’austerità tipica dei monasteri medievali. Il contrasto con la precedente lasciava il dubbio di aver attraversato un altro varco spazio-temporale, invece di una semplice porta.
“Cosa c’è?” chiese Kendra, cercando di spingere il Veggente a parlare.
“Forse non ti rendi conto che la questione è molto più grave di quanto ci aspettavamo. Non abbiamo a che fare con un oggetto dotato di poteri, o semplicemente maledetto. In questa rosa c’è un demone, che ha sfruttato le condizioni di Keren’hir a suo vantaggio, per poi rimanere intrappolato all’interno del fiore quando gli stregoni ne hanno circoscritto il raggio d’azione. Al momento è solo assopito, ma non sconfitto. E soprattutto ci vuole molto per sottomettere un demone al nostro volere, al contrario se avessimo trovato una pianta che agiva di sua spontanea volontà.” Disse il Veggente, guardando di sottecchi la donna. Kendra non proferì verbo, preferendo che l’uomo continuasse con le sue considerazioni. “Devo parlare con la Sam-rjah.” Aggiunse dopo. La donna fece per ribattere, ma fu fermata da un gesto del Veggente. “È l’unica soluzione che abbiamo per sfruttare questo suo potere, che al momento ci serve più di ogni altra cosa. Libererai il demone, ma dovrai imporgli un sortilegio immobilizzante per tutto il tempo di cui avrò bisogno.”
“E tu che farai?”
“Io parlerò con la Sam-rjah e la farò scendere a compromessi. Chissà da quanto tempo non si nutre… Hai mezz’ora di tempo per preparare il rituale, poi ti raggiungerò e procederemo come stabilito.” Concluse l’uomo, prima di voltarsi e lasciare Kendra da sola.

Se si affacciava a una delle numerose aperture e volgeva lo sguardo verso il basso, Kendra poteva osservare una città capillare che si estendeva fino all’orizzonte, fatta di rovine antiche, edifici recenti e templi tirati a lucido. Un assemblaggio in cui si faticava a trovare un nesso, un luogo dove tutte le epoche si congiungevano per crearne una nuova, forse più potente e maestra, in cui scegliere quando e come vivere. Ma l’aspetto non scusava le dure regole di quel posto, terra martoriata da secoli di incomprensioni, in cui il rigido principio della libertà individuale si era fatto strada nel tempo, accompagnato da leggi ancor più assurde che dichiaravano il possesso dei primogeniti allo Stato. Una confusione totale, intrico dei problemi dell’uomo; una matassa in cui potevi solo affogare, e mai emergere. Questo Kendra lo sapeva bene.
Per lo sviluppo dell’umanità era stata sancita una norma, inflessibile: i primogeniti erano figli assoluti della scienza e della magia, e fin da piccoli sarebbero cresciuti compenetrandosi con esse. I maschi venivano rinchiusi in roccaforti di ferro, dove imparavano a distillare soluzioni e creare armi, o semplicemente a maneggiare la tecnologia ed amarla. Le femmine venivano portate ai templi d’oro, dove apprendevano magie e sortilegi, maledizioni, pozioni e tutto ciò che la scienza non avrebbe potuto fare. Si sperava che queste due fazioni, collaborando insieme, creassero un connubio perfetto che avrebbe svelato i misteri dell’uomo. E così era stato.
Questa regola vigeva da poco, e non vi erano Sacerdotesse o Luminari (così venivano definiti i giovani) che superavano i trent’anni di età. La Legge veniva considerata come tale, e non vi erano mai state proteste di alcun genere. I primogeniti venivano istruiti all’interno delle rispettive Accademie, e non avevano possibilità di conoscere realtà ulteriori da mettere a confronto. I genitori, d’altro canto, fornivano di spontanea volontà i figli; la maggior parte rifiutava di incontrarli in seguito, come dimenticandoli, obliando il loro ricordo.
Kendra soffermò il suo sguardo su un tempio leggermente rialzato, avvolto da un’aura di potere. Riluceva di riflessi aurei, e il suo aspetto rimandava all’epoca classica, millenni orsono. Ghirigori argentati percorrevano le austere colonne, come acqua che scorre sul corpo di una ninfa, la dolcezza della seta che scivola dalle mani.
Lì la donna aveva trascorso i suoi primi diciotto anni di vita, ma la facciata dolce del tempio fungeva da anticamera all’inferno; sotto la collina vi erano corridoi e caverne umide, le ragazze erano costrette a passare le notti in piccoli anfratti, a volte anche privi di sbocchi all’esterno. D’altra parte, alle Sacerdotesse, seppur novizie o prossime al congedo, era concesso il libero accesso a ogni stanza, e non di rado avevano ore da trascorrere in giro per la città o da dedicare alla cura personale. Nella comunità magica erano usi esserci tali contrasti, le privazioni venivano puntualmente mitigate con piccole possibilità di svago. Era come accontentare un bambino orfano con un giocattolo: l’ingenuità del momento poteva farti credere che fosse un buon gesto, ma poi tutto ritornava uguale a prima, o forse ancora peggio.
Non si poteva decidere il proprio destino lavorativo: dopo gli anni di addestramento alla magia, esercitavi le pratiche da Sacerdotessa come un mercenario assoldato al peggiore dei nemici, con le varie parti che si disputavano la maga migliore. Alcuni gruppi di ragazze venivano spedite a lavorare con i Luminari, altre sceglievano liberamente come impiegare il loro potenziale magico. Lei era stata reclutata dal Veggente. Un puro caso, visto che non andavano per niente d’accordo.
Erano questi i pensieri che le attraversavano la mente, vecchie reminescenze del passato che ogni tanto facevano capolino dall’antro dei suoi ricordi.
Si voltò di scatto, dirigendosi a uno degli armadi accostati alle pareti. Non valeva la pena perdere tempo inutilmente. Ancora una volta il suo lavoro la chiamava, e ancora una volta non poteva che assecondarlo.

“Elynar, tu sei un Luminare, giusto?” il Veggente misurava a grandi passi la stanza, i tonfi della sua silenziosa marcia coperti dal fischiare delle macchine.
“Rinnegato, ma pur sempre un Luminare.” Affermò l’altro, annuendo.
“Bene” rispose il Veggente. Si teneva il mento con la mano, il cappuccio calato che lasciava scoperti i suoi capelli castani. “Dobbiamo trovare un modo -uno scudo, qualsiasi cosa- per bloccare il potere della Sam-rjah. Se Kendra riesce a liberarla, non sarà capace di controllarla a lungo.”
“Di quel che si dice in giro è una Sacerdotessa con grandi doti.” Disse Elynar, osservando di sottecchi il Veggente.
“Sì, ma lo stesso non all’altezza di un demone. Hai qualche idea?” L’uomo si fermò, aspettando che il Luminare reietto parlasse. Passò qualche minuto, in cui Elynar trafficò con i monitor che circondavano la sua postazione. Poi disse: “Si potrebbe creare un campo elettromagnetico attorno alla Sam-rjah. Però in tal caso dovrà essere liberata in questa stanza, e il rituale che la evocherà dovrà essere effettuato a scudo attivo.”
“Questo significa che Kendra si troverà all’interno…” constatò il Veggente.
“E dovrà rimanerci finché non troveremo un accordo. Anche se non credo che il demone le darà una buona accoglienza.”

La donna rovistava spasmodicamente negli armadi, usciva libri dalle teche per poi gettarli a terra. “Maledizione!” Imprecò. Non era facile trovare ciò che cercava, e per di più il Veggente le aveva dato solo mezz’ora di tempo. Finalmente, sullo scaffale più alto di una libreria logora, vide la pergamena che le serviva. Era un manoscritto piuttosto rovinato, che doveva avere molti anni, come tutti i libri di magia del resto. Nella scrittura fitta c’erano tutte le istruzioni necessarie per sciogliere i sortilegi che potevano relegare un demone in un corpo inanimato.
Kendra estrasse delle candele nere da un armadio, mentre da un altro prese una sorta di tovaglia quadrata di feltro, con inciso sopra un pentacolo. Ordinò su un tavolino tutta l’attrezzatura che le serviva, comprese alcune boccette contenenti polveri colorate. Fu quando stava per predisporre tutto al centro della stanza che il Veggente entrò, senza bussare.
“Prendi le tue cose, farai il rituale nel laboratorio di Elynar.” Disse con voce impassibile.
“Perché?” chiese la donna, rimanendo immobile, le cinque candele strette fra le braccia. “C’è un modo per limitare il potere della Sam-rjah senza che tu sprechi i tuoi poteri, però per farlo abbiamo bisogno delle macchine nell’altra stanza. Seguimi ” e detto questo il Veggente prese alcuni oggetti per aiutarla e si diresse da dove era entrato. Kendra gli venne dietro senza protestare: abbandonare il suo antro mistico era poca cosa contro l’ira demoniaca che avrebbe affrontato. Un aiuto in più non poteva nuocere.
Preparò l’occorrente a terra, nel luogo che il Luminare le indicava. Stese il panno con il pentacolo, la rosa al centro di esso, e a ogni punta della stella accese una candela. Le piccole volute di fumo vennero immediatamente circoncise all’interno, e formavano quasi un muro di vapore circolare attorno al drappo. Dopodiché chiese al giovane se poteva iniziare, ricevendo un limitato cenno di assenso. Contemporaneamente prese a percepire una forza estranea sempre crescente, e si accorse dell’ulteriore barriera adamantina che si era creata fra lei e il resto della stanza. La associò come lo scudo di cui aveva parlato il Veggente, e senza soffermarcisi troppo riprese il rituale. Sussurrava parole incomprensibili, e il fumo delle candele si muoveva alterno con esse. Una polvere vermiglia con dei granelli color onice fu sparsa in cerchio, poi Kendra chiuse gli occhi, le mani congiunte. Si poteva dire un rito di magia nera, tanto la donna somigliava sempre più a una strega, i tratti del volto tesi, le labbra rosse come un bocciolo di fiore stese in un ghigno. L’aria all’interno della barriera era densa, e danzava macabra al ritmo della voce della Sacerdotessa. La polvere si trasmutò in un serpente dagli occhi di sangue, fari struggenti nella notte. La serpe si avvolse su sé stessa, si strinse con spasimi e scatti angosciosi, vibrava in attesa del colpo mortale che di lì a poco sembrava avrebbe scoccato. Invece si limitò a continuare a volteggiare nell’aria, sibilando il suo odio. Con cerchi concentrici cominciò a misurare lo spazio delimitato dai ceri, spostandosi sempre più in alto e creando con il suo corpo oscuro e senza fine una colonna impenetrabile avvolta dal vapore, togliendo la rosa dalla vista.
Il tempo parve fermarsi, non si riusciva a scorgere nulla con anche una sola parvenza di movimento. Poi, all’improvviso, il serpente si dissolse e le candele si spensero, lasciando al suo posto una creatura orripilante. La rosa giaceva avvizzita ai suoi piedi, così deturpata e secca che si sarebbe trasformata in polvere anche al tocco di una bambina innocente. Benché avesse svolto il rituale seduta sul pavimento, Kendra si accasciò un attimo, con un respiro forte e affannato che le squassava il petto. Alla vista della Sam-rjah, però, si riprese subito, e senza recuperare gli occorrenti dei rituali si scagliò contro la barriera, con in mente l’unico pensiero di allontanarsi da lì il più presto possibile. Grande fu la sorpresa quando le sue mani toccarono un muro evanescente, ma invalicabile. Il Veggente sorrideva leggermente, e Kendra comprese. Era in trappola.
La mostruosità del demone, ancora confuso, contrastava con la bellezza inconcepibile del suo corpo, che richiamava le sembianze di una donna. Gli arti lunghi, con mani e piedi artigliati; il corpo sinuoso, gli occhi completamente bianchi tanto da non poter distinguere dove si dirigeva il suo sguardo. Un paio di ali diafane da pipistrello erano chiuse sulle spalle ossute. Il volto della Sam-rjah incontrò la paura impressa in quello di Kendra, che picchiettava invano sulla barriera. La donna ebbe un momento di dolore acuto, e fu prossima a cadere in terra, ma qualcosa la trattenne. Eresse a sua volta uno scudo protettivo prima che fosse troppo tardi, e così si accucciò lontano dal demone. Era stata liberata da poco, ma la Sam-rjah aveva già tentato di rimediare un po’ di sangue per il suo corpo provato da secoli di astinenza. Il suo respiro era colmo di collera repressa, usciva in rantoli raspanti come il fiato di un drago di dimensioni immani, e Kendra non si sarebbe stupita se avesse visto delle fiamme uscirle dalle narici.
La donna si era indebolita, un po’ per il rito complesso, ma anche per l’attacco a sorpresa. Abbassò per riflesso lo sguardo sul suo petto, lì dove una sottile catenina reggeva una collana dalla forma di un serpente alato dalle fauci spalancate, e che tratteneva fra le sue spire una boccetta colma di un liquido rosso. Da che ne aveva memoria, l’aveva sempre portata al collo, ma la fiala l’aveva riempita lei stessa pochi anni prima. Subito si accorse che adesso era piena solo per metà, e inveì pensando che se non fosse stata così pronta di riflessi ora ne sarebbero rimaste solo poche gocce. Quella collana era ciò che di più importante possedeva, e non poteva permettere che un insulso demone succhiasangue la rovinasse. Indusse uno sguardo eloquente al Veggente, mentre dalle mani si diramavano piccoli fulmini a protezione della Sacerdotessa.
Il demone intanto aveva raccolto la rosa da terra, e ora stringeva in pugno le sue ultime polveri. Sorrideva compiaciuto, scoprendo lunghe fauci immacolate. “Sam-rjah, ascoltami.” Proruppe all’improvviso il Veggente, mantenendo il suo solito tono che difficilmente ammetteva repliche. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto.” soggiunse. “I tuoi poteri adesso sono relegati allo scudo magnetico, ma se ci darai la tua parola d’onore rifocilleremo il tuo organismo con tutto il sangue che vorrai. Ci sono persone, al mondo, che abbiamo bisogno di eliminare senza lasciarci scoprire, e in questo la tua razza è forse la migliore, e l’unica. Se rifiuti, manderemo delle scariche elettriche all’interno dello scudo che ti uccideranno all’istante, o peggio ti rilegheremo in un altro oggetto a patire nuovamente la fame. Non hai bisogno di sapere altro, credo.”
Il demone osservava piuttosto tranquillo la stanza e le due figure oltre la barriera. I visi del Veggente e di Elynar erano rischiarati da lievi bagliori azzurrini. La Sam-rjah, immobile, sembrava ponderare la questione. Sebbene la sua razza fosse relegata in un pianeta lontano e isolato quasi da tutti gli altri, non era raro che venissero assoldati come mercenari: i loro omicidi non lasciavano tracce, di alcun genere. Inoltre il demone non poteva permettersi ulteriori riflessioni, aveva fame, una fame accecante che solo la rosa aveva potuto mantenere in vita per tutto questo tempo, oltre ogni aspettativa. Una Sam-rjah può essere uccisa solo dalla denutrizione o dall’elettricità, perché c’erano alcune sostanze nella dura corteccia della loro pelle che reagivano male alle scariche, e lasciavano deflagrare il fenomeno a una velocità esorbitante. Dopodiché erano immortali, il che le rendeva ancora più pericolose.
“E sia.” Risuonò una voce nell’aria. Le labbra del demone non si erano mosse, ma le parole erano risuonate tutte attorno e sembravano ancora rimbombare nelle menti dei tre umani. Era una voce soave, quasi malefica, che strascinava le lettere esse e produceva un eco breve ma assordante. “Portatemi il cibo.” aggiunse poi, passandosi la lingua biforcuta sulle labbra carnose.

Stormi di gabbiani si incrociavano con altrettanti gruppi di pipistrelli scuri come petrolio, e combattevano nei cieli nebbiosi della città. Numerosi i caduti che negli ultimi respiri si lasciavano trascinare dalle correnti, stillando un liquido dorato dalle ferite, che come brillanti spargeva i tetti delle case del suo luccichio blasfemo. Gli stridii degli uni incontravano i lamenti degli altri, nella battaglia dei popoli del mare contro le creature delle grotte. Lontani i tempi in cui le acque lambivano le superfici corrose delle caverne, plasmando l’unico dominio delle due razze.
I candidi gabbiani sbattevano le ali, e le loro piume volteggiavano nelle stradine sottostanti, mentre odi gregoriane scandivano il ritmo del conflitto, giunte dalle profondità dei templi sotterranei.
I pipistrelli uncinati aggredivano i nemici con i loro denti e gli artigli, lacerandone i petti, mentre rulli di tamburi e di chitarre elettriche sottostavano al canto celeste.
Lo scontro monocromatico proseguiva atono, senza vinti o vincitori, e solo una figura umana assisteva avvolta in un mantello dall’alto di un tetto, ignara che quella fosse la guerra che da anni campeggiava nel suo cuore, ormai prossimo alla deflagrazione.

Il Veggente si alzò sudato dalla branda. Ancora un altro sogno inspiegabile, forse più di tutti quelli che l’avevano preceduto. Immerse le mani nell’acqua gelida che scorreva dal rubinetto, per poi bagnarsi tutta la faccia. Si guardò allo specchio sopra il lavandino, che rifletteva la sua immagine sfocata, e constatò nuovamente il suo stato. I capelli castani erano bagnati, e più ciuffi ricadevano sulla fronte, lasciando scorrere piccole gocce d’acqua che si posavano fra le lunghe ciglia, per poi proseguire sulle guance come lacrime amare. O forse con esse si confondevano, speranzose di lavare le preoccupazioni, di lenire i dolori, di schiarire i segni scuri che circondavano gli occhi dell’uomo. Si udì un sospiro nel silenzio della camera buia.
Nella stanza attigua, Kendra si girava nel letto, incapace di cadere in un sonno privo di incubi insani.

“Dormito bene?” chiese Elynar con voce allegra, rimestando col cucchiaio il latte nella ciotola. La sua misera colazione.
Kendra sbuffò, le gambe accavallate e la sedia leggermente discosta dal tavolo, già vestita di tutto punto. Addentò una mela, e non disse altro. Di fronte a lei il Veggente la guardava sottecchi, evitando accuratamente di accennare alla notte appena trascorsa. Sembrava che in quella situazione solo il Luminare fosse capace di chiudere occhio durante la notte. “Vado a portare un po’ di sangue fresco alla Sam-rjah.” Disse il Veggente, e così dicendo lasciò il tavolo, senza aver toccato cibo.

“Perché non lo assorbi direttamente?”
L’uomo sostava appoggiato alla parete, ed osservava incuriosito il demone che succhiava il sangue da un recipiente di plastica. Piccole linee scure colavano dai lati della bocca, ma non avevano tempo di prolungarsi sul collo che già erano assorbite dalla voracità della Sam-rjah.
“Perché così c’è più gusto.” Rispose il demone, la voce cristallina e leggermente rimbombante che si confondeva con il suono gutturale del suo respiro in estasi.
Avevano deciso di rinchiuderlo in una stanza sotterranea, quadrangolare, e da cui si accedeva per mezzo di un pannello di vetro scorrevole. Le misure di sicurezza consistevano solo in una barriera elettrica prontamente eretta da Elynar, che impediva anche alla Sam-rjah di estendere i suoi poteri. Per la pericolosità della razza era strano che fin’ora si fosse mostrata così accondiscendente, Kendra aveva accennato al fatto che gli individui femmina erano di natura più propensi alle trattazioni e al ragionamento, la quasi immortalità infondeva loro una calma ulteriore che acquietava i bollori demoniaci.
“Chi devo ammazzare?” chiese d’un tratto, interrompendo i fili di pensieri del Veggente.
“Prima di tutto, una spia.” Rispose.
“Sì, ma chi? Non posso andare a succhiare il sangue a destra e a manca cercando di beccare la tua spia, anche se mietere un così consistente numero di vittime non mi spiacerebbe… ho bisogno di indicazioni.” La vena ironica della Sam-rjah e la sua impazienza gli ricordavano Kendra, entrambi due fuochi rinchiusi in altari di ghiaccio. Ciò lo fece leggermente sorridere, mentre con una mano carezzava la barba di pochi giorni, ruvida e quasi pungente al tocco.
“A questo non ci avevo pensato. Ti mando Elynar, lui ha delle registrazioni del circuito di telecamere, lì potrai vedere la tua preda. Spero ti basti.”
“Sì. E portami altro sangue.” Ogni parola del demone pareva un ordine, ma il Veggente sapeva fin troppo bene qual era il limite per giocare. Lasciò la Sam-rjah sola e andò a cercare Elynar, ignorando l’ultima richiesta che gli era stata fatta.

Le immagini scorrevano veloci, proiettate sulla parete. Una figura scura che si aggirava rapida fra gli intricati corridoi dell’edificio; completamente abbigliata di nero, si accostava alle camere, ascoltava le conversazioni, disseminava microspie agli angoli delle porte. Il demone sentiva perfettamente quell’alone di marcio che si portava dietro; benché da un semplice video non poteva dedurre altro, seppe con certezza che l’individuo che stavano cercando era ancora all’interno della struttura. Uomini, tutti uguali, avviluppati nelle loro coltri cupe che cercavano costantemente di sopraffare l’altro. Sovrastare, schiacciare, eliminare. Giochi di potere in quel pianeta ormai devastato dai suoi abitanti incauti e che si vantavano di essere rimasti incolumi ai disastri dell’universo, quando forse per primi avevano intrapreso la lunga e ardua via del degrado.
“Riesci a percepirlo?” l’uomo che le stava mostrando le pellicole aveva posto una domanda. Sciocco a dubitare di lei.
“Certo. Procedo?” voleva altro sangue. Maledetto! L’uomo di prima non l’aveva ascoltata. Il suo ventre muscoloso vibrava, sentiva le vene pulsare di quella passione effimera in attesa del cibo. Abituata a dare ordini, ora doveva sottostare a quel trio strambo che l’aveva catturata per un puro scherzo del destino.
“Vai pure.” Disse l’altro scrollando le spalle con noncuranza.
Quindi si concentrò, decisa a trovare il prima possibile la sua nuova preda. Risentì lo strano olezzo di prima, quel sapore amaro di tradimento che permeava il corpo della vittima. Ora nella sua mente di demone risuonava anche il forte battito del cuore, le ritmiche pulsazioni. Non avrebbe più avuto di che battere, povero cuore, perché ormai il sangue stava pian piano abbandonando la spia. Il liquido dolciastro prese a scendere nella gola della Sam-rjah, ancora caldo, inspiegabilmente buono.
In un’altra stanza, il Veggente osservava su un monitor la figura accasciarsi alla parete, respirare a scatti, per poi morire.

“No!” gli scappò un grido. La spia in questo momento si trovava dietro la porta della camera di Kendra. Lei era all’interno, e se fosse uscita si sarebbe trovata il suo corpo esanime ai piedi, con la pelle rinsecchita che aderiva alle ossa, la bocca aperta in un muto grido, gli occhi vitrei. Uno scheletro che si portava ancora dietro abiti, pelle, capelli e il dolore della morte. No, Kendra non sapeva nulla di tutto questo. Non sapeva della spia, e non poteva per nulla al mondo venirne a conoscenza adesso che si erano liberati di essa. Così il Veggente abbandonò la camera di sorveglianza e si allontanò correndo.
Arrivato davanti al corpo, si apprestò a prenderlo in spalla, quando sentì il chiavistello della porta girare. I secondi passavano a una lentezza unica, mentre il pomello seguitava a ruotare lentamente. Non c’era più tempo. Doveva bloccarla dentro, almeno finché Elynar non avesse tolto il morto.
Si maledisse. Perché proprio ora doveva andare tutto storto?
Finì di aprire la porta ed entrò nella stanza, chiudendola immediatamente dietro di sé e spingendoci Kendra contro. Ora la donna dava le spalle alla porta, e il Veggente la bloccava tenendola per le braccia, il suo viso a pochi centimetri dal suo. Pregò che non avesse visto niente, aveva tentato di fare tutto con la velocità di un fulmine.
La camera era stranamente buia, solo un filo di luce proveniente dalla piccola finestra schiariva i contorni delle cose. Riusciva a distinguere i riccioli che cadevano morbidi sul volto della Sacerdotessa, i suoi occhi che riflettevano pagliuzze dorate nonostante lui le facesse ombra. Vedeva le sue labbra rosse aprirsi in un sospiro di stupore, e formulare parole inespresse. Sentiva il suo petto, schiacciato contro il suo, alzarsi ed abbassarsi in respiri lievi.
Doveva trovare una soluzione per giustificare la sua presenza lì, ma nulla gli veniva in mente. La sua calma glaciale adesso vacillava, di fronte a una donna, per di più. Se fosse stato in guerra, o in pericolo di morte, avrebbe di certo affrontato tutto, senza esitazioni. Ma adesso…
“Che cosa vuoi?” Kendra era riuscita a vincere la sorpresa, e ora la sua voce tagliente andava ad occupare il silenzio di quei pochi attimi. Non so che cosa voglio, non lo so! Avrebbe voluto risponderle l’uomo.
Ma non ebbe tempo per rimuginarci su, perché un forte scossone distrasse entrambi. Alcuni calcinacci caddero dal soffitto basso, e il lampadario spento oscillava stridendo. Kendra corse prontamente alla finestra, e affacciandosi da quel piccolo pertugio scorse dei caccia sorvolare la città, sfiorando i grattacieli e abbassandosi per gettare quelle che avevano tutto l’aspetto di essere bombe. Il sole riluceva sui vetri oscurati degli aerei, mentre essi si muovevano in cerchi concentrici sopra l’esteso agglomerato urbano, quasi mirando con precisione a luoghi scelti, avvoltoi beffardi, platea del delitto.
“Vieni via di lì!” esclamò il Veggente tirandola a sé. Si accovacciò in un angolo, la donna stretta fra le braccia, cercando solo di proteggerla ogni qual volta pezzi di soffitto cadevano loro addosso. Il sibilare dei motori dei caccia rimbombava lugubre, e le esplosioni si susseguivano a ritmo serrato. Dalla strada si sentivano alcuni allarmi urlare il loro ripetitivo segnale.
Nella stanza si era formato un cumulo di polvere grigiastra che si cullava placido nell’aria, scuotendosi all’impatto di nuovi attacchi e prendendo direzioni impossibili. Tutto sommato, la struttura reggeva bene, ma forse era solo perché l’obiettivo degli aerei bombardieri era ben diverso. Infatti abbandonarono velocemente la zona, una toccata e fuga eclatante, poiché l’atmosfera ritornò calma in un baleno.
Il corpo di Kendra che si muoveva sotto di lui lo riscosse, e il Veggente tornò in piedi, scrollandosi i detriti di dosso. Pareva stessero entrambi bene, anche se dopo qualche secondo si accorse di un forte dolore al labbro, e il sapore del sangue mischiatosi alla saliva. Un piccolo taglio solcava le sue labbra, all’angolo della bocca, formando una piega tetra sul suo volto scuro.
“Ma che cosa vi prende a tutti oggi?” Kendra, stizzita, lo scostò malamente e si diresse alla porta. Uscì dalla stanza a passo deciso, senza voltarsi a guardare il caos che vi regnava.
Il Veggente si passò un mano sul taglio e sorrise, compiaciuto. Elynar aveva tolto il cadavere.

Una coltre di fumo spesso e denso vegliava sulla città, avvolgendosi in pigre nubi che oscuravano il cielo. Le fiamme lambivano ancora alcuni grattacieli, che come mostri uncinati si erano ripiegati su se stessi pronti ad estendere le loro mani imbevute di sangue nei tranquilli vicinati. Uno scenario apocalittico che trasudava panico e rabbia, repulsione; e sorda vendetta che echeggiava lugubre fra le vie, requiem incessante.
Era entrato solo per avvertirmi.
Mani tremanti stringevano convulsamente il cornicione di una finestra, e si sentiva lo stridere delle unghie curate contro il laminato. La donna digrignava i denti, una furia violenta che le solcava gli occhi spalancati a contemplare la pianura dell’orrore che la sottostava. Osservò una ragazzina trascinarsi a tratti, zoppicante, che si manteneva il braccio piegato in una posa scomposta e arrancava lungo una strada a un paio d’isolati di distanza. La pelle lacera in più punti, e abiti che non si potevano definire tali, lacrime nere a incorniciarle il volto spento e intriso di inconsapevolezza e terrore. A poco a poco, decine di figure simili a lei si affacciarono da sotto alcuni detriti. Parevano quasi anime vaganti senza meta, rinchiuse in silenzi opprimenti ove solo il rombo di un ciottolo che rotolava in lontananza, o il cadere delle travi che resistevano ancora in angolazioni precarie, oppure il rantolo di un altro essere in pena, faceva compagnia.
Ma la città sopravvive sempre, risorge dalle macerie, forse più forte. Ogni male porta con sé una goccia di bene, che si trascina pura nel mare del buio per far rifiorire il mondo.
Mi voleva avvertire che i caccia stavano arrivando, e ci dovevamo riparare casomai qualche missile sbagliasse obiettivo.
La donna, tuttora immobile, stava lasciando andare l’ira, che si sostituiva a un vago senso di solitudine e commiserazione. Poi anch’esse se ne andarono, e fu solo vuoto. Un uomo le si avvicinò, guardingo, e si fermò dietro di lei. Le cinse i fianchi con le braccia, dolcemente, e poggiò il volto sulla spalla della donna, assaporando il dolce profumo dei suoi capelli di fuoco. Egli sorrise lievemente, e volse lo sguardo verso lo scempio che si estendeva ai suoi piedi. Il suo sorriso non s’increspò, bensì assunse una lieve piega soddisfatta, mentre un lampo maligno gli attraversava il viso. Tutto era distruzione, eccezione fatta per pochi edifici che parevano incredibilmente illesi, come se il bombardamento li avesse evitati con un’accuratezza esemplare. Uno di essi era quello in cui i due sostavano, un alto grattacielo dalle pareti di vetro oscurato. Alcuni pannelli erano incrinati, altri avevano ceduto, ma nessun danno che non fosse rimediabile in poco più di un paio di giorni.
“Sei un mostro” disse la donna, mostrando un contegno che probabilmente non possedeva.
“Si riprenderanno, vedrai.” Rispose l’altro, e la sua bocca percorreva lenta il collo della sua compagna, disegnando figure invisibili sulla pelle ambrata.
“E forse ti dispiace anche, non è così? Godi a vederli cadere, ma ti roderai una volta che si rialzeranno.” Continuò. Faticava a credere alla sua indifferenza glaciale.
“Se si rialzeranno. E allora basterà colpirli di nuovo. Non possono resistere così a lungo, Kendra, non come possiamo noi.”
“Ma ci sarà sempre qualcuno che combatterà per la salvezza.” Soggiunse lei, girando leggermente il volto verso il suo interlocutore.
“Vorrà dire che il gioco sarà più lungo. E tanto più divertimento per noi.”
Il Veggente era il tipo d’uomo che non si fermava davanti a nulla. Crudele e spietato, perseguiva mete solo a lui note. Ma Kendra a volte dubitava che avesse dei veri scopi, e che facesse tutto per il sublime piacere che gli donava la morte.

I respiri affannati dei due e lo stridore delle armi ogni volta che si scontravano, i passi leggeri e veloci. Ombre sul pavimento lucido, e due figure che imbracciavano spade dal taglio affilato e dalla guardia semplice.
Una stanza ampia e vuota, degli armadi bianchi incassati nei muri candidi, nulla ad intralciare il passo. Una luce forte proveniente dal soffitto rendeva l’ambiente asettico, quasi simile ai lunghi corridoi di un ospedale.
“Non capisco perché Elynar se ne può stare tranquillo nella sua stanza, e invece io devo rimanere qui a stancarmi.” Kendra rispondeva affaticata ai colpi mirati del Veggente, vestita solo di un paio di pantaloni in pelle, un corpetto e degli stivali di cuoio. Aveva le spalle e le braccia completamente scoperte, i ricci sciolti che le coprivano parte della schiena. Piccole gocce di sudore le corrugavano la fronte, scivolando sul collo. Lo sguardo animato da uno sprezzo deciso, marcato sulle labbra increspate.
“Perché lui ha le sue armi, è già allenato e sa come cavarsela. In caso di pericolo, c’è bisogno che anche tu sappia resistere.”
“Io ho la magia dalla mia, e non è poco.” Ribatté la ragazza, inarcando la sopracciglia con fare orgoglioso.
“Ma non è ancora abbastanza.” E quasi come prova di ciò che disse, il Veggente incalzò ancora di più la compagna, costringendola a un angolo. Le stava per puntare la spada alla gola, quando lo squillare di un cellulare lo riscosse, vibrando nella tasca quasi implorante, ma egli esitò incerto al centro della sala.
“Su, rispondi.” Lo incitò Kendra, concedendogli un sorriso ambiguo, gli occhi che ammiccavano verso la tasca in cui sostava l’apparecchio.
Il Veggente abbassò l’arma, ma così facendo sorrise maliziosamente e per vendetta le lacerò i lacci del corpetto. Un colpo veloce e ben mirato, che tagliò i nastri di seta con facilità e precisione, stupendo la giovane. Lui si lasciò sfuggire una mezza risata compiaciuta, e si allontanò per rispondere alla chiamata. Lei gemette appena, ringhiando di rabbia, le braccia a coprirle il petto con quel che restava del bustino reciso. Sentì a stento l’uomo dire con tono duro, rivolto alla cornetta dell’apparecchio: “Chi è?”

“Chi è?”
“Nathaniel. Brutte notizie, signore.” La voce ovattata si confondeva con il ronzare di un elicottero.
“Quelle buone erano troppe, finora, non è così? E perché mai, dimmi, avete fatto partire il bombardamento così in anticipo?”
“Noi non abbiamo fatto nulla. È stata Gerda.”
“Bastarda…” sibilò il Veggente, piegando leggermente le labbra in una smorfia di odio e sconforto.
“Erano queste le brutte notizie.” Una pausa, un puro interrompersi a causa di un moto di paura improvviso. L’ira del Veggente incuteva timore a tutti. “Credo voglia precederci. Fa tutto quello che avremmo fatto noi, solo in anticipo.” Nathaniel tacque ancora, stavolta sperando che dall’altro capo del ricevitore provenisse una risposta. Invece vi fu solo il silenzio, finché con un ultimo sforzo non chiese, scoraggiato: “A che gioco sta giocando? Perché uccidere i nostri stessi nemici?”
In verità il Veggente aveva già una sua teoria, e avrebbe già risposto. Solo gli interessava conoscere i pareri dei suoi sottomessi, quando si arrischiavano a dire ciò che pensavano. In particolar modo se si trattava di importanti strateghi che nella maggior parte dei casi avevano buone teorie da esporre. Infine disse: “Per nascondere a noi stessi le sue vere intenzioni. Per non lasciarci la soddisfazione di marchiare il Male con il nostro nome.”
“Capo, come dobbiamo procedere?”
“Per ora nulla. Abbiamo tempo, in fondo.” E con questo la conversazione si concluse. Non ci furono commiati, non ce n’era il bisogno.
Il Veggente si voltò. Per tutto il tempo non aveva abbandonato la presa sulla spada. Tenerla in mano era confortante, e soprattutto vi era abituato. Oramai era come un prolungamento del suo braccio, palpitava dello stesso calore, a ritmo con il suo cuore deciso. Talvolta, senza prestarci caso, ne carezzava l’elsa liscia e anonima. Dolcemente, come tutti i guerrieri fanno prima di una battaglia, o rimirandone la lama splendente all’ombra di una candela che riusciva lo stesso a farne risplendere i contorni. Quella carezza era l’unica che il suo inconscio gli concedeva.
S’immaginava di trovare Kendra ancora a tremare di rabbia, mezza accucciata in terra. Non gli sarebbe dispiaciuto di affrontare la sua furia in un duello. Il fuoco che alimentava la donna dall’interno, quando scoppiava nella sua terribile fiamma, la rendeva invincibile, qualunque arma fosse stata costretta ad usare. Un combattimento con lei in quelle condizioni sarebbe stato davvero divertente.
Ma l’unica cosa che trovò fu il suo corpetto in pezzi che giaceva in terra. Lo raccolse lentamente. Era bello, ricamato con rose nere che sbocciavano sulle coppe per poi allungarsi fra spine morbide e foglie in pizzo sul busto, alcuni ciuffi ai bordi che ne ingentilivano il taglio semplice. Le stecche in metallo erano ancora tiepide del suo corpo. Sulla parete, una scritta luminescente, un graffito magico: “Stronzo!”
Dopotutto, era ancora arrabbiata.

L’ascensore la portava nei piani interrati con una lentezza unica, spietata. Frattanto, Kendra batteva con il tacco degli stivali sul pavimento ricoperto da piastrelle in linoleum verdastro, superando con questo rumore ritmico anche lo strusciare delle corde, che sopra di lei lasciavano scivolare l’abitacolo nel basso. Finalmente i battenti in acciaio si aprirono, rivelando su un corridoio lungo e buio.
Kendra cominciò a camminare veloce, i faretti posti alle pareti che si accendevano al suo passare. I fasci di luce s’incrociavano formando particolari giochi di luci e ombre. Era la prima volta che la donna si dirigeva agli archivi, ma sapeva bene dove si trovassero e quindi accelerò il passo, decisa a far presto.
Prima non le sarebbe mai passato di mente di rinvangare le pratiche di quel posto, non ne aveva voglia, non ne valeva la pena. E poi, cosa mai poteva trovarci di tanto interessante? Solo scartoffie, quelle poche cose che Elynar non poteva tenere al sicuro nei suoi macchinari, forse fotocopie di documenti. Poco altro ci si aspettava da un luogo simile.
Ma ultimamente i suoi sospetti erano aumentati. Lavorava per il Veggente da due anni circa, e ancora non sapeva il suo nome. Un uomo giovane, attraente per quelle poche volte che concedeva agli altri la possibilità di vederlo senza un cappuccio calato sulla testa. Occhi enigmatici, indagatori. Un tipo laconico, soprattutto, e Kendra non sopportava il modo in cui pretendeva fiducia senza che gli altri lo conoscessero abbastanza per concedergliela. Fra loro non era mai corso buon sangue.
Finora i lavori che le erano stati commissionati erano pochi, concisi. Spesso lo accompagnava in viaggi stravaganti alla ricerca di strani manufatti, come era stato per l’impresa più recente su Keren’hir, tanto che a un certo punto si era quasi convinta che fosse un semplice cacciatore di tesori. Ma per quel che ne sapeva, non vendeva ciò che procurava, e le continue telefonate, i giri con cui si intratteneva… contatti che facevano supporre un impiego più importante, e forse anche meno onesto.
Capitava che sentisse, sussurrato, a mezza voce, quando credevano che non fosse nei paraggi, il nome di Gerda Blossom, il sindaco della Città. In verità udiva solo quell’epiteto, Gerda, come se fosse una persona vicina, un’amica, tanto che in fin dei conti poteva trattarsi di qualunque altra persona. Ma esistevano poi tante donne con quel nome e lo stesso sprezzo timoroso che vi si attaccava mentre lo si pronunciava? No, non proprio.
Quindi si era decisa. Doveva indagare. Giusto per curiosità, per divertirsi. E poi negli ultimi tempi le attenzioni morbose del Veggente nei suoi confronti erano diventate intollerabili. Un comportamento maniaco, ossessivo. Se non perveniva al più presto a informazioni interessanti, sarebbe fuggita. Che si cercasse un’altra Sacerdotessa, lei con lui aveva chiuso.
Arrivò davanti alla porta dell’archivio. Serrata, ovviamente. “Apriti, non ho voglia di perdere tempo.” Disse, accompagnando quelle battute inutili con la magia vera. Un segno tracciato con la mano nell’aria, e sentì il clangore della serratura che, accondiscendente, rispondeva al suo monito.
Spalancò l’anta, e si ritrovò in un ambiente rettangolare piuttosto piccolo, se confrontato con le altre stanze del grattacielo. Parte dell’aspetto angusto derivava anche dagli alti scaffali in metallo, muniti di cassetti con cartoncini scritti per la catalogazione in ordine alfabetico, e che affastellavano le pareti tutt’intorno e il centro della stanza, creando così stretti corridoi naturali. In un angolo, una piccola scrivania con una lampada da tavolo poggiata sopra, già accesa, e una sedia nera munita di rotelle.
Kendra cercò per prima cosa la V di Veggente. Gli occhi scrutavano per bene le file, percorrevano veloci i cartellini. Quindi, trovata le sezione giusta, s’inginocchiò e spalancò un cassetto rasente il pavimento, facendo stridere appena i cardini, i fogli che sbatacchiarono per l’onda d’urto. Credeva di trovare uno stanzone enorme letteralmente stipato di scartoffie, ma invece, anche se quello era il primo cassetto che apriva, non trovò che quattro o cinque cartelline di pochi fogli. Effettivamente, con la possibilità che avevano, attraverso Elynar, di conservare tutto su microchip e memorie tecnologiche, non era poi tanto stupefacente riconoscere che l’archivio scarseggiava di materiale.
In ogni caso fece presto a identificare che lì non c’era niente di ciò che le sarebbe piaciuto sapere, nessuna informazione sul Veggente. Con tutta probabilità era stato catalogato sotto un altro nome. Richiuse il tiretto con un colpo di tallone e si guardò attorno.
Di fronte a lei c’era la lettera S. Come Sacerdotessa… forse avrebbe trovato anche un fascicolo con tutti i suoi dati, chissà. Tanto valeva la pena dare un’occhiata.
Quel cassetto era più colmo degli altri. Trovò una strana cartellina piuttosto spessa, etichettata come “Sławomir”. Sembrava quasi un nome d’uomo. Kendra l’estrasse dal cassetto e l’aprì, incuriosita.
Sul primo foglio c’era appuntata con una graffetta una foto, piccola e rettangolare, che ritraeva un volto giovane e imbronciato, dei ciuffi castano scuro che ricadevano in una frangia scomposta sugli occhi neri. Occhi che non sembravano guardare il riflettore, ma che andavano oltre, l’iride dilatato in maniera inusuale. Non c’erano molti dubbi, si trattava del Veggente.
“Così è questo il tuo nome…” la donna lo riassaporò piano, nominandolo lentamente, un sorriso di compiacimento che le si apriva sul viso. “Sławomir… non male.” Poi proseguì nella lettura, concentrata, desiderosa di saperne di più.
Purtroppo molte informazioni le conosceva già, altre invece non le interessavano proprio. C’erano i documenti che gli intestavano la proprietà dell’intero palazzo, alcune fotocopie di spostamenti di denaro, una scheda per l’assoldamento di lei. Stranamente, non trovò quella di Elynar, nonostante fosse un Luminare e quindi avrebbe dovuto essere stato catalogato alla stessa maniera. Continuò a percorrere il fascicolo, girando le pagine nervosamente. Possibile non ci fosse nulla di un po’ più interessante? Nell’ultima pagina trovò un pezzo di carta appena stropicciata, a quadretti, strappata forse da un quaderno. Lo osservò con calma. Si trattava di una lista di nomi, e un titolo in stampatello sopra a tutti: Anti-Flag. Null’altro a spiegare cosa ciò significasse. La Sacerdotessa non perse tempo, richiuse di scatto il fascicolo e andò verso la A, immediatamente al fianco della scrivania, la mente che vagava cercando di ricordarsi se aveva mai sentito quel nome prima.
Non ci mise molto a trovarlo. Anti-Flag. Associazione libera antigovernativa. Avevano anche un logo, una stella in filo spinato rosso su cui spiccava la scritta bianca del nome, lo stesso carattere che di solito si usa per marcare le casse d’esplosivo. Ora il motivo del bombardamento prendeva una nuova forma, più crudele e spietata, inquietante. Se si trattava di un gruppo che combatteva contro il governo, allora perché uccidere tanti innocenti? Kendra aggrottò la fronte, preoccupata. Quando aveva chiesto al Veggente – no, a Sławomir – il motivo di tutto quel pandemonio che si andava organizzando, aveva sdegnato la sua domanda. “Obbedisci,” le aveva detto “in fondo sei o no alle mie dipendenze? O avresti preferito continuare a vagare con il peso di quel cadavere sulle spalle?”
Una minaccia. Il Veggente procedeva sempre a minacce. Un altro punto che la spingeva a cercarsi un altro lavoro, di certo più noioso, ma almeno sicuro.
Continuò a sfogliare il malloppo. Dentro vi scorse un nuovo elenco, che occupava almeno un centinaio di pagine, stavolta completo di nome, cognome, e una data affiancata da una croce. Talvolta il nome non era accompagnato da nessuna data. Persone uccise o, in alternativa, ancora da uccidere.
Fra essi, Kendra trovò quello di Gerda Blossom e, appena sotto, il suo.

Elynar era seduto sulla poltroncina della sala macchinari, i piedi poggiati su un tratto di scrivania scoperto. Aveva le mani poggiate dietro la nuca, un aspetto sereno che ben conciliava col sonno che pian piano si era impossessato delle sue membra. Oltre al ronzare degli strumenti, si sentiva solo il suo respiro rilassato, probabilmente perso in qualche dolce sogno.
D’improvviso però si riscosse, sentendo la presenza del Veggente alle sue spalle. Era entrato cercando di non far rumore, e si era appostato dietro al giovane, dando un’occhiata generale ai monitor delle telecamere di sorveglianza che sostavano sul tavolo di fronte. Il Luminare alzò gli occhi al contatto della mano dell’uomo che gli carezzava la guancia, liscia e priva di barba come quella di un bambino.
“Buonasera, capo.” Biascicò, bofonchiando di piacere.
“Svegliati, idiota.” Rispose il Veggente, e così facendo gli assestò un leggero schiaffo, sorridendo appena. I suoi canini brillarono sinistri nella penombra del locale. “Maledizione.” Aggiunse dopo un po’, lo sguardo che si adombrava, la bocca aperta in una smorfia di contrito stupore.
S’avvicinò ai piccoli schermi, chiudendo con forza i pugni.
“Cosa c’è?” chiese Elynar, appena preoccupato, quasi indifferente.
L’uomo non rispose, gli occhi puntati sulla figura femminile che si stava velocemente avvicinando all’uscita del grattacielo, passando da una visuale delle telecamere all’altra. Un mantello rovinato ne nascondeva a tratti le forme, una sacca di tela pendeva dalla spalla, assicurata come una tracolla da una semplice corda. Quindi la vista del Veggente si spostò sullo scorcio che si apriva sulla camera da letto di Kendra. Vuota, il letto sfatto, ogni oggetto personale scomparso.
Nel corridoio che portava agli Archivi, i faretti di luce erano ancora accesi.
Quando l’uomo si avviò quasi correndo verso il vano dell’ascensore, Elynar parve risvegliarsi dal tuo intontimento e realizzò in pochi istanti cosa stava accadendo. “Devo sguinzagliare la Sam-rjah?” domandò, noncurante.
“Non è un cane da tartufo, Elynar.”

Sentiva il petto bruciarle, come quando ai tempi dell’apprendistato nel Tempio si svegliava la mattina presto, e costretta dalle consorelle di grado più elevato, correva e esercitava il suo corpo ancora intorpidito dal sonno. Piccoli aculei che le si infilavano fra i seni, sempre la stessa sensazione di vago malessere, e quel respiro a scatti, talvolta troppo leggero, altre troppo violento, tanto da sconquassarle il viso con un rossore soffuso. Ma le gambe, sorrette dalla volontà, continuavano a correre, veloci, ostacolate dai tacchi che producevano quel rumore assordante e ignobile, e che la costringevano a rallentare, quando per caso sbagliava e inciampava, impantanandosi nel suo stesso mantello. L’agitazione rovina ogni idea di fuga, ne scuote le membra e fa risalire a galla ogni difetto o imprevisto.
Così come il dubbio che, come al solito, il Veggente fosse venuto a sapere fin troppo presto delle sue mosse, e che già ora fosse al suo inseguimento. Superò il portone in metallo che dava accesso al grattacielo con un sospiro trattenuto in gola. Per lei, Elynar e il Veggente era sempre aperto, attraverso il solito connubio fra scienza e magia, stavolta frutto di un’intensa collaborazione fra lei e il Luminare. Trappole per gli intrusi, libertà assoluta per loro tre. Quindi sorpasso il cancello con le alte grate in ferro, che agiva nella stessa maniera di riconoscimento personale, il filo spinato percorso dalla corrente in cima per dissuadere i malintenzionati, e finalmente concesse a quel sospiro di uscire. Libera. Per ora.
Un vento piuttosto insistente prese ad asciugarle le poche gocce di sudore dal viso. Il sentore di autunno era persistente nell’aria, il crepuscolo inoltrato che lasciava intendere come le giornate si stessero accorciando, e come le serate diventavano man mano più gelide.
Ma dove andare?
Il Tempio era il rifugio per le novelle, per le giovani, e non appropriava a quel luogo alcun principio di familiarità. Dei suoi parenti, nessuna traccia o ricordo, la madre un labile viso dai capelli neri e ricci, molto probabilmente confusa con la levatrice che l’accudì i primi tempi. No, il Tempio non faceva per lei, e in ogni caso le avrebbe chiuso i battenti prima che potesse anche solo chiedere asilo.
Non aveva casa, oltre quel palazzo angusto nella periferia della città dove aveva trascorso i suoi anni da dipendente del Veggente. Non aveva amici. In quel posto? Ma per favore. Gli amici erano l’ultima cosa che le sarebbe stata d’aiuto.
Il grattacielo si elevava austero su una collinetta, contornato da pochi, sparuti alberi malmessi. Non era poi così alto, rispetto a molti altri, ma data la sua posizione era possibile scorgere tutta la città che si srotolava ai suoi piedi. Era una sorta di faro ambiguo, piuttosto malandato dall’esterno, i vetri delle facciate sporchi e lerci, scuriti quasi volontariamente. Un occhio che guardava, pretendendo di non essere guardato. Kendra lasciò scorrere lo sguardo, quasi cercando affannata una direzione verso cui lanciarsi. Il tempo correva inesorabile, e la sua fu una sorta di ultima occhiata, una speranza di non vedere più il mondo attraverso quella prospettiva malsana. Restò immobile per un minuto circa, fuori sulla strada che scendeva dall’altura e s’inoltrava nel complesso urbano. Il respiro ancora lievemente affannato le si condensava nell’aria attorno. Si passò una mano sul viso per allontanare i capelli scarmigliati che continuavano ad andarle davanti agli occhi.
Nelle vicinanze c’erano le baracche dei poveri, costituite da normali palazzi con vani di scale bui e appartamenti dall’ampiezza di uno stanzino. Dopo il bombardamento, era la zona che sembrava aver subito meno mutamenti. Distrutta nell’animo fin dal principio, i crateri nell’asfalto e i palazzi dimezzati ne avevano portato alla luce il lato sfibrato e senza speranza, con le prostitute che si costringevano a vivere ancora in stanze che si affacciavano sul vuoto creato dai missili. Una vetrina sul dolore impossibile, dove le risate dei vecchi erano la derisione della gioventù rubata.
Era l’unica parte della città dove i detriti non erano ancora stati rimossi. Non si era nemmeno tentato di rimuoverli. Giacevano lì, proteggendo macerie e cadaveri. Fra essi, s’accampavano coloro a cui era stata sottratta dimora, tirando le lenzuola e le stoffe che spuntavano un po’ ovunque e creando con queste nuove e bizzarre tende.
In quella zona però sorgevano, come sempre, i soliti edifici intatti. Salvati miracolosamente da una mano altruista, lontana, una mano aliena che aveva calato le sue dita per proteggere i suoi figli dall’urto. Quella mano si chiamava Caso.
Uno di questi edifici era la Scuola Circense. Sviluppata su unico piano, era costituita da un ampio telone centrale e da cinque capanne più piccole, i colori prima vivaci ora resi oscuri dalla polvere e dalla sporcizia che continuava ad accumularsi da anni. Solo l’insegna, con luci al neon dagli schermi metà bruciati, riluceva a tratti intermittenti. Nel buio della notte non sarebbe stato possibile riconoscerne la scritta, che portava un nome semplicissimo, quello di Scuola Circense per l’appunto. Si era sempre pensato che non fosse necessario sostituire i faretti guasti. Tutti sapevano cosa avveniva lì dentro.
Kendra cominciò a discendere dalla collina, quasi correndo, la pendenza che le facilitava l’aumento di velocità. Finché non trovava le rovine del bombardamento a rallentarle il passo, tanto valeva approfittarne. All’incirca tre chilometri la distanziavano dalla Scuola.

Perché se l’era lasciata scappare? Ogni battito del suo cuore era uno scalino sceso. Qualcosa che l’avvicinava a lei.
Ma, in fondo, già sapeva che l’avrebbe lasciata andare. Non puoi costringere una fenice in una gabbia, finirà per ripudiare le sue stesse ceneri.
Arrivato davanti al portone d’ingresso, lo spesso acciaio che sigillava il tutto ad eccezione di una finestrella ricoperta da due lastre di vetro. Rimase sul posto, comprendendo che non sarebbe servito a nulla uscire, preda delle emozioni. Doveva riprendere controllo di sé, il suo contegno di sempre, che davanti a quell’affezione malata verso Kendra era per un attimo imploso su se stesso. Avvicinò gli occhi all’apertura che dava all’esterno, ma di lei riuscì a scorgere solo una sagoma che scompariva correndo, diretta verso il limitare della città. Si decise a risalire; lì non aveva più nulla da fare.
Di certo nell’Archivio aveva trovato quell’insulso straccio di carta sull’Anti-Flag. Niente di che, poco di vero. Certo, era un’associazione antigovernativa che mirava a ribaltare il potere del sindaco donna, Gerda, ma lo faceva per lo più per gioco. Una cosa sadica, senza scopi precisi, giusto per portar confusione.
Il male è caos.
Raggiunse Elynar, la mente quasi spenta, offuscata dall’immagine di quel marasma rosso con cui aveva convissuto gli ultimi due anni. Probabilmente non l’avrebbe mai più rivista, se non quando sarebbe stato il momento di ucciderla. Sperava solo che non cominciasse a metter mani nelle situazioni sbagliate, la sua impulsività le era sempre costata cara. Come quando…
“Fuggita?” chiese il Luminare, riscuotendolo dai suoi pensieri.
“Sì. Scappata.” Rispose atono. Si appoggiò al muro, incrociando le gambe, una mano a contatto con il mento ruvido.
“L’hai lasciata andare.” Constatò il giovane, aspro. Si girò sulla sedia per guardare in faccia il Veggente, nonostante sapesse bene come questo lo irritava, in particolar modo in momenti simili.
“Vado a riposarmi un po’.” Concluse l’uomo, dopo alcuni attimi di silenzio. Si diresse verso le stanze, lasciando nuovamente Elynar solo.
La vita è una continua solitudine.
Andò nella sua camera, una gola oscura in cui affogare le idee. Nel grattacielo erano illuminati bene solo i corridoi, il resto viveva in un’accogliente penombra. In questo modo le telecamere avrebbero ripreso bene ogni spostamento, ma l’immagine vera che si consumava dietro le porte era ancora avvolta nella sua intimità.
Forse, fra qualche giorno, si sarebbe deciso di partire a cercarla. Non aveva null’altro d’importante da fare. Di Gerda avrebbero potuto occuparsene gli altri. Nathaniel sapeva come gestirla, come bloccare le sue mosse il tempo necessario per concedere a tutti una tregua. Già ora il desiderio di Kendra gli squarciava l’animo, insistente. Una caccia al tesoro. Una sfida.
“Vuoi giocare con me?”


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