Il Cacciatore di Bolle
Per Clarissa.
Una scia di bolle si riversa nell’acqua, due, tre, quattromila lucide sfere che scompaiono e ricompaiono fra i flutti, e che inneggiano battaglia con la spuma biancastra loro compagna. Le si può vedere, dietro la barca, che continuano a rendere il mare uno smeraldo rilucente, bolle che sono i picchi brillanti delle sue oscure sfaccettature. Man mano che l’imbarcazione s’allontana con il lento rollare dei remi, anche loro spariscono alla vista, eppure, là, all’orizzonte dove la spiaggia diventa sempre più una striscia d’ignoto, uno sfavillare improvviso fa pensare che ce ne siano ancora. Per quanto tu le possa scacciare, per quanto questa scia possa perdersi fra le sue acque salmastre, un gruppo di bolle spavalde segnerà il cammino. E ne porterà il ricordo, come ogni bolla è un sogno che, al suo scoppiare, s’interrompe e si acquieta fra le lande del suo onirico mondo.
Seguendo il flusso al suo nascere, laddove i due filamenti schiumati d’iride s’incontrano in un solo punto, sulla chiatta si scorge un giovane uomo. Il sole di mezzogiorno batte sui suoi capelli indorati, tanto da rischiararli ancora e bruciarli nel caldo tempestivo di una primavera precoce.
I suoi occhi nocciola sono posati sul nulla, semichiusi, piccole gocce di sudore a truccarne le ciglia folte e a inasprirne la fronte liscia. Il ritmato remare pare non voler finire, un avanti e indietro delle solide braccia che non produce effetti, non ora che la visuale della terra è stata inghiottita, lontano, fra i rigurgiti delle onde, e l’instabile base su cui poggia la barca è una coperta fluttuante.
Lo sguardo del ragazzo pare essere concentrato su un particolare che sfugge, qualcosa di incommensurabilmente distante, come solo il sospiro di un pensiero può essere. Intanto che il tempo scorre, una lumaca di mare nell’impotente scenario d’un acquario domestico, la fotografia di questo singolare mondo assume i contorni della stanchezza, della noia. E della voglia di sapere, e scoprire, cosa nascondono l’acqua e le tenere bolle che ne pervadono la superficie.
L’uomo deve aver raggiunto il suo obiettivo, perché abbandona i remi di legno nelle incavature apposite, le punte che ancora sfiorano il pelo del mare in un solletico affettato, l’ombra delle loro forme affusolate che crea due chiazze più scure ai fianchi della chiatta. Quest’ultima è piuttosto piccola, tanto da sembrare una scialuppa di salvataggio di qualche veliero pirata, le stesse lastre lignee appaiono scheggiate in più punti e corrose dal sale, le cicatrici di numerosi, incantevoli viaggi. Nonostante tutto, la forma allungata della barca ne favorisce l’andamento veloce e la stabilità, come se inconsciamente non vedesse l’ora di frangersi sulle rive di nuove conquiste.
Un mormorio s’ode a interrompere la quiete. Lo sciabordare, sottofondo gradevole, ormai scompare, le orecchie acuite a cercare questo suono inquieto e a non perdersene una nota; come un gabbiano affamato, l’udito rapisce la melodia dalle fameliche braccia dell’abisso e ne trangugia ogni impercettibile squama.
«M’avevi chiamata, Cacciatore?»
Ed eccola là, regina del regno, una sirena s’è sporta dalle profondità sue dimore. Poggia le braccia sul bordo della barca, nella metà precisa della sua lunghezza, dove il giovane per qualche istante l’aveva attesa, seduto. Un appuntamento galante si dipana fra le brame del cielo, complice la meriggiata odorosa di saline e di pesci quasi come i pantaloni blu stinto di un pescatore, e avvolge piacevole i due.
La sirena ha una coda lunga che si disperde e sfuma le sue tonalità nell’acqua che le lambisce i fianchi in una carezza effimera e suadente. Ma lo stesso le sue scaglie, finché è possibile scorgerle, attirano per la loro inconsueta lucentezza: un acquamarina misterioso, ma non solo quello, il verde delle alghe e il colore innaturale di un pesce luna, l’effimera sfumatura di un frantume d’ametista, ogni singolo brandello di pelle che racchiude un segreto proveniente dal mare.
E lei li protegge, laggiù, tutti, come timidamente i capelli bagnati le proteggono i seni nudi, ricoprendoli dei loro boccoli castani.
«Mia dolce». Lui che si sporge, seduto su una delle panche malandate del suo tristo vascello carico di barattoli. Stipati, di mille e mille dimensioni diverse, sotto ogni banco, nel ripostiglio chiuso a prua, e nell’ammasso informe sull’altra sponda malamente coperto da un velo plastificato marrone, sembrano vuoti, infagottati nel tappo che ne sigilla l’interno. Ricordano i vasetti di marmellata fatta in casa, le etichette collose slavate dai numerosi lavaggi che assieme alla confettura li rende appiccicosi e sgradevoli al tatto. Alcune contengono qualcosa, oppure è solo un raggio solare più audace degli altri che le cosparge di una polvere d’arcobaleno e lascia intendere, appena, una bolla incatenata all’interno delle ampolle dell’alchimista distratto.
«Cosa vuoi, ancora?» gli occhi di lei, cosparsi dai brillanti di una mestizia sopita, s’inaspriscono con il tono di voce. Mia dolce! Se è così amabile la memoria che porti di me, amami davvero come il mio cuore vorrebbe.
«Dammi un tuo sogno» le si avvicina, fin troppo, tanto che il suo naso tocca quello della sirena, umido d’acqua e pallido, liscio come un frammento di rosa. Vuole, desidera quello che chiede, e la richiesta è quanto mai più simile a un ordine.
«Dammi un tuo bacio» l’eco della sua voce femminile e famelica, un incanto cui nessuno di solito sa resistere. Nessuno tranne il Cacciatore di bolle, che resta impassibile, o forse solo irritato.
E, infatti, egli si discosta, nonostante sia pronto a donarle ogni effusione lei gli chieda, pur di possedere un suo sogno. Ogni Cacciatore sa che non c’è niente di più prezioso della bolla di un respiro di sirena… «Respira, mia dolce, sotto quel velo d’acqua che t’ha fatto nascere». Ora il suo tono di voce è più sereno, ma quasi disperato nella pretesa.
«Ah! Vorrei non averti ascoltato, quando mi abbracciasti quella prima notte di tanti anni fa. Non ho più sogni di cui privarmi». Distoglie lo sguardo, posandolo fra i flutti dove la sua coda teneramente sbatte per mantenerla in superficie. Il suo muoversi per un momento si quieta, quasi voglia lasciarsi annegare dalle onde e interrompere ogni discorso. Tutti i sogni, se non uno… che quella notte, quando cominciai ad amarti, e m’amasti anche tu, continuasse per sempre.
«So che, invece, ne hai ancora». Una certezza, come il sorriso vispo che per un istante gli avvolge il viso. Ogni Cacciatore sa quanti sogni esistono al mondo, ogni bolla è un sogno da catturare: conservarlo, e tenerlo al sicuro, non farlo scoppiare. «I tuoi sogni diventano eterni, se solo li dai a me,» una pausa, e poi, perentorio: «dammene un altro».
«E tu, come li hai custoditi! Mi privi della possibilità di renderli vivi, non è questa una sofferenza di per sé atroce?» e infine la volontà ha il sopravvento, e davvero, in un battito di ciglia, la sirena scompare, solo un velo d’acqua increspato e una spruzzata di gocce a segnarne la partenza. Più giù, l’ultimo bagliore delle sue squame risponde all’arrivederci del lucore del sole. E il sogno di quest’amore, non lo darò mai a nessuno. Poiché, già adesso, è solo puro dolore.
Una lacrima nel mare riesce solo a renderlo più salato, e un pianto porta con sé il silenzio delle stelle che si gettano nel loro riflesso sull’acqua, fiocamente, un riverbero lontano. Di fronte alla distesa che balugina appena, un altro rischiararsi più recente sfoggia gocce di luce nella notte. Dagli edifici si scorgono le ombre del movimento all’interno delle finestre, varchi illuminati da lampade dal caldo colore giallino, e i lampioni delle strade punteggiano percorsi sconosciuti.
Un sentiero si fa largo fra esso, buio, oscuro, la via per la solitudine: s’avvinghia ai viandanti sperduti, agli innamorati non corrisposti, alle madri in pena per qualcosa che non sanno descrivere, un presentimento, la nostalgia, un rimpianto nascosto.
Il porto è incavato in una baia naturale, al di là di un promontorio su cui s’inerpica la cittadella. Poi, spiagge che degradano gradualmente nella riva, e lidi già chiusi, e nessuno di cui si scorgano le orme sulla sabbia battuta.
«Perché piangi?» una voce soave, attutita dal traffico della parte abitata e dal lungomare in fermento. Diversi metri però dividono la confusione della gente dal tetro rifugio nei pressi della risacca.
Il ragazzo, seduto sulla rena, alza gli occhi offuscati e cerca invano di ghermire nell’aria un volto, un ritratto, a cui accompagnare quelle parole. Ma il suo intuito è schiacciato dal peso della solitudine che, tempo prima, l’aveva ricondotto sul suo sentiero di sangue. Abbandona la ricerca, solo risponde: «Perché mi ero perso, e ora la mia vita m’ha ritrovato».
«Non puoi smarrirti di nuovo, se questo è capace di renderti felice?» chiede ancora. Il giovane s’accorge che il timbro è vagamente femminile, e si trascina dietro un’eco affabile come il frusciare delle onde.
«Non so il modo» tace per un istante, le labbra semischiuse per lasciarvisi insinuare un pensiero, una commiserata consapevolezza prima perduta, «non so più il modo». Ha una mano poggiata sulla fronte, a reggere una frangia sbarazzina del color dell’oro.
«Comunque, hai perduto questo». Si sente il rumore di qualcosa di metallico sbattuto in terra, il clangore smorzato dagli sbuffi dei granelli di sabbia che si dividono per raccogliere in una conca l’oggetto. La voce continua, un’altra domanda: «Cos’è?»
Lui prende il manufatto e se lo rigira fra le mani, un sorriso lieve che gli increspa le labbra. Fra i palmi sente un manico lungo e legnoso, e alla punta quella rete dalle trame vicine, una pellicola viscosa e lievemente appiccicosa come la tela di un ragno, tesa a unire gli spazi fra i filamenti. Sotto i piedi nudi, avverte d’improvviso l’acqua fresca della sera lambirgli le dita. Quando si era seduto, era ancora il tramonto, e la marea non era così alta. «È il mio retino acchiappa-bolle». L’altra gli risponde con una risata cristallina, e il lieve battere di qualcosa… gli ricorda la coda di un pesce che s’agita sul bancone di un pescatore. «Cosa ci trovi di tanto ridicolo?». Fa lui, sprezzante.
«Niente», dice la donna, ma il richiamo del suo riso le rende le parole tremule e acute. «Dimmi, Cacciatore, cosa ci trovi tu di tanto bello nell’acchiappar bolle?».
Il ragazzo sussulta sentendo una mano bagnata agguantargli il braccio sinistro in una stretta delicata. Volta il viso in quella direzione, e i suoi occhi incontrano quelli di una giovane che gli sta sorridendo. Nella luce delle stelle, vede un bagliore tentennare sulle sue pupille, ma i colori sono sfocati, persi in un gioco di flebili chiaroscuri e blu intensi. Si lascia catturare da quello sguardo marino, e comincia a parlare: «Trovo sogni. Li conservo» si ferma, come cercando di trovare una via semplice per racchiudere il tutto, e scacciare la confusione dal volto di lei. Le loro mani ora sono intrecciate, e il suo profumo salato gli inebria la mente.
«Sono… un Cacciatore di bolle. Ogni bolla è un sogno, e quando essa scoppia anche il sogno scompare, forse per una dormita interrotta, lo svegliarsi da un incubo, la fermata del treno tanto atteso che di colpo arriva troppo presto. Una sveglia che ti scuote di prima mattina» viene impadronito da un tentennamento breve quanto un respiro preso, profondo, a incanalare nei polmoni l’aria fresca della calma serata estiva. «C’è qualcosa di affascinante nel rubare quei sogni prima che scompaiano del tutto.»
«Cacciatore! Ladro, invero. Che te ne fai, di tutti questi sogni?» la fanciulla è incuriosita, e a ogni verbo pronunciato si fa più vicina, attratta da lui, uno sciabordio sommesso che accompagna ogni sua mossa.
«Li conservo» di nuovo lo stesso termine, per descrivere il suo compito, il suo inafferrabile gioco. «Ho delle ampolle in cui le bolle non potranno mai rompersi. Dovresti vederle, nello scantinato, tutte insieme danno l’impressione di un magazzino angelico. Un tocco di luce e ti trovi sommerso in un arcobaleno abbagliante. I sogni lì saranno eterni, mentre le persone a cui li ho sottratti continueranno a vivere normalmente… senza di essi».
«È crudele» sussurra lei, e il suo respiro arriva a sfiorargli la guancia in un tenero tocco.
«È normale. Non puoi interrompere un sogno. I sogni sono qualcosa di speciale, di fragile. Vanno tenuti al sicuro, lontano da chi non ne comprende la vera importanza, da chi non ne apprezza la frangibile bellezza». Un velo di malinconia si posa sul tono del giovane.
«Parlami delle bolle, invece. Sono solo semplici bolle! Ne esisteranno a miliardi, nel mondo, troppe per essere tutte sogni» l’incredulità di lei è tangibile nell’aria.
Il ragazzo cerca il suo sguardo. «Forse non sogni abbastanza».
«E tu? Hai ancora qualche sogno?».
«Non ne ho mai avuti».
Esistono tanti tipi di bolle, ognuno per una specifica varietà di sogno. Il ribollire dell’acqua in una pentola per cuocere la pasta, le bollicine dello sbrodolare di un bambino o quelle che spuntano su una pozzanghera mentre piove. Il bagnoschiuma in una vasca, il sapone fatto apposta per le bolle. Il respiro di qualcuno sott’acqua.
Il respiro di una sirena. Quanti le ho già rubato? Quanti ne ho mozzati, con i miei baci, e le bolle che mi ha donato?
Il Cacciatore si getta nel mare, dietro alle ultime chiazze di colore che rivelano la presenza di lei. Nuota, per quanto sa, fino in fondo agli abissi, il fiato che gli manca in gola ad ogni apertura delle braccia in più, ad ogni grado di temperatura che s’allontana come la macchia indistinta del sole sopra di loro.
Ricorda il sapore del bacio che quella notte si scambiarono, sotto un cielo privo di luna, e i sogni che cominciò a rubarle da allora, da quando s’accorse di quella sua natura gentile e stupenda. Ricorda il sapore della sua pelle, che in quegli anni non è mai cambiato, fresco come il succo di una noce di cocco, salato e piacevole come un riccio di mare. Prezioso come una rara conchiglia.
Sempre più in basso, a caccia di un sogno. E il paesaggio, quest’acqua inconsuetamente gelida che perfora i pori del viso e pizzica le mani, è davvero da sogno. Si estende, placido, in ogni direzione, e avvolge tenero, una coperta che leva i sensi e intorpidisce le membra, e guida a un sonno vicino.
Le sue braccia lo circondano, anche se non sa da dove è spuntata. Fino a un attimo prima sembrava così distante, sembrava che l’avesse persa, e il Cacciatore non voleva che perdersi con lei. Ma ora la sirena lo sta abbracciando e lo stringe forte, il calore del suo petto che con il contatto si diffonde nel suo corpo infreddolito.
Vede le bolle del respiro della donna creare un vortice attorno al suo volto, mischiarsi con i batuffoli dei capelli castani sparsi tutt’attorno e salire in un vortice verso l’alto. Piccole, incredibilmente pregiate, perle rilucenti dell’ultimo sogno della sirena. E nel loro baluginio d’arcobaleno, scorge uno specchio di loro due, quella notte, e per tutti gli incontri a venire, un diorama di ogni bacio e ogni carezza, e ogni tenero contatto.
Un sogno non eterno, forse il più debole e fragile che avesse mai cercato di racchiudere nelle sue ampolle malandate. Se solo non fosse stato un Cacciatore, se solo avesse potuto averne, è certo che quello sarebbe stato un sogno anche suo. E, quando l’ultimo respiro gli sfugge dalle labbra, negli occhi già socchiusi a lasciarsi smarrire dal sonno, una piccolissima bolla s’innalza danzando a confondersi con quelle di lei.
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2 commenti:
Scusa,scusa,scusa,scusa! MI dispiace ma pur essendo venuta tutti i giorni a controllare i tuoi post questo mi era sfuggito presa come ero dagli altri. é magnifico,stupefacente. Scritto meravigliosamente,un idea spettacolare.MI hai fatto sognare veramente tanto.Obbiettivo raggiunto:Grazie di cuore.
by Clarissa
Grazie a te, che mi hai permesso attraverso un titolo di quattro parole di trovare l'ispirazione per un racconto così meraviglioso. Te ne sarò eternamente grata :)
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