mercoledì 23 febbraio 2011

PostHeaderIcon Briciole di Felicità

Anche questo racconto ha partecipato a un Contest particolare. Devo dire che scrivere con idee precise – dettate da altri per certi versi – è più gratificante, e inoltre ti permette di avere giudizi, cosa che postando qui sul blog non è sempre accertata.

Song-fic anche questa. Sì, mi prendono, sì, ho detto più volte di amarle. Avrete ormai capito che da parecchio tempo a questa parte non faccio che scrivere racconti di questo tipo.

Le canzoni da cui ho preso spunto (e che trovate come al solito a fine post) sono:

- "Yksinäisen Keijun Tarina" di Chisu

- Śniadanie do łóżka" di Andrzej Piaseczny

Con questo racconto mi sono classificata Seconda (avete visto? Miglioro ^^), assieme al Premio come Miglior Storia.

E sono ancor più felice di dire che invece il Premio Stile è toccato a Vinci, che si è inoltre classificato primo :)

Buona lettura!

La mia fata si è ammalata.

Ogni mattina strofina le ali con della polvere magica, per poter volare. Perché da sola non ce la fa più. È tutta contenuta in una borsetta di tela che porta legata in vita, la sua polvere, da custodire gelosamente, da usare con parsimonia. Un mucchietto al giorno, per sopravvivere.

Arriva sera ed è stanca, e le sue ali di trasparenti petali di giglio giacciono abbandonate sulle spalle: una sacca di dolore che si trascina dietro. Le occhiaie distruggono la bellezza dei suoi occhi d’ametista, che nemmeno un raggio del sole al tramonto riesce ad accendere di nuova luce.

La mia fata si è ammalata: non vuole più sognare. E io, che la amo più della mia vita, le donerei ogni mio sogno pur di far tornare le sue ali a splendere.

Spesso me l’ha detto, me l’ha sussurrato nell’orecchio, al suo caro fauno impertinente: «Perché suoni sempre di feste e cose belle? I tuoi occhi sono ciechi, forse, che non vedi quante creature muoiono qua intorno?»

Suono perché non so ballare con la Morte, e allora chiamo le altre sue signore, le dame che spesso s’inchinano al suo cospetto, affinché facciano compagnia ai miei saltelli allegri. Credo che le mie canzoni spargano speranza, e loro danzano, danzano intorno, il cerchio magico di Faerie, e la speranza la creano davvero: sono le risa dei bambini che, dal mondo reale, si affacciano sul nostro universo.

Ma ora non suono più neanche io, e Gioia si è offesa con me, e Gaia non mi vuol parlare. Misericordia tace e il suo sguardo mi perfora le spalle, Lussuria si consola con un troll che vive oltre le montagne. Ho perso tutte le mie muse.

Poco male, ho la mia fata da salvare. Devo portarla via dai suoi ricordi, prima che qualcos’altro l’allontani da me.

Però me ne sono accorto troppo tardi. Lei piangeva sola, nascosta fra i petali del suo crisantemo, e io intanto le chiedevo baci, le chiedevo la sua bellezza, e non mi accorgevo che stava morendo dentro. Che sciocco, povero sciocco fauno!

Ma come può un fauno credere che una donna alata possa stare così giù? Ha un cielo immenso su cui perdersi, una piuma smarrita nel vento. Una piuma che ora sta cadendo. La raccoglierò prima che rischi di toccare il suolo, fosse anche l’ultima cosa che faccio. Spero solo che non sia davvero troppo tardi…

Ma, in fondo, chi avrebbe mai creduto che le fate tristi esistono?

Si respira aria autunnale. Attorno al palazzo diroccato, un castello ucciso dal soffio infuocato di un drago, qualche erbaccia lascia spazio a primule gialline che sono le fiammelle sparse dal suo fiato rovente. Le aiuole sono chiazze verdi su cui è stato spruzzato un po’ di colore, senza riflettere, senza idea di cosa s’andava creando. La natura ha modellato un quadro grottesco, dimentica dell’ordine. Un fungo! Che ci fa un fungo sotto quel cespuglio?

La finestra della camera da letto è accostata, solo la zanzariera chiusa, ma è di quelle che si possono aprire dall’esterno. Solo una sottile tenda attutisce i rumori delle auto che, dalla strada, già cominciano a vorticare per le vie della città in un marasma confuso, ma basta a plasmare quella barriera indelebile fra incanto e realtà. Il ragazzo benedice che lei abiti al piano terra. Entra come un angelo, di soppiatto, accompagnando con una mano la reticella che si alza. Tutto senza svegliarla: è importante lasciarla ancora un po’ nell’inquietudine del sonno, nella convinzione della solitudine. Un salto e scavalca il ripiano, i suoi piedi toccano il pavimento di ceramica con la leggerezza del passo di un fauno. Un ticchettio per gli zoccoli che si poggiano, ma niente più.

Lei, fra le coperte, è bellissima come la visione dello sbocciar di un fiore, che allunga piano i suoi petali, saggia l’aria – no, fra troppo freddo, aspettiamo racchiusi altri pochi minuti! – mezza aperta al mondo e mezza accoccolata fra l’abbraccio delle coperte. I capelli castani si sparpagliano in boccoli sui cuscini bianchi, onde spumose di un mare al crepuscolo. Le lenzuola si avvolgono sul suo corpo come foglie a rivestire una fata, e quasi si possono scorgere le ali, un brevissimo brillare che spunta dalle spalle nude e vibra nel vuoto. Oh, no, non sono in alto, le ali, non sono spiegate: sono schiacciate alla schiena, spiegazzate, sgualcite. Pesanti e bagnate.

La cucina è in fondo al corridoio. Si può abbandonare una donna così bella, al suo sonno così magico? Sì, il ragazzo può, deve, ha una cosa da fare. Urgente. Perciò si allontana, a passo quieto, voltandosi a cercare nel riflesso di uno specchio l’ultima immagine dei suoi occhi chiusi.

Arrivato in cucina, svuota sul tavolo il contenuto del suo zaino. Pane fresco, che profuma ancora del legno di betulla vicino a cui si è cotto, e che stranamente è tiepido come se un elfo l’avesse custodito in grembo appositamente per lui, avvolgendolo fra le spire del suo mantello. C’è anche un barattolino di miele, e s’immagina lei che vi immerge il dito – un’ape che si è poggiata sulla corolla del suo fiore. Poi un po’ di latte, qualche arancia ancora da spremere. Un libro di poesie. Prepara tutto su un vassoio, in fretta, per la sua piccola fata. Con amore.

Appena ha finito, torna nella camera da letto. Un anello con un piccolo diamante tintinna solo sull’acciaio del piatto, attende. Il ragazzo poggia il portavivande sul comodino, accanto a un flacone mezzo vuoto di pillole anti-depressive, e le si avvicina. Con un bacio sulle labbra di rosa, la sveglia teneramente dal suo torpore senza sogni.

«Una nuova vita, una nuova vita per colazione» le promette.

Lei si lascia sfuggire un sorriso, ma subito un triste pensiero lo sopprime.

Il fauno deve consolare la sua fata. Deve, o il vento la porterà via… e non le è rimasta molta polvere magica per resistervi. «Su, mangia qualcosa» la invita.

«Non ho fame» sussurra lei, e si stringe ancora di più nel suo involto di coperte. Sembra avere freddo, ma dalla finestra socchiusa qualche raggio di sole si arrotola alle tende pulite, s’infiltra timido a illuminare la stanza.

«Li vedi, quei raggi? Alla fine… alla fine riusciranno a riscaldarci. Devi permettere loro di accarezzarti, però.» Il ragazzo afferra un lembo della stoffa e tira lentamente. Questo cede, e scopre la pelle liscia di lei e la sua camicia da notte azzurrina.

La fata è insicura, protesta: «Non ce la faccio.»

«La stabilità nel volo… possiamo riottenerla insieme.» Lui prende l’anello, e cerca da sotto le coltri la mano sottile della donna, facendosi strada attraverso quel corpo trascurato e ancora stupendo. La fede s’infila all’anulare, si stringe in una morsa che è una preghiera, una richiesta disperata di fiducia. «Ci proverai?»

L’esitazione dura quanto la presa di un respiro. «Sì.»

L’ha detto. Un altro bacio del fauno, e una rassicurazione: «No, non ti preoccupare per le briciole di felicità, fatina. Le nasconderemo nelle fodere dei cuscini, assieme alle vecchie piume della tua vita passata.»

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