giovedì 16 luglio 2009
Camden Town
12:11
Music: http://www.youtube.com/watch?v=FiVvA9YQpiI
Cammino guardandomi intorno con aria totalmente svagata, uno stupido sorriso sulle labbra. Mi gira tutto, un turbinio di luci che mi abbagliano. Alle prime ore della sera il quartiere si sveglia, e mi sento circondata dalla mia gente, ragazzi con i capelli dai colori stravaganti e abiti trasandati, catene ai pantaloni strappati e piercing un po’ ovunque. Hanno tutti lo stesso atteggiamento menefreghista e sfacciato, girano con le mani in tasca e si salutano nel loro gergo particolare.
Al mio fianco ora ci sono quelle rovine nere in cui pochi giorni prima erano bruciate le fiamme dell’inferno, le insegne ormai illeggibili che penzolano dalle finestre, semplici aperture nel muro, e già alcune impalcature quasi improntate al momento che cercheranno di ridare vita a quell’angolo di esistenza ormai perduto. Lo guardo, quasi ipnotizzata. Come me, anche altri lo osservano, partecipanti di un muto funerale dai connotati artistici.
Continuo a camminare costeggiando il marciapiede e passando fra orde di giovani che sembrano essersi appena svegliati; gioco entusiasta col biglietto della metropolitana che ho in tasca. Sembra strano, mi dico, ma sono veramente loro, siamo noi. Nei negozi che si affacciano alla strada si vendono solo converse, anfibi, polsiere e vestiti che potrebbero apparire strani alla gente comune. Ma a me no. Numerosi sono anche i locali bui e con le saracinesche abbassate, le insegne portano tutte una scritta arzigogolata che recita all’incirca così “tattoo & piercing”. L’aria sa di fresco, il sapore della libertà, mentre dagli angoli dei palazzi salgono volute di fumo di chissà quali sostanze.
Nel frattempo, il mercato ha chiuso, e osservo i mercanti prendere la merce e metterla alla rinfusa in dei sacchi da caricare sui furgoni; comincia a sentirsi una musica che all’inizio pare un rumore sostenuto, ma che poi si trasforma in un ritmo costante, vitale, che ti riempie le membra di passione. Mi passa affianco una ragazza più o meno della mia età, gli occhi cerchiati di nero, i capelli di un fucsia acceso raccolti i due codini. Ha le labbra tinte di un viola scuro, indossa una maglia dimessa e delle calze a rete. Mi guarda come potrebbe fare un soldato a un suo commilitone, sembra dire “stiamo combattendo la stessa guerra”.
Finalmente mi sento accettata, e non posso fare altro che continuare a camminare e volgere intorno lo sguardo. Fino a poco prima quelle strade erano pattugliate da turisti che forse ignorano la vera natura di questo posto, tutti presi a contemplare un mercato come un altro, quasi un bazar per i loro occhi. Ma è al calar della sera che il quartiere mostra il suo vero volto. Il volto di una massa di uomini e donne che rifiuta ogni ordine che va contro la loro filosofia di vita, l’anarchico viso della ribellione non repressa bensì emarginata.
È ora di tornare, e abbandonare ciò che sarà il mio ricordo migliore. Scendo le scale della stazione, ma prima guardo qualche secondo l’insegna blu dai contorni bianchi che mi sovrasta. Sospiro. A presto, Camden Town.
Al mio fianco ora ci sono quelle rovine nere in cui pochi giorni prima erano bruciate le fiamme dell’inferno, le insegne ormai illeggibili che penzolano dalle finestre, semplici aperture nel muro, e già alcune impalcature quasi improntate al momento che cercheranno di ridare vita a quell’angolo di esistenza ormai perduto. Lo guardo, quasi ipnotizzata. Come me, anche altri lo osservano, partecipanti di un muto funerale dai connotati artistici.
Continuo a camminare costeggiando il marciapiede e passando fra orde di giovani che sembrano essersi appena svegliati; gioco entusiasta col biglietto della metropolitana che ho in tasca. Sembra strano, mi dico, ma sono veramente loro, siamo noi. Nei negozi che si affacciano alla strada si vendono solo converse, anfibi, polsiere e vestiti che potrebbero apparire strani alla gente comune. Ma a me no. Numerosi sono anche i locali bui e con le saracinesche abbassate, le insegne portano tutte una scritta arzigogolata che recita all’incirca così “tattoo & piercing”. L’aria sa di fresco, il sapore della libertà, mentre dagli angoli dei palazzi salgono volute di fumo di chissà quali sostanze.
Nel frattempo, il mercato ha chiuso, e osservo i mercanti prendere la merce e metterla alla rinfusa in dei sacchi da caricare sui furgoni; comincia a sentirsi una musica che all’inizio pare un rumore sostenuto, ma che poi si trasforma in un ritmo costante, vitale, che ti riempie le membra di passione. Mi passa affianco una ragazza più o meno della mia età, gli occhi cerchiati di nero, i capelli di un fucsia acceso raccolti i due codini. Ha le labbra tinte di un viola scuro, indossa una maglia dimessa e delle calze a rete. Mi guarda come potrebbe fare un soldato a un suo commilitone, sembra dire “stiamo combattendo la stessa guerra”.
Finalmente mi sento accettata, e non posso fare altro che continuare a camminare e volgere intorno lo sguardo. Fino a poco prima quelle strade erano pattugliate da turisti che forse ignorano la vera natura di questo posto, tutti presi a contemplare un mercato come un altro, quasi un bazar per i loro occhi. Ma è al calar della sera che il quartiere mostra il suo vero volto. Il volto di una massa di uomini e donne che rifiuta ogni ordine che va contro la loro filosofia di vita, l’anarchico viso della ribellione non repressa bensì emarginata.
È ora di tornare, e abbandonare ciò che sarà il mio ricordo migliore. Scendo le scale della stazione, ma prima guardo qualche secondo l’insegna blu dai contorni bianchi che mi sovrasta. Sospiro. A presto, Camden Town.
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