venerdì 4 settembre 2009
1 - La città bianca
14:23
Sono circa due mesi che lavoro sulla trama di un possibile libro; un progetto realizzabile, a mio parere. Qui ho il primo capitolo, in una sua prima bozza ancora non corretta definitivamente. Il titolo della storia forse è la prima cosa che mi è venuta in mente, ma che per adesso non svelo, anche se ho inserito un aiuto nel post :)
Qui più che negli altri scritti ho bisogno di un vostro consiglio, e di sapere ciò che pensate, che siano commenti positivi o negativi. I secondi, forse, sono proprio quelli più necessari.
"Sono un poeta. Un poeta maledetto. Un poeta che parla di luoghi che non ha mai visto, di amori che non ha mai vissuto, di mari che non ha mai solcato. Un poeta che vive la sua vita girando come un menestrello, ma che non sa suonare strumento se non le flebili corde del cuore. Sono un poeta. Un poeta con il mal di mare. Sono un poeta. Un poeta maledetto."
1 – La città bianca
Il sole acceca nella sua calda e torrida luce da tardo pomeriggio. Si riflette stanco sull’acqua, che ora è colorata da sprazzi dorati come una parete bizantina appena affrescata. L’aria è afosa, pesante, i capelli si attaccano umidi al viso, e l’unica possibile sembra bagnarsi; mera consolazione o appagamento passeggero? La frescura dell’ombra è effimera, mentre la fontana prosegue nel suo instancabile getto, simile a una cascata a gradinate. Sopra, un sole di ceramica su uno sfondo verde pastello, sorride sornione e osserva tranquillo. Si sente odore di mare, misto a cloro e fiori. Dall’alto delle colline ricche di vegetazione mediterranea, un paese si affaccia, arroccato in cima, e ogni casa sembra sospesa sull’orlo del mondo, retta dalle radici dei suoi alberi e da piastre di vetro invisibili. Sotto la luce pomeridiana, tutti gli edifici assumono la stessa colorazione: un arancio spento che sfuma nel giallo dei limoni, rischiarato dall’oro della natura, malinconico e acceso, mutevole.
Mi dirigo a passi strascicati e lenti verso l’intrico di edifici alle spalle della polla d’acqua. Sotto le arcate coperte di folte Bougainville si aprono due strette scalinate in pietra, poi corridoi bassi e angusti conducono a fantastici labirinti su più piani, da cui si affacciano anonimi porticati e finestre dipinte di un verde scuro. Qui, stanno le entrate delle case del luogo. Le porte sono simpatici anfratti azzurri traforati nel basso, e si nascondono perfettamente fra i vari vicoli delle abitazioni. Palazzi che in fondo sono tutti collegati fra loro: che si tratti di un arco, un’angusta galleria o semplici rampicanti, poi, è poca cosa. Nonostante l’ambiente possa apparire alquanto soffocante, il tutto viene facilmente mitigato dalle pareti rustiche bianco ghiaccio che ti accompagnano in ogni angolo; il loro colore abbacinante propaga i raggi del sole. L’impiantito varia dal rosso della terracotta al grigio delle pietre, mentre la flora si insinua ovunque senza mai dare l’impressione di trovarti in un luogo selvaggio o simile a una giungla, mantenendo il suo mite ordine come una giardiniera indipendente. Le piante sono per lo più rampicanti di varie specie, gerani; alte palme e magnolie per i giardini di forma quadrata che ricordano vagamente i cortili interni dei monasteri; pini secolari e cespugli indefiniti nella pineta che circonda la piccola città.
Salgo una gradinata stretta, sedici scalini che mi portano su un terrazzino affacciato alla zona alberata, preceduto da due porte. Fra i fitti aghi di pino si scorge il blu del mare, una distesa d’acqua cristallina leggermente increspata; tra i possenti tronchi nodosi si snoda un sentiero che degrada più o meno dolcemente verso la spiaggia. Prendo una boccata d’aria e tiro fuori la chiave della mia stanza. Ambiente 413. Apro così l’entrata sulla destra, lasciandomi avvolgere dalla folata fresca che mi accoglie. La camera è piccola, ma ben arredata sui toni dell’azzurro e del verde acqua. E, come se non bastasse, un lucernario blu a muro si apre di fronte al letto appena fatto, lasciando entrare una flebile luce che da l’impressione di trovarsi in un acquario. Mi sdraio con le mani poggiate dietro la nuca, e comincio a pensare …
È un’emozione che dura nel tempo. Adoravo quel posto. Ah, come lo adoravo. La cosa forse più stupefacente era il dolce silenzio che regnava in ogni luogo, lì, e che rendeva il rumore soave delle onde del mare una presenza costante e amica.
Ricordo che l’incantevole città bianca fu l’inizio del mio viaggio spirituale, e ancora adesso mi viene da pensare che forse non avrei potuto desiderare un inizio migliore. Vi vissi pochi giorni, fra la magia di quel posto sperduto; ma non ebbi il tempo di ammirarlo come avrei dovuto, perché una visione ancor più angelica mi sorprese. Mentre vagavo spensierato fra i suoi vicoletti, in una mattina assolata, mi imbattei in una donna. Mi stregò dal primo momento che la vidi …
È solo un attimo. Fugace. Sto per svoltare sulla destra e inoltrarmi nella pineta, quando, dall’arcata che si affaccia sul mare, vedo una donna. Ha i capelli corvini e mossi, lunghi fin sotto le spalle. Degli occhi leggermente a mandorla, con delle ciglia lunghe e marcate, mi guardano profondi. Sono azzurro cielo, distesi in una serenità unica, che il solo rispondere al suo sguardo mi provoca brividi freschi e una beatitudine incommensurabile. Indossa una veste semplice,bianca, con un nastro azzurro stretto in vita; le arriva fino alle caviglie, e segue ogni suo movimento in ampie volute. Ha un grande fiore rosso fra i capelli, che sfuma nel nero al centro, dove si affacciano lunghi pistilli gialli. Lei allora continua a camminare, indifferente, ma so che il suo sorriso è rivolto solo a me. Quando il mio sguardo la perde, non mi sfiora nemmeno l’idea di seguirla. Sono folgorato, ma non me ne stupisco. Non mi chiedo chi è, che ci fa qui, perché non l’ho notata prima. Sono certo che la rivedrò presto. Rimango così, appoggiato alla parete, ad osservare quell’arco dove è passata pochi secondi prima, e dove ora luccica il brillante blu del mare.
I giorni successivi li passai osservando la gente del posto. Mi colpirono la sua eleganza e timida compostezza, il silenzio che faceva da padrone alla tranquillità mista a sparuti casi d’ignoranza. I pochi bambini avevano sguardi consapevoli e compiaciuti, i giochi infantili non superavano mai la soglia delle parole, lasciando indenne l’atmosfera ovattata. Un paradiso non troppo dimenticato, ma privilegio di pochi.
Nella comunità spiccavano come fiori del deserto i giovani che si occupavano della manutenzione del sorriso comune, clown improvvisati che ti donavano la felicità e il piacere di una conversazione come i piccoli rom che ti offrono rose agli angoli delle strade, senza pretendere molto in cambio. Fra essi, conobbi un uomo la cui età sfiorava la trentina, dai tratti forti e le braccia vigorose, ma sempre con una traccia di fanciullezza nel viso.
Stavo camminando sulla riva della spiaggia di ciottoli, quando lo vidi trafficare con delle funi. Non era la prima volta che lo incontravo, ma non mi ci ero mai avvicinato più di tanto. Rimasi a fissarlo, curioso di sapere l’esito del suo strano esperimento. Poco dopo compresi che cercava di arenare un catamarano abbastanza dimesso, ma comunque ancora funzionale. L’operazione durò pochi minuti, e prima che me ne accorgessi lui mi si avvicinò, asciugandosi il sudore dalla fronte con un asciugamano arancione.
- Bello, eh? La vernice è un po’ scrostata, ma cavalca le onde che è una meraviglia. – intuii che si stesse rivolgendo a me. Notai che guardava soddisfatto la barca, e risposi: - Non so, non me ne intendo di queste cose. Di certo, se lo dice lei … - Non ero tanto sicuro della stabilità dell’imbarcazione, e il mio tono di voce tradì la mia perplessità.
- Vorrà dire che un giorno di questi ti ci porterò a fare un giro. Comunque, io sono Marek. Puoi darmi anche del tu, ragazzo; qui ci conosciamo tutti e, il rispetto, lo dimostriamo a fatti. –
- Matìas, piacere. Per l’invito credo sarò costretto a rifiutare, purtroppo ho lo stomaco debole. – dissi, deglutendo vistosamente. A quei tempi soffrivo di mal di mare, e rifiutare l’invito mi parve l’unica mia ancora di salvezza.
- Allora, non ti preoccupare, Matìas. Ho fatto passare il mal di mare a molta gente, di certo riuscirò anche con te. Il segreto è nell’ascoltare ciò che ti dice l’acqua. Vedrai. Fallo per me, solo un giro senza allontanarsi troppo dalla spiaggia, così se non ti va proprio giù ti riporto subito indietro. – Non so perché, ma il suo linguaggio umile e schietto mi interessò subito. Accettai quasi senza indugio: in fondo, era solo un giro …
- Domattina alle dieci e mezza scendi in spiaggia. Ci incontriamo qui, vicino alla rimessa per le barche. Va bene? – mi chiese, cordiale come sempre. – Certo, ci sarò. – risposi, sorridendo.
- Ora ci conviene risalire al villaggio, la cena deve essere quasi pronta. – Disse, e così s’incamminò verso il sentiero che saliva alle case, senza aspettare che lo seguissi. Rimasi ancora qualche attimo lì, a guardare il sole che si nascondeva fra le onde e il cielo dipinto di viola del tramonto inoltrato. Quando risalii anch’io, non feci in tempo ad arrivare alla mia camera che era già scesa la sera.
Il mattino dopo mi svegliai di buonora, e siccome mancava ancora molto all’appuntamento, decisi di farmi una passeggiata nella pineta. I cammini erano stretti e non molto comodi, ma il paesaggio era da mozzare il fiato. I pini erano fitti, ma a tratti comparivano viste meravigliose sul mare. Nonostante il forte odore di salsedine, prevaleva anche il dolce e fresco profumo di resina. Un manto di aghi ricopriva il terreno.
Quella breve escursione mi servì per acquietarmi l’animo. La notte prima avevo sognato la donna misteriosa, e nonostante la vita spensierata che conducevo nella città bianca, lei era un pensiero continuo e opprimente, a discapito del suo bell’aspetto. In sogno, mi tendeva entrambe le mani, come per invitarmi a venirle incontro. Sussurrava parole sconnesse e incomprensibili, perché lo sciabordare delle onde sovrastava ogni altro rumore. Una sola frase, però, mi rimase impressa: “Segui le parole”. La donna l’aveva ripetuta più volte.
Nel corso delle ore successive non ci avrei più pensato, perché non credevo ai sogni premonitori e più che altro giustificavo tutto con il fatto che erano emanazioni del mio inconscio. La mia razionalità mi impediva di ammettere altre versioni oltre quella che scusava i miei dubbi insensati, inconsapevole che nel giro di qualche mese avrei cambiato radicalmente modo di pensare.
Arrivarono le dieci e un quarto, e mi avviai verso la rimessa. La città si diramava su un piccolo promontorio a strapiombo sul mare, affiancato da un’insenatura dove il terreno degradava più dolcemente. Lì, c’era una piccola spiaggia di pietre di medie dimensioni, dove un po’ tutti gli abitanti amavano sostare nelle mattine assolate. Quando vi arrivai, lungo la riva c’era già molta gente intenta a prendere il sole o semplicemente a rinfrescarsi. Più discosto dagli altri, vidi Marek. Anche lui mi scorse, e mi salutò con un caloroso – Ehi, Matìas! – facendo un cenno con la mano. Mi comunicò che il catamarano era già pronto; mancavo solo io.
Mi fece sedere sul telo spesso, teso fra i due scafi dell’imbarcazione. Marek si accomodò al lato opposto, prendendo fra le mani la corda con cui avrebbe fatto girare la vela. Partimmo. Il mare era calmo, benché non si potesse dire che fosse una tavola. Mentre cavalcavamo piano le onde, allontanandoci dai bagnanti, una leggera brezza mi veniva incontro. Affacciandomi leggermente, potevo osservare una moltitudine di piccoli pesci nuotare a pelo d’acqua, quasi volessero inseguire e superare il catamarano.
- Che te ne pare? – disse ad un tratto Marek, riscuotendomi dai miei pensieri.
- È bellissimo. – risposi, senza parole. Il lento sobbalzare della barca mi provocava un leggero voltastomaco, ma il paesaggio distraeva i miei pensieri dal sentore di nausea.
- Come va con il mal di mare? – riprese il mio compagno, quasi mi stesse leggendo nella mente.
- Un po’ male, ma credo di farcela. – Mi voltai verso riva, e notai che adesso Marek stava facendo voltare la barca: preferiva non andare più al largo di così, e proseguimmo costeggiando la spiaggia.
- Adesso, Matìas, prova a fare una cosa. Vediamo se dopo ti senti un po’ meglio. –
Acconsentii. – Che cosa devo fare? –
- Senti l’acqua che scorre sotto gli scafi. Cos’è che ti fa star male? Le onde, il lento su e giù della barca. Se ti concentri su questo movimento, il malore aumenta. Ora guarda la terra, immobile, salda. Dimmi come ti senti. – Fissai lo sguardo sullo strapiombo su cui si ergeva il villaggio. Alla sua base, dove la terra incontrava il mare, si ergevano numerosi scogli, dove l’acqua si infrangeva senza pietà eppure lasciandoli immutati. Più mi concentravo sul ripido pendio privo di vegetazione, lasciando scivolare lo sguardo dove si intravedevano le prime costruzioni della città, più mi sentivo bene. La certezza di avere un posto fermo dove rimettere i piedi mi rendeva sicuro. Ad un tratto il mare divenne solo una sorta di piattaforma rigida, e non percepivo quasi più il movimento della barca. – Mi sento … bene – sorrisi.
- Perfetto. – mi rispose lui, sorridendo a sua volta. – Sai nuotare? – chiese, cambiando d’un tratto argomento.
Annuii vigorosamente. Allora Marek, senza dire nulla, si tolse la maglietta e si buttò in acqua. Riemerse poco dopo a circa un metro di distanza. – Che fai? Non vieni? – gridò. Non gli diedi il tempo di finire di parlare che mi tuffai anch’io.
Passai splendide giornate in sua compagnia. Stranamente, mi ero trovato un amico. Imparai a governare un catamarano, e non solo. Mi insegnò come mantenere una barca in buono stato, e mi mostrò ogni spiaggia e piccola insenatura raggiungibile in una giornata di navigazione. Alcune erano veri spettacoli della natura, inaccessibili da terra, avvicinabili solo dal mare. Altre, erano costantemente in ombra a causa delle coste frastagliate, ma in compenso la roccia scavata aveva formato piccole grotte o scogli dalla forma strana. Intanto, mi ero completamente dimenticato della donna che nei primi giorni mi perseguitava, e anche se ogni tanto ci pensavo, mi pareva sempre più un sogno, un’allucinazione.
Nella città bianca c’era anche un teatro all’aperto. Con Marek ci andavamo quasi ogni sera. Il repertorio era dei più vari, si passava da simpatici cabaret a musical spettacolari, frammezzati da serate di balli scatenati e giochi di gruppo. Quella sera, era la volta del musical. Prendemmo posto sulle gradinate più alte, cercando sempre di avere una buona visuale. Io mi trovavo al fianco di una piccola torretta su cui erano fissate le luci di scena. All’improvviso ci fu un buio assoluto, schiarito solo dalla volta celeste, e ogni mormorio pian piano si spense. Lo spettacolo stava per cominciare. Le prime luci che si accesero furono quelle vicino a me, ma subito si riscontrarono dei problemi: il faro bianco produceva un sordo ronzio, e sul palco la sua luce era interrotta da delle macchie più scure. Alzai lo sguardo e con un po’ di difficoltà scorsi un foglietto incastrato sul vetro del fanale. Senza pensarci due volte cominciai ad arrampicarmi velocemente sulla torretta, così da togliere il foglio e far proseguire lo spettacolo senza intoppi. Nessuno oltre me si era accorto di quale fosse il vero problema, e mi guardavano stupefatti pensando che il tutto derivasse da una lampadina fulminata. Ignorai persino Marek che cercava di fermarmi, perché finché riuscii a distinguere la sua voce ero ormai sceso dalla torretta, con il foglio in mano. Rimasi in piedi, e mi accorsi che sul pezzo di carta era scritta solo una parola, in un minuto ed elegante corsivo: Cefalù. Una fitta mi percorse la testa… segui le parole… segui le parole…
- Matìas, tutto bene? - … segui le parole… segui le parole… Corsi verso la mia stanza, lontano dal chiasso del teatro. Ogni svolta, ogni rampa di scale che percorrevo, il buio si faceva più fitto e il dolore più acuto. Man mano che proseguivo la voce che mi rimbombava in testa acquisiva tono, tanto che ora sembrava quasi che gridasse. Arrivai sotto un arco, lo stesso dove la vidi la prima volta. Ad un tratto sembrò quasi che il tempo si fermasse, ogni suono fu risucchiato via, il mal di testa scomparve così come era venuto. Mi bloccai.
Era lì, illuminata da un mite chiarore lunare, ma stavolta non sorrideva. Mi guardava seria, quasi arrabbiata. La sua mano, poggiata sulla parete, era percorsa da un lieve tremito.
Stregato dal suo sguardo, le gambe non mi sorressero più. Caddi in un vortice nero. Mi accasciai a terra e persi i sensi.
- Avrà avuto solo un malore passeggero… - Bianco. Forme confuse. Voci…
- Crede che si riprenderà? – Ti riconosco! So chi sei! La tua voce…
- Certo. Appena finirà di farsi una bella dormita. – Di chi state parlando? Aiuto… Buio.
Mi risvegliai che era già mattina inoltrata. Attorno a me, numerose brande con candide lenzuola di lino. La luce entrava da molteplici finestre senza tende, che si affacciavano a un’anonima pineta. Ero solo. Provai a mettermi seduto, ma un forte dolore alla testa si opponeva. Nonostante tutto, ci riuscii, continuando a guardarmi intorno. Era un’infermeria. Sì, certo, l’infermeria della città. Qualche giorno prima ero passato a chiedere qualcosa contro il mal di mare. Ma dov’erano tutti?
All’improvviso una porta al lato opposto si aprì, ed entrò a passi veloci un medico panciuto e dal volto sereno.
- Ah, Matìas… Finalmente ti sei svegliato! Come va? – chiese, sorridendomi.
- Non saprei, ho un forte dolore alla testa. Non ricordo niente. Che è successo? – risposi, confuso.
Il medico si avvicinò porgendomi un bicchiere d’acqua e una pillola. Li presi, aspettando il suo responso. – Beh, questo dovresti dirmelo tu. Marek ti ha trovato lungo disteso nei pressi della tua camera. Avevi sbattuto la testa e perso i sensi. Ti ha portato qui, pensando a qualcosa di grave, ma è stata solo una brutta caduta. Comunque ha detto che fra un po’ passava a trovarti. Riposati, adesso. –
- Sì, va bene… - dissi, stendendomi. Ero certo che non fosse stata solo una caduta, ma non riuscivo a ricordare altro.
Dopo qualche minuto entrò Marek, puntualissimo. Si sedette sul bordo del letto, guardandomi. Non disse nulla. Sembrava quasi che non trovasse le parole, o che preferisse starsene zitto per non ferirmi. Poi esplose: - Che ti è successo?! –
- Il dottore ha detto che sono semplicemente caduto e… -
- No, ieri. Che ti è saltato in mente? – mi interruppe. Era rosso in viso.
- Come… Io… Non lo so. – risposi abbassando gli occhi.
- Sei salito a prendere quel maledetto foglio e poi ti sei messo a correre. Sei quasi fuggito. E poi… poi quando ti ho raggiunto ti ho trovato là, steso a terra. Per un attimo ho pensato che fossi morto. Avevi un espressione sconvolta. Mi hai fatto prendere un colpo. –
Ascoltandolo, mi erano tornati in mente alcuni momenti della sera prima. Tutto si faceva più chiaro… la scritta… la frase che sentivo… lei.
Era tutto pronto. Avevo raccolto le mie poche cose in uno zaino. Cefalù distava tredici chilomentri, e di lì a mezz’ora sarebbe partito l’autobus che mi ci avrebbe portato. Non avevo detto niente a nessuno, e a Marek avevo accennato ad una gita fuori villaggio che sarebbe durata meno di un giorno. Portavo sempre poco con me, quindi non si sarebbe accorto tanto presto che forse me ne sarei andato per sempre. Il giorno prima, la nostra discussione era rimasta sospesa, con me che gli dicevo che gli avrei spiegato tutto quando sarebbe giunto il momento, ma quando ci salutammo entrambi non avevamo voglia di riaprire quello spiacevole capitolo. Lo abbracciai per qualche secondo, gli strinsi la mano, il tutto contornato da poche parole. Dovevo fare di tutto per non farlo sembrare un addio. Salii sull’autobus, e quello partì quasi immediatamente, lasciandomi lì, affacciato al finestrino, a guardare il mio amico scomparire alla prima curva del mezzo. Il mio soggiorno nella città bianca, durato meno di dieci giorni, era apparentemente finito.
Qui più che negli altri scritti ho bisogno di un vostro consiglio, e di sapere ciò che pensate, che siano commenti positivi o negativi. I secondi, forse, sono proprio quelli più necessari.
"Sono un poeta. Un poeta maledetto. Un poeta che parla di luoghi che non ha mai visto, di amori che non ha mai vissuto, di mari che non ha mai solcato. Un poeta che vive la sua vita girando come un menestrello, ma che non sa suonare strumento se non le flebili corde del cuore. Sono un poeta. Un poeta con il mal di mare. Sono un poeta. Un poeta maledetto."
1 – La città bianca
Il sole acceca nella sua calda e torrida luce da tardo pomeriggio. Si riflette stanco sull’acqua, che ora è colorata da sprazzi dorati come una parete bizantina appena affrescata. L’aria è afosa, pesante, i capelli si attaccano umidi al viso, e l’unica possibile sembra bagnarsi; mera consolazione o appagamento passeggero? La frescura dell’ombra è effimera, mentre la fontana prosegue nel suo instancabile getto, simile a una cascata a gradinate. Sopra, un sole di ceramica su uno sfondo verde pastello, sorride sornione e osserva tranquillo. Si sente odore di mare, misto a cloro e fiori. Dall’alto delle colline ricche di vegetazione mediterranea, un paese si affaccia, arroccato in cima, e ogni casa sembra sospesa sull’orlo del mondo, retta dalle radici dei suoi alberi e da piastre di vetro invisibili. Sotto la luce pomeridiana, tutti gli edifici assumono la stessa colorazione: un arancio spento che sfuma nel giallo dei limoni, rischiarato dall’oro della natura, malinconico e acceso, mutevole.
Mi dirigo a passi strascicati e lenti verso l’intrico di edifici alle spalle della polla d’acqua. Sotto le arcate coperte di folte Bougainville si aprono due strette scalinate in pietra, poi corridoi bassi e angusti conducono a fantastici labirinti su più piani, da cui si affacciano anonimi porticati e finestre dipinte di un verde scuro. Qui, stanno le entrate delle case del luogo. Le porte sono simpatici anfratti azzurri traforati nel basso, e si nascondono perfettamente fra i vari vicoli delle abitazioni. Palazzi che in fondo sono tutti collegati fra loro: che si tratti di un arco, un’angusta galleria o semplici rampicanti, poi, è poca cosa. Nonostante l’ambiente possa apparire alquanto soffocante, il tutto viene facilmente mitigato dalle pareti rustiche bianco ghiaccio che ti accompagnano in ogni angolo; il loro colore abbacinante propaga i raggi del sole. L’impiantito varia dal rosso della terracotta al grigio delle pietre, mentre la flora si insinua ovunque senza mai dare l’impressione di trovarti in un luogo selvaggio o simile a una giungla, mantenendo il suo mite ordine come una giardiniera indipendente. Le piante sono per lo più rampicanti di varie specie, gerani; alte palme e magnolie per i giardini di forma quadrata che ricordano vagamente i cortili interni dei monasteri; pini secolari e cespugli indefiniti nella pineta che circonda la piccola città.
Salgo una gradinata stretta, sedici scalini che mi portano su un terrazzino affacciato alla zona alberata, preceduto da due porte. Fra i fitti aghi di pino si scorge il blu del mare, una distesa d’acqua cristallina leggermente increspata; tra i possenti tronchi nodosi si snoda un sentiero che degrada più o meno dolcemente verso la spiaggia. Prendo una boccata d’aria e tiro fuori la chiave della mia stanza. Ambiente 413. Apro così l’entrata sulla destra, lasciandomi avvolgere dalla folata fresca che mi accoglie. La camera è piccola, ma ben arredata sui toni dell’azzurro e del verde acqua. E, come se non bastasse, un lucernario blu a muro si apre di fronte al letto appena fatto, lasciando entrare una flebile luce che da l’impressione di trovarsi in un acquario. Mi sdraio con le mani poggiate dietro la nuca, e comincio a pensare …
È un’emozione che dura nel tempo. Adoravo quel posto. Ah, come lo adoravo. La cosa forse più stupefacente era il dolce silenzio che regnava in ogni luogo, lì, e che rendeva il rumore soave delle onde del mare una presenza costante e amica.
Ricordo che l’incantevole città bianca fu l’inizio del mio viaggio spirituale, e ancora adesso mi viene da pensare che forse non avrei potuto desiderare un inizio migliore. Vi vissi pochi giorni, fra la magia di quel posto sperduto; ma non ebbi il tempo di ammirarlo come avrei dovuto, perché una visione ancor più angelica mi sorprese. Mentre vagavo spensierato fra i suoi vicoletti, in una mattina assolata, mi imbattei in una donna. Mi stregò dal primo momento che la vidi …
È solo un attimo. Fugace. Sto per svoltare sulla destra e inoltrarmi nella pineta, quando, dall’arcata che si affaccia sul mare, vedo una donna. Ha i capelli corvini e mossi, lunghi fin sotto le spalle. Degli occhi leggermente a mandorla, con delle ciglia lunghe e marcate, mi guardano profondi. Sono azzurro cielo, distesi in una serenità unica, che il solo rispondere al suo sguardo mi provoca brividi freschi e una beatitudine incommensurabile. Indossa una veste semplice,bianca, con un nastro azzurro stretto in vita; le arriva fino alle caviglie, e segue ogni suo movimento in ampie volute. Ha un grande fiore rosso fra i capelli, che sfuma nel nero al centro, dove si affacciano lunghi pistilli gialli. Lei allora continua a camminare, indifferente, ma so che il suo sorriso è rivolto solo a me. Quando il mio sguardo la perde, non mi sfiora nemmeno l’idea di seguirla. Sono folgorato, ma non me ne stupisco. Non mi chiedo chi è, che ci fa qui, perché non l’ho notata prima. Sono certo che la rivedrò presto. Rimango così, appoggiato alla parete, ad osservare quell’arco dove è passata pochi secondi prima, e dove ora luccica il brillante blu del mare.
I giorni successivi li passai osservando la gente del posto. Mi colpirono la sua eleganza e timida compostezza, il silenzio che faceva da padrone alla tranquillità mista a sparuti casi d’ignoranza. I pochi bambini avevano sguardi consapevoli e compiaciuti, i giochi infantili non superavano mai la soglia delle parole, lasciando indenne l’atmosfera ovattata. Un paradiso non troppo dimenticato, ma privilegio di pochi.
Nella comunità spiccavano come fiori del deserto i giovani che si occupavano della manutenzione del sorriso comune, clown improvvisati che ti donavano la felicità e il piacere di una conversazione come i piccoli rom che ti offrono rose agli angoli delle strade, senza pretendere molto in cambio. Fra essi, conobbi un uomo la cui età sfiorava la trentina, dai tratti forti e le braccia vigorose, ma sempre con una traccia di fanciullezza nel viso.
Stavo camminando sulla riva della spiaggia di ciottoli, quando lo vidi trafficare con delle funi. Non era la prima volta che lo incontravo, ma non mi ci ero mai avvicinato più di tanto. Rimasi a fissarlo, curioso di sapere l’esito del suo strano esperimento. Poco dopo compresi che cercava di arenare un catamarano abbastanza dimesso, ma comunque ancora funzionale. L’operazione durò pochi minuti, e prima che me ne accorgessi lui mi si avvicinò, asciugandosi il sudore dalla fronte con un asciugamano arancione.
- Bello, eh? La vernice è un po’ scrostata, ma cavalca le onde che è una meraviglia. – intuii che si stesse rivolgendo a me. Notai che guardava soddisfatto la barca, e risposi: - Non so, non me ne intendo di queste cose. Di certo, se lo dice lei … - Non ero tanto sicuro della stabilità dell’imbarcazione, e il mio tono di voce tradì la mia perplessità.
- Vorrà dire che un giorno di questi ti ci porterò a fare un giro. Comunque, io sono Marek. Puoi darmi anche del tu, ragazzo; qui ci conosciamo tutti e, il rispetto, lo dimostriamo a fatti. –
- Matìas, piacere. Per l’invito credo sarò costretto a rifiutare, purtroppo ho lo stomaco debole. – dissi, deglutendo vistosamente. A quei tempi soffrivo di mal di mare, e rifiutare l’invito mi parve l’unica mia ancora di salvezza.
- Allora, non ti preoccupare, Matìas. Ho fatto passare il mal di mare a molta gente, di certo riuscirò anche con te. Il segreto è nell’ascoltare ciò che ti dice l’acqua. Vedrai. Fallo per me, solo un giro senza allontanarsi troppo dalla spiaggia, così se non ti va proprio giù ti riporto subito indietro. – Non so perché, ma il suo linguaggio umile e schietto mi interessò subito. Accettai quasi senza indugio: in fondo, era solo un giro …
- Domattina alle dieci e mezza scendi in spiaggia. Ci incontriamo qui, vicino alla rimessa per le barche. Va bene? – mi chiese, cordiale come sempre. – Certo, ci sarò. – risposi, sorridendo.
- Ora ci conviene risalire al villaggio, la cena deve essere quasi pronta. – Disse, e così s’incamminò verso il sentiero che saliva alle case, senza aspettare che lo seguissi. Rimasi ancora qualche attimo lì, a guardare il sole che si nascondeva fra le onde e il cielo dipinto di viola del tramonto inoltrato. Quando risalii anch’io, non feci in tempo ad arrivare alla mia camera che era già scesa la sera.
Il mattino dopo mi svegliai di buonora, e siccome mancava ancora molto all’appuntamento, decisi di farmi una passeggiata nella pineta. I cammini erano stretti e non molto comodi, ma il paesaggio era da mozzare il fiato. I pini erano fitti, ma a tratti comparivano viste meravigliose sul mare. Nonostante il forte odore di salsedine, prevaleva anche il dolce e fresco profumo di resina. Un manto di aghi ricopriva il terreno.
Quella breve escursione mi servì per acquietarmi l’animo. La notte prima avevo sognato la donna misteriosa, e nonostante la vita spensierata che conducevo nella città bianca, lei era un pensiero continuo e opprimente, a discapito del suo bell’aspetto. In sogno, mi tendeva entrambe le mani, come per invitarmi a venirle incontro. Sussurrava parole sconnesse e incomprensibili, perché lo sciabordare delle onde sovrastava ogni altro rumore. Una sola frase, però, mi rimase impressa: “Segui le parole”. La donna l’aveva ripetuta più volte.
Nel corso delle ore successive non ci avrei più pensato, perché non credevo ai sogni premonitori e più che altro giustificavo tutto con il fatto che erano emanazioni del mio inconscio. La mia razionalità mi impediva di ammettere altre versioni oltre quella che scusava i miei dubbi insensati, inconsapevole che nel giro di qualche mese avrei cambiato radicalmente modo di pensare.
Arrivarono le dieci e un quarto, e mi avviai verso la rimessa. La città si diramava su un piccolo promontorio a strapiombo sul mare, affiancato da un’insenatura dove il terreno degradava più dolcemente. Lì, c’era una piccola spiaggia di pietre di medie dimensioni, dove un po’ tutti gli abitanti amavano sostare nelle mattine assolate. Quando vi arrivai, lungo la riva c’era già molta gente intenta a prendere il sole o semplicemente a rinfrescarsi. Più discosto dagli altri, vidi Marek. Anche lui mi scorse, e mi salutò con un caloroso – Ehi, Matìas! – facendo un cenno con la mano. Mi comunicò che il catamarano era già pronto; mancavo solo io.
Mi fece sedere sul telo spesso, teso fra i due scafi dell’imbarcazione. Marek si accomodò al lato opposto, prendendo fra le mani la corda con cui avrebbe fatto girare la vela. Partimmo. Il mare era calmo, benché non si potesse dire che fosse una tavola. Mentre cavalcavamo piano le onde, allontanandoci dai bagnanti, una leggera brezza mi veniva incontro. Affacciandomi leggermente, potevo osservare una moltitudine di piccoli pesci nuotare a pelo d’acqua, quasi volessero inseguire e superare il catamarano.
- Che te ne pare? – disse ad un tratto Marek, riscuotendomi dai miei pensieri.
- È bellissimo. – risposi, senza parole. Il lento sobbalzare della barca mi provocava un leggero voltastomaco, ma il paesaggio distraeva i miei pensieri dal sentore di nausea.
- Come va con il mal di mare? – riprese il mio compagno, quasi mi stesse leggendo nella mente.
- Un po’ male, ma credo di farcela. – Mi voltai verso riva, e notai che adesso Marek stava facendo voltare la barca: preferiva non andare più al largo di così, e proseguimmo costeggiando la spiaggia.
- Adesso, Matìas, prova a fare una cosa. Vediamo se dopo ti senti un po’ meglio. –
Acconsentii. – Che cosa devo fare? –
- Senti l’acqua che scorre sotto gli scafi. Cos’è che ti fa star male? Le onde, il lento su e giù della barca. Se ti concentri su questo movimento, il malore aumenta. Ora guarda la terra, immobile, salda. Dimmi come ti senti. – Fissai lo sguardo sullo strapiombo su cui si ergeva il villaggio. Alla sua base, dove la terra incontrava il mare, si ergevano numerosi scogli, dove l’acqua si infrangeva senza pietà eppure lasciandoli immutati. Più mi concentravo sul ripido pendio privo di vegetazione, lasciando scivolare lo sguardo dove si intravedevano le prime costruzioni della città, più mi sentivo bene. La certezza di avere un posto fermo dove rimettere i piedi mi rendeva sicuro. Ad un tratto il mare divenne solo una sorta di piattaforma rigida, e non percepivo quasi più il movimento della barca. – Mi sento … bene – sorrisi.
- Perfetto. – mi rispose lui, sorridendo a sua volta. – Sai nuotare? – chiese, cambiando d’un tratto argomento.
Annuii vigorosamente. Allora Marek, senza dire nulla, si tolse la maglietta e si buttò in acqua. Riemerse poco dopo a circa un metro di distanza. – Che fai? Non vieni? – gridò. Non gli diedi il tempo di finire di parlare che mi tuffai anch’io.
Passai splendide giornate in sua compagnia. Stranamente, mi ero trovato un amico. Imparai a governare un catamarano, e non solo. Mi insegnò come mantenere una barca in buono stato, e mi mostrò ogni spiaggia e piccola insenatura raggiungibile in una giornata di navigazione. Alcune erano veri spettacoli della natura, inaccessibili da terra, avvicinabili solo dal mare. Altre, erano costantemente in ombra a causa delle coste frastagliate, ma in compenso la roccia scavata aveva formato piccole grotte o scogli dalla forma strana. Intanto, mi ero completamente dimenticato della donna che nei primi giorni mi perseguitava, e anche se ogni tanto ci pensavo, mi pareva sempre più un sogno, un’allucinazione.
Nella città bianca c’era anche un teatro all’aperto. Con Marek ci andavamo quasi ogni sera. Il repertorio era dei più vari, si passava da simpatici cabaret a musical spettacolari, frammezzati da serate di balli scatenati e giochi di gruppo. Quella sera, era la volta del musical. Prendemmo posto sulle gradinate più alte, cercando sempre di avere una buona visuale. Io mi trovavo al fianco di una piccola torretta su cui erano fissate le luci di scena. All’improvviso ci fu un buio assoluto, schiarito solo dalla volta celeste, e ogni mormorio pian piano si spense. Lo spettacolo stava per cominciare. Le prime luci che si accesero furono quelle vicino a me, ma subito si riscontrarono dei problemi: il faro bianco produceva un sordo ronzio, e sul palco la sua luce era interrotta da delle macchie più scure. Alzai lo sguardo e con un po’ di difficoltà scorsi un foglietto incastrato sul vetro del fanale. Senza pensarci due volte cominciai ad arrampicarmi velocemente sulla torretta, così da togliere il foglio e far proseguire lo spettacolo senza intoppi. Nessuno oltre me si era accorto di quale fosse il vero problema, e mi guardavano stupefatti pensando che il tutto derivasse da una lampadina fulminata. Ignorai persino Marek che cercava di fermarmi, perché finché riuscii a distinguere la sua voce ero ormai sceso dalla torretta, con il foglio in mano. Rimasi in piedi, e mi accorsi che sul pezzo di carta era scritta solo una parola, in un minuto ed elegante corsivo: Cefalù. Una fitta mi percorse la testa… segui le parole… segui le parole…
- Matìas, tutto bene? - … segui le parole… segui le parole… Corsi verso la mia stanza, lontano dal chiasso del teatro. Ogni svolta, ogni rampa di scale che percorrevo, il buio si faceva più fitto e il dolore più acuto. Man mano che proseguivo la voce che mi rimbombava in testa acquisiva tono, tanto che ora sembrava quasi che gridasse. Arrivai sotto un arco, lo stesso dove la vidi la prima volta. Ad un tratto sembrò quasi che il tempo si fermasse, ogni suono fu risucchiato via, il mal di testa scomparve così come era venuto. Mi bloccai.
Era lì, illuminata da un mite chiarore lunare, ma stavolta non sorrideva. Mi guardava seria, quasi arrabbiata. La sua mano, poggiata sulla parete, era percorsa da un lieve tremito.
Stregato dal suo sguardo, le gambe non mi sorressero più. Caddi in un vortice nero. Mi accasciai a terra e persi i sensi.
- Avrà avuto solo un malore passeggero… - Bianco. Forme confuse. Voci…
- Crede che si riprenderà? – Ti riconosco! So chi sei! La tua voce…
- Certo. Appena finirà di farsi una bella dormita. – Di chi state parlando? Aiuto… Buio.
Mi risvegliai che era già mattina inoltrata. Attorno a me, numerose brande con candide lenzuola di lino. La luce entrava da molteplici finestre senza tende, che si affacciavano a un’anonima pineta. Ero solo. Provai a mettermi seduto, ma un forte dolore alla testa si opponeva. Nonostante tutto, ci riuscii, continuando a guardarmi intorno. Era un’infermeria. Sì, certo, l’infermeria della città. Qualche giorno prima ero passato a chiedere qualcosa contro il mal di mare. Ma dov’erano tutti?
All’improvviso una porta al lato opposto si aprì, ed entrò a passi veloci un medico panciuto e dal volto sereno.
- Ah, Matìas… Finalmente ti sei svegliato! Come va? – chiese, sorridendomi.
- Non saprei, ho un forte dolore alla testa. Non ricordo niente. Che è successo? – risposi, confuso.
Il medico si avvicinò porgendomi un bicchiere d’acqua e una pillola. Li presi, aspettando il suo responso. – Beh, questo dovresti dirmelo tu. Marek ti ha trovato lungo disteso nei pressi della tua camera. Avevi sbattuto la testa e perso i sensi. Ti ha portato qui, pensando a qualcosa di grave, ma è stata solo una brutta caduta. Comunque ha detto che fra un po’ passava a trovarti. Riposati, adesso. –
- Sì, va bene… - dissi, stendendomi. Ero certo che non fosse stata solo una caduta, ma non riuscivo a ricordare altro.
Dopo qualche minuto entrò Marek, puntualissimo. Si sedette sul bordo del letto, guardandomi. Non disse nulla. Sembrava quasi che non trovasse le parole, o che preferisse starsene zitto per non ferirmi. Poi esplose: - Che ti è successo?! –
- Il dottore ha detto che sono semplicemente caduto e… -
- No, ieri. Che ti è saltato in mente? – mi interruppe. Era rosso in viso.
- Come… Io… Non lo so. – risposi abbassando gli occhi.
- Sei salito a prendere quel maledetto foglio e poi ti sei messo a correre. Sei quasi fuggito. E poi… poi quando ti ho raggiunto ti ho trovato là, steso a terra. Per un attimo ho pensato che fossi morto. Avevi un espressione sconvolta. Mi hai fatto prendere un colpo. –
Ascoltandolo, mi erano tornati in mente alcuni momenti della sera prima. Tutto si faceva più chiaro… la scritta… la frase che sentivo… lei.
Era tutto pronto. Avevo raccolto le mie poche cose in uno zaino. Cefalù distava tredici chilomentri, e di lì a mezz’ora sarebbe partito l’autobus che mi ci avrebbe portato. Non avevo detto niente a nessuno, e a Marek avevo accennato ad una gita fuori villaggio che sarebbe durata meno di un giorno. Portavo sempre poco con me, quindi non si sarebbe accorto tanto presto che forse me ne sarei andato per sempre. Il giorno prima, la nostra discussione era rimasta sospesa, con me che gli dicevo che gli avrei spiegato tutto quando sarebbe giunto il momento, ma quando ci salutammo entrambi non avevamo voglia di riaprire quello spiacevole capitolo. Lo abbracciai per qualche secondo, gli strinsi la mano, il tutto contornato da poche parole. Dovevo fare di tutto per non farlo sembrare un addio. Salii sull’autobus, e quello partì quasi immediatamente, lasciandomi lì, affacciato al finestrino, a guardare il mio amico scomparire alla prima curva del mezzo. Il mio soggiorno nella città bianca, durato meno di dieci giorni, era apparentemente finito.
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3 commenti:
Il racconto è ambientato in'Italia?
Sì, in particolare la 'città bianca' è un villaggio in provincia di finale di Pollina, in Sicilia. Nei prossimi capitoli prevedo di descrivere un viaggio nei luoghi italiani che mi hanno colpito di più :)
il poeta maledetto
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