martedì 14 luglio 2009
Un pensiero fra scrittori e reduci di guerra
21:14
Sempre vecchi post del vecchio blog. Il secondo, quello sui reduci di guerra, ha fatto strage di cuori ^^ Che ne dite, meglio fare lo scrittore o il soldato?
Music: http://www.youtube.com/watch?v=sY47MlI-X4k
Lo scrittore sbaglia sempre. Sbaglia nel raccontare storie altrui come a raccontare le proprie. Eppure viene sempre apprezzato, nonostante non riesca mai ad esprimere un concetto che tutti amino. Lo scrittore vive per scrivere e raccontare. È un raccontastorie. E scrive soprattutto per se stesso. È un modo per esternare la sua passione, il suo dolore, renderlo pubblico e noto a tutti anche se nessuno sa che magari quel dolore è il suo. Lo scrittore ama scrivere solo finché lo fa per se stesso. E io amo scrivere e raccontare di paesaggi ignoti e nascosti, nature estranee all’immaginazione umana che si proiettano nella mia mente come sogni opachi dalla nitidezza di uno specchio. E volare sopra vallate immense, sapendo di non poterti fermare perché non c’è fine al volo libero della fantasia. Il sole che ti batte sul viso, un sorriso, un fiume che discende lento e allegro giù da bianchi monti innevati; e sai che il mondo è tuo, che puoi fare tutto, se solo vuoi. E poi una parola, un gesto, e cadi in picchiata senza fermarti, risucchiata inevitabilmente verso la falsa realtà dove sei costretta a vivere. E inevitabilmente pensi, pensi che se non hai fatto niente di male, perché non potevi continuare a volare un altro po’? Perché? Forse, forse, non potevi e basta, perché anche se hai potuto credere che quel luogo fosse tuo, tutto tuo, non lo è; anzi, è un paradiso pubblico in cui gli uomini tristi si rifugiano per ritrovare la pace che hanno perso. Quindi il tuo volo si è fermato, e un altro ha iniziato a volare al posto tuo, e siccome quella è una pista che non può contenere più di un sognatore, tu sei caduto. Così comprendi e il dolore e la nostalgia e la mancanza del tuo paradiso si annullano, e tutto ciò che ti rimane da fare è sognare, e sperare, un giorno, di poterci ritornare.
Ogni giorno combattiamo le nostre battaglie personali, i problemi della nostra vita ci offuscano la vista, allontanando tutti i conflitti che non sentiamo come i propri. Ascoltiamo distrattamente alla radio notizie di persone morte, persone a cui la vita – questo già breve periodo di tempo in cui siamo vivi – è stata strappata via non dalla natura o dal volere divino, bensì dall’uomo; il disgraziato uomo che prende e dà senza chiedere e che distrugge senza scrupoli, un individuo piccolo e misero capace di annientare il più grande dono dell’universo solo con un movimento delle mani – che sia premere un grilletto, lanciare una bomba a mano o infilzare un coltello non ha poi tanta importanza – e, a volte, anche solo con la parola.
Ascoltiamo distrattamente e osserviamo impotenti – per la maggior parte dei casi impotenti solo per nostro volere, condizionati unicamente da ingiustificate e false ragioni che ci creiamo per redimere i sensi di colpa – mentre in qualche parte del mondo, in più parti del mondo, soldati combattono una guerra che non è solo loro, ma che è di tutti; e molti di essi combattono e basta, indifferenti davanti al perché, seguono gli ordini dei loro superiori e ciò che hanno imparato al militare. Un militare che non ti insegna ad uccidere una persona, ma solo come farlo; un militare che ti insegna dove e quando colpire, le armi da usare, ma da cui non imparerai mai come fronteggiare gli occhi bianchi e incolore di chi hai appena ammazzato, occhi che ti perseguitano di notte e che ti rincorrono. E chissà in tutta questa guerra quanti altri ne dovrai uccidere, centinaia di anime che si aggiungeranno alla prima, pronte a perseguitarti.
Eppure, eppure, tutti gli uomini sono egoisti, e duole di più il male che a noi è stato fatto e non quello che siamo stati noi stessi ad arrecare. E quindi i soldati, i reduci, si ritrovano a combattere ancora e ancora, anche dopo che la guerra è finita da un pezzo, e non possono farne a meno, perché anche se magari quella prima volta si erano offerti come volontari, ora che non vogliono, non possono più decidere, e guardando le dita, le mani monche – segno indelebile della guerra – ricadono inesorabilmente nel vortice nero, in quella voragine a cielo aperto che è l’ombra maligna del ricordo.
Probabilmente dopo tutte queste stragi che avvengono della mente dei reduci, per ultima, abbiamo la nostalgia per i compagni caduti al loro fianco che – più o meno indifferentemente – soprannominano eroi di quella guerra semplicemente perché ci hanno rimesso la vita mentre loro, loro che si sono giocati l’anima senza sapere cosa sarebbe accaduto, quali sarebbero state le conseguenze in futuro, ricevono medaglie al valore o poco più e frasi alquanto consolanti che hanno tutta l’intenzione di dire: “Bravo, sei sopravvissuto”, quando la verità è che non si sopravvive mai ad una guerra, lei ti rimane dentro, attaccata come un morbo al tuo cuore, un cancro senza cura.
Chi è sopravvissuto a una guerra, chi vi ha partecipato con tutte le fibre del suo corpo, non finirà mai di combatterla, perché i fantasmi del passato tornano sempre indietro, portando i loro carichi di disappunto, monito, rimorso e il cordiale annuncio che non ti lasceranno mai solo.
Music: http://www.youtube.com/watch?v=sY47MlI-X4k
Lo scrittore sbaglia sempre. Sbaglia nel raccontare storie altrui come a raccontare le proprie. Eppure viene sempre apprezzato, nonostante non riesca mai ad esprimere un concetto che tutti amino. Lo scrittore vive per scrivere e raccontare. È un raccontastorie. E scrive soprattutto per se stesso. È un modo per esternare la sua passione, il suo dolore, renderlo pubblico e noto a tutti anche se nessuno sa che magari quel dolore è il suo. Lo scrittore ama scrivere solo finché lo fa per se stesso. E io amo scrivere e raccontare di paesaggi ignoti e nascosti, nature estranee all’immaginazione umana che si proiettano nella mia mente come sogni opachi dalla nitidezza di uno specchio. E volare sopra vallate immense, sapendo di non poterti fermare perché non c’è fine al volo libero della fantasia. Il sole che ti batte sul viso, un sorriso, un fiume che discende lento e allegro giù da bianchi monti innevati; e sai che il mondo è tuo, che puoi fare tutto, se solo vuoi. E poi una parola, un gesto, e cadi in picchiata senza fermarti, risucchiata inevitabilmente verso la falsa realtà dove sei costretta a vivere. E inevitabilmente pensi, pensi che se non hai fatto niente di male, perché non potevi continuare a volare un altro po’? Perché? Forse, forse, non potevi e basta, perché anche se hai potuto credere che quel luogo fosse tuo, tutto tuo, non lo è; anzi, è un paradiso pubblico in cui gli uomini tristi si rifugiano per ritrovare la pace che hanno perso. Quindi il tuo volo si è fermato, e un altro ha iniziato a volare al posto tuo, e siccome quella è una pista che non può contenere più di un sognatore, tu sei caduto. Così comprendi e il dolore e la nostalgia e la mancanza del tuo paradiso si annullano, e tutto ciò che ti rimane da fare è sognare, e sperare, un giorno, di poterci ritornare.
Ogni giorno combattiamo le nostre battaglie personali, i problemi della nostra vita ci offuscano la vista, allontanando tutti i conflitti che non sentiamo come i propri. Ascoltiamo distrattamente alla radio notizie di persone morte, persone a cui la vita – questo già breve periodo di tempo in cui siamo vivi – è stata strappata via non dalla natura o dal volere divino, bensì dall’uomo; il disgraziato uomo che prende e dà senza chiedere e che distrugge senza scrupoli, un individuo piccolo e misero capace di annientare il più grande dono dell’universo solo con un movimento delle mani – che sia premere un grilletto, lanciare una bomba a mano o infilzare un coltello non ha poi tanta importanza – e, a volte, anche solo con la parola.
Ascoltiamo distrattamente e osserviamo impotenti – per la maggior parte dei casi impotenti solo per nostro volere, condizionati unicamente da ingiustificate e false ragioni che ci creiamo per redimere i sensi di colpa – mentre in qualche parte del mondo, in più parti del mondo, soldati combattono una guerra che non è solo loro, ma che è di tutti; e molti di essi combattono e basta, indifferenti davanti al perché, seguono gli ordini dei loro superiori e ciò che hanno imparato al militare. Un militare che non ti insegna ad uccidere una persona, ma solo come farlo; un militare che ti insegna dove e quando colpire, le armi da usare, ma da cui non imparerai mai come fronteggiare gli occhi bianchi e incolore di chi hai appena ammazzato, occhi che ti perseguitano di notte e che ti rincorrono. E chissà in tutta questa guerra quanti altri ne dovrai uccidere, centinaia di anime che si aggiungeranno alla prima, pronte a perseguitarti.
Eppure, eppure, tutti gli uomini sono egoisti, e duole di più il male che a noi è stato fatto e non quello che siamo stati noi stessi ad arrecare. E quindi i soldati, i reduci, si ritrovano a combattere ancora e ancora, anche dopo che la guerra è finita da un pezzo, e non possono farne a meno, perché anche se magari quella prima volta si erano offerti come volontari, ora che non vogliono, non possono più decidere, e guardando le dita, le mani monche – segno indelebile della guerra – ricadono inesorabilmente nel vortice nero, in quella voragine a cielo aperto che è l’ombra maligna del ricordo.
Probabilmente dopo tutte queste stragi che avvengono della mente dei reduci, per ultima, abbiamo la nostalgia per i compagni caduti al loro fianco che – più o meno indifferentemente – soprannominano eroi di quella guerra semplicemente perché ci hanno rimesso la vita mentre loro, loro che si sono giocati l’anima senza sapere cosa sarebbe accaduto, quali sarebbero state le conseguenze in futuro, ricevono medaglie al valore o poco più e frasi alquanto consolanti che hanno tutta l’intenzione di dire: “Bravo, sei sopravvissuto”, quando la verità è che non si sopravvive mai ad una guerra, lei ti rimane dentro, attaccata come un morbo al tuo cuore, un cancro senza cura.
Chi è sopravvissuto a una guerra, chi vi ha partecipato con tutte le fibre del suo corpo, non finirà mai di combatterla, perché i fantasmi del passato tornano sempre indietro, portando i loro carichi di disappunto, monito, rimorso e il cordiale annuncio che non ti lasceranno mai solo.
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