giovedì 31 dicembre 2009

PostHeaderIcon Aquila Bianca e Nero Dragone


Solcando gli immensi cieli, fra le montagne del misterioso Oriente, stava - ali spiegate - Aquila Bianca. Il piumaggio bagnato di brina riluceva nel sole del mattino appena nato, bimbo che sorride alla vastità del mondo, e plana’a ella nel vuoto.

Scorse, occhi acuti e stretti sopra il becco arcuato, una nube contorcersi nell’aëre. S’avvicinò arguta, e distinse un dragone dalle spire torte, inquieto, nero e argento nel giorno che viene.

“Cos’hai tanto da dimenarti, Drago?” chiese allora, curiosa e selvaggia anima del cielo.

“Nelle terre spiegate ai nostri piedi, gli ominidi si stanno preparando a qualcosa di grande, mia Regina dei cieli.” Rispose il Dragone, interrompendo la danza. La punta della sua coda verteva alla lontana Cina, miglia al di sotto, e anche i due lunghi baffi che gli si dipartivano dal volto fremevano nel basso.

“Oh, Dragone Nero, ma cosa vuoi tu dagli ominidi? Dipendiamo per caso noi da essi? No, e allora non ti struggere, ché noi vi siamo superiori, sia per corpo che per spirito.” Proclamò fiera, scuotendo le vaste ali.

“Certo che no, Aquila Bianca. Ma, guarda, loro ci venerano, e fra un po’ comincerà l’anno e me consacrato. E pensavo, qualora le stelle novizie giungeranno per miti istanti dai loro sommessi luoghi, se non fosse ora di mostrarmi nella luce fugace della notte promiscua.”

“Cosa ti porta a tal gesto avventato? Tu che ponderi ogni singolo tuffo nelle nuvole bianche, ora ti azzardi a compiere quest’assurdità? Sono solo uomini senza speranza.”
“È per ringraziarli, mia Aquila opalescente.” Disse quindi il Dragone, svolgendo i meandri del suo lungo e suadente corpo, come fumo trasmutato dal vento. “Saranno pur soltanto ominidi incauti, ma hanno sogni, desideri, fantasie che vanno accompagnate con un pizzico di fortuna. Stanotte è l’ultimo giorno dell’anno, e io passerò sul mondo a spargere la mia polvere di stelle, sicché porti buona ventura a questo popolo in disgrazia.”

“Sciocco!” proruppe l’Aquila, e aprì il becco, ove si intravide per un attimo la sua gola gemmata e fiammeggiante d’ira. “Coglieranno la tua polvere in sacchi d’argilla, e ne faranno concime per i loro vizi. Il tuo sacrificio sarà vano.”

“Da quant’è che noi Guardiani del cielo non aiutiamo gli uomini? Paiono secoli, forse intere dinastie di imperatori. Se per noi il tempo è solo una parentesi della vita, per loro ci son già state almeno tre reincarnazioni, che non mi sembrano esigue. E le anime, nelle ultime esistenze, non sono cresciute. Da quant’è che non ne sale una a farci compagnia, a diventare un nuovo Guardiano?”

“Io fui l’ultima, Dragone.” Disse l’Aquila, abbassando il capo. “e ciò accadde ben cinquecento anni addietro. Dopo di me non ascesero altre anime, ne sono certa.” Poi proseguì, poggiando anch’ella lo sguardo vetusto sulle terre del basso, ove si vedeva la muraglia sacra alla Cina allungarsi per enormi distanze. “Lo scorso Dono, lo ricordo bene, fu del Serpente Piumato. Compì la sua muta in terra, e allora gli ominidi si ricoprirono d’oro.”

“E ci fu pace e amore.” Concluse il Dragone Nero. “Ci sono Regnanti che giurerebbero che, se potesse tornare indietro, il Serpente Piumato lo rifarebbe ancora. Egli stesso, tutt’oggi, dall’alto degli universi dove ora dimora, lo ammette.”

“Non ci lasciare, Dragone.” Supplicò allora l’Aquila, cristalli che si formavano alla punta degli occhi smeraldini, per poi cadere come perle nel nulla del cielo. “Spero tu abbia conservato un po’ dell’egoismo terrestre. Se così è, tiralo fuori e risparmiati. I pezzi del tuo cuore puro non andranno dispersi inutilmente.”

“Forse stiamo un po’ affollati, qua sopra, forse è proprio per questo che la mia decisione persiste…” e un lieve sorriso increspò le dolci labbra del Drago. “I Regnanti dall’alto hanno trascritto nel firmamento lunghe prose sulla gioia del Dono. È un’estasi senza precedenti, così dicono. Non sto trovando fatue scuse, Aquila, voglio solo rassicurarti. Ormai non mi porterai indietro, ma, se vorrai, potrai accompagnarmi in quest’ultimo viaggio.”

Aquila Bianca, pensierosa e casta, prese la sua decisione. Intanto era scesa la sera, poiché nei cieli lo scorrer del tutto segue gli umori dei Guardiani, e scuri erano gli animi quella notte. Aquila Bianca, immane e sicura, esclamò l’ultimo stridio del suo acuto canto. “E sia.”

Il Capodanno cinese, quella notte, fu uno dei migliori mai trascritti dagli scribi reali. Fra i fuochi e le danze, fra le risate e i pianti, tutti – all’improvviso, seguendo l’urlo di un suonatore di gong – voltarono il capo in su, naso all’aria e occhi puntati al cielo. La sorpresa solcò i loro visi, alla vista di un dragone di brillanti e di un’aquila di gemme colorate e preziose che attraversavano la volta celeste. Alcuni confidarono nel miracolo, altri si complimentarono per gli splendidi fuochi, tutti furono pervasi da una nuova e al contempo antica speranza. Perché si apriva una nuova era, più grande e più bella, frutto dei Doni di ben due Guardiani.

Questo racconto necessita di una breve spiegazione. È nato per caso, senza spunti precisi (sempre se il Mahjong non si possa considerare una fonte d’ispirazione), come un po’ tutte le storie migliori. Sono partorite dal nulla, sono orfane, e splendidamente belle.
Qui si parla di anime e di reincarnazioni: secondo la tradizione, l’anima, una volta compiuto il suo corso e una volta accresciutasi spiritualmente, può abbandonare la regola della reincarnazione, e quindi ascendere al cielo al fianco degli dèi. Traslando la teoria al cristianesimo, si potrebbero accumunare queste anime dislocate definitivamente dal corpo agli angeli, agli arcangeli, ai cherubini.
Ho preso in considerazione unicamente la Cina proprio per le sue credenze particolari e radicate in lontani passati, per il calendario che prevede gli anni dedicati alle figure simboliche del loro oroscopo, per i festeggiamenti unici che ivi avvengono a Capodanno.
Da qui, mischiando piccole idee da diverse culture, ho creato la mia personale classificazione: le anime degli uomini, soggette alla reincarnazione e viventi in terra; i Guardiani, che assumono forme specifiche e sono lo stadio delle anime che hanno compiuto la loro crescita, essi vivono in cieli non meglio specificati; i Regnanti, quasi dèi, che sono i Guardiani sacrificatisi a favore degli uomini in terra, e vivono negli immensi universi.
Concludo col dire che è un racconto fuori dalla nostra comune catalogazione degli anni, perciò siete liberi di spaziare con la fantasia e accumunare i personaggi che voi dichiarate illustri ai Guardiani e ai Regnanti, partendo dalla psicologia di quei pochi descritti nel racconto. Personalmente, scrivendo, non ho pensato a nessuno in particolare, ma riflettendoci adesso avrei qualche nome che potrebbe andare bene…
Inoltre, due piccole licenze poetiche che mi sono presa: “plana’a” sta per planava, “aëre” dovrebbe essere il latinismo di aria.
lunedì 28 dicembre 2009

PostHeaderIcon Fotografie di una nuova quotidianità

I polacchi fanno prevalentemente una vita di campagna. La distribuzione della popolazione è assurdamente omogenea, pochi vivono in città, e quelli che lo fanno sono spinti più che altro da motivi di lavoro. Le famiglie si ammassano nei paesini della periferia, che si susseguono a ritmo costante, intervallati da lunghi campi gelidi e boschi, dove spuntano fra enormi querce dei simpatici cespugli di more, mirtilli e fragole.


Quando si parla di paesi, in Polonia, non dovete immaginarvi gruppi di case distanziate da stretti vicoli. La strada è una, quella principale, percorsa anche da tir e pullman che vanno verso altre nazioni; non ci sono vie secondarie. Le dimore si affacciano alla strada, una dopo l’altra, come tante villette. Spesso sul retro si nasconde un orto, oppure parte di bosco di proprietà privata. Sono pezzi di terreno edificati, con un giardino grande e un’inferriata che corre lungo tutto il perimetro della zona. Lo stesso vale per le scuole, che qui sono curatissime come una casa normale, e che sono provviste di tende alle finestre, vasi di fiori ai davanzali, ciabatte per gli alunni e gli insegnanti. Cimiteri, Chiese, supermercati e servizi seguono la stessa regola: una sola strada su cui danno tutti gli edifici, a volte anticipati da un piccolo vialetto non lungo più di qualche metro. Così per chilometri e chilometri, e il passare da un paesino all’altro viene annunciato solo da un cartello che ne riporta il nome. Se questo cartello mancasse, forse non ci si accorgerebbe nemmeno del cambiamento.


La Polonia è una nazione abitudinaria, calma. Laddove mancano i paesi che ne fanno il segno di riconoscimento, si notano immense praterie, con foreste fitte e laghi il più delle volte ghiacciati. L’aria è pura e fresca, scende giù per la gola come un balsamo rigenerante. Non ho potuto conoscere che una piccola parte della vita di città che si conduce qui, ma so che sono soprattutto luoghi in cui si concentrano i servizi, i vari lavori, il centro. Le città polacche le ho sempre viste spente, perché vivono solo in funzione dei paesi vicini, quasi come punti di riferimento. Sai che ci sono, ti rechi lì per le emergenze o per l’indispensabile, a volte ci passi la domenica, ma poi ti rintani nella tua villetta di campagna, a smuovere il terriccio dove crescono le patate, a raccogliere i funghi nel bosco, a leggere un libro vicino al fuoco con il tuo gattino in grembo.


È anche una nazione povera. Molti vivono ancora in case completamente in legno, e dall’esterno hanno un aspetto fatiscente e triste. Numerosi sono i comignoli che sputacchiano fumo giallognolo, a volte nerastro; ed è disarmante credere che quel focolare a volte è l’unica fonte di riscaldamento. I polacchi sono superstiziosi, attaccati alle loro tradizioni in modo morboso, sono il classico popolo del nord che guarda al progresso con scetticismo e paura. Per fortuna con le nuove generazioni qualcosa sta cambiando, anche se conservano lo stesso queste caratteristiche di fondo. D’altro canto sanno essere dolci, generosi, e stranamente timidi.


A Natale, la Polonia si accende di colore, si veste a festa ritirando fuori dagli armadi tutti i suoi gioielli, s’incipria il volto come una fanciulla al suo primo ballo. Ogni casa è ricca di luci, avvolte attorno a balconate, finestre, alberi, ringhiere e colonnati. È quasi una gara per chi addobba: si cerca di essere i migliori, i più originali, e nel frattempo l’aria si carica di atmosfera e di attesa incontenibile. Il vischio è appeso ad ogni porta, per scacciare gli spiriti maligni e forse trovare un nuovo amore. Le canzoni natalizie risuonano in ogni angolo, cantate a mezza voce, accennate nel ritmo, battute con le dita sul manubrio della macchina. Il 25 dicembre, poi, tutte le Chiese si affollano, e molti attendono fuori per assistere alla celebrazione della Messa. Quindi i giovani di ogni famiglia cominciano con la tradizione: si travestono da morte, diavolo, pastore e re, e fanno il giro delle case cantando e recitando poesie. Si dice che sia una specie di rituale per scacciare il male, e nel frattempo i ragazzi guadagnano qualche spicciolo portando gioia di porta in porta. Il più delle volte ci si ritrova con bambini sperduti che biascicano a stento qualche parola, vestiti malamente, sembrano stati gettati a forza in mezzo alla strada giusto per far godere la famiglia di quel poco che sarebbero riusciti a racimolare. Fanno un po’ pena, talvolta spunta un mezzo sorriso, ma sono accolti calorosamente e si fa di tutto per far sì che si trovino a loro agio. Il giorno di Natale si sta in casa, con tutti i parenti riuniti, si mangia, si beve, si gioca a carte. Ci si diverte sperando di riuscire a ignorare almeno momentaneamente la realtà.


A Capodanno, la nostra signora si cambia d’abito: rimangono le classiche decorazioni del periodo, ma si aggiungono palloncini, fiori, nastri, cappelli a punta dai colori psichedelici, e tanti, tantissimi fuochi d’artificio. Il cielo, in questa notte, si vanta di nuove stelle. La musica risuona dalle casse approntate al momento, si da il via a danze sconnesse e spesso imbarazzanti, frutto dell’alcol assunto in precedenza. È una notte senza limiti, dove la tv è sempre accesa in modo da controllare l’ora e guardare i concerti spettacolari che danno nelle principali città. Si possono passare ore senza far niente, stando solo insieme, e anche dopo la mezzanotte questa strana festa continua, imperterrita, finché le membra non si dichiareranno da sole impossibili di proseguire oltre. Ma i fuochi, i fuochi dell’ora di punta, i primi… è come vagare per l’universo, non riesci a contemplarli tutti con una sola occhiata. Se ne vedono a migliaia, perché ogni sparo proviene da una casa diversa, e continuano per minuti interminabili. Contengono la magia e la speranza del nuovo anno. E ti viene da pensare, nel gelo del balcone a cui ti affacci, fra le luci delle fatue stelle, di tutte quelle volte che, scrivendo, sbaglierai anno, nostalgico del passato, incredulo del presente, inconsapevole del futuro.


sabato 26 dicembre 2009

PostHeaderIcon La lapide della strega


Per chi abbia letto un noto libro di Gaiman, la citazione dovrebbe essere chiara. Per chi invece non l’ha ancora fatto, vi dico che il romanzo in questione è “Il Figlio del Cimitero”, capitolo IV. Qui il protagonista Nobody dona una lapide a una strega defunta, bruciata al rogo per presunta eresia, e sepolta in un cimitero per indegni, criminali e, appunto, streghe. Nel cimitero, che affianca quello ufficiale, non ci sono lapidi, le sepolture sono fatte male e ammassate, non c’è nessuno che faccia compagnia agli spiriti. Ma non sto qui a raccontarvi il sunto del capitolo, se volete leggerlo ve lo consiglio (sia per la nota bravura dello scrittore in questione, sia per la bellezza del libro in sé), e procedo col narrarvi la mia storia.


La temperatura è stazionaria sugli zero gradi. Benché sia già inverno, uno strato di foglie secche ricopre il terreno; hanno colori ambrati e di un marrone dalle venature dorate, rilucenti al tardo sole pomeridiano. Scricchiolano piacevolmente sotto il passo svelto e deciso di Sławek. La strada è in continua salita, e per adesso seguiamo un sentiero un po’ fangoso utilizzato anche dalle automobili. Arrivati al crinale della collina, si profila davanti ai nostri occhi una cappella dipinta di bianco. È piccola, con in cima una croce in ferro e al lato dell’entrata un vaso pieno d’acqua piovana. Nella strada percorsa per arrivarci, Sławek mi ha raccontato la storia di questo posto…


Nelle ere primordiali, quando ancora gli uomini primitivi di razza bianca solcavano i boschi selvaggi dell’Europa orientale, nuove religioni si affacciarono loro. La natura richiedeva i suoi sacrifici, il Dio Sole e la Dea Madre proclamavano i loro templi. Gli uomini della zona, impauriti e devoti, costruirono tre cerchi di pietra, scavati nei rudimenti della collina dove noi ora siamo: i tre cerchi erano disposti a triangolo, quasi a ricordare arcani simboli celtici. Al centro, attualmente occupato dalla cappella, convergeva il potere supremo del loro luogo di culto: ivi si facevano i riti sacri, ivi si invocava la magia. In questo territorio fuori dal tempo e dallo spazio, si svolgeva la religione primizia, quella non contaminata che reclamava il suo prezzo senza perdersi in contrattazioni con i miseri umani.


Quando, nel corso dei secoli, le foreste selvagge furono intervallate da castelli in pietra e regioni feudali, la Chiesa ordinò eretici coloro che proseguivano in tali pratiche pagane, e fece distruggere i cerchi magici. Penetrando la cultura barbara, la Chiesa ha fatto sì di instaurare il suo dominio con la distruzione: se la Polonia è una delle nazioni più cattoliche dell’Europa è anche perché qui i templi pagani proliferavano, accompagnati dalle cosiddette streghe. Dando fuoco e profanando i luoghi dediti alla Dea Madre, la Chiesa ha destato la sua furia, che ora giace sepolta in attesa di una nuova rinascita, di una covata rivalsa.


Ma ciò non basta: i predicatori dell’unico Dio hanno eretto cappelle e simboli cristiani ove sentivano il confluire della Magia, cercando di scacciare e sostituire un potere più forte di loro. Così è nata la chiesetta verniciata di bianco, costruita prima in legno nel 1850 e poi rifatta in mattoni. Essa si trova al centro dei tre cerchi druidici, in cima alla collina. Alcune lapidi anonime e ricoperte di muschio la attorniano, quasi stessero lì per fungerle da vialetto. Forse sono le tombe delle streghe, uccise mentre professavano la loro fede nella Magia, prese nell’estasi divina… e ancora le vedo, le sento, a ballare nude fra gli alberi, foglie e rami fra i capelli, il fuoco acceso nella radura lì di fianco.


Ora del loro potere resta ben poco. La pietra nascosta nella collina, quella con cui sono stati edificati i cerchi, è stata quasi del tutto divelta, obiettivo di cave affamate del loro valore monetario. Solo un piccolo tratto, difficilmente raggiungibile, è ancora in piedi. Nonostante i graffiti e gli anelli degli arrampicatori di free-climbing, la sua potenza traspare senza tormenti. Si confonde con la natura perché sua figlia. E credo che rimarrà lì fino alla fine dei tempi, perché nulla si crea e nulla si distrugge, e per quanto impegno si metta il passato torna sempre nelle sue importanti e affascinanti vestigia.


Adesso Sławek mi chiama via, dobbiamo andare. Il racconto è finito, e domani mi aspetta un’altra piccola gita fra gli immensi boschi di questo paese sperduto e inesplorato, spesso sottovalutato. Ma che sono quei suoni, quegli stridii che scendono dal cielo? Sono i rami smossi dal vento… oppure gli spiriti che vagano, e cercano vendetta nella notte che scende, cupa, su ognuno di noi.


sabato 19 dicembre 2009

PostHeaderIcon A Natale si può fare di più...

Come promesso, il racconto. Quando ho cominciato a scrivere, avrei voluto che ci fosse un finale diverso, ma le mie mani mi hanno condotto altrove. È a tema natalizio, forse lo prenderò in considerazione per pubblicarlo come racconto ufficiale per il contest della Ragazza Drago. Ma anche no, perchè per quello avevo in mente una trama più allegra, 'fiabesca'.
Va be', buona lettura. E felici feste...
È Natale e a Natale si può fare di più,
è Natale e a Natale si può amare di più,
è Natale e a Natale si può fare di più
per noi:


Fa freddo. L’aria gelida e umida s’infiltra fra le pieghe dello scialle di lana, riesce a trovare una via fra i fitti nodi del tessuto, per poi scivolare come cubetti di ghiaccio sulla pelle. E quel piccolo corpo inizia a tremare, seduto sulle scale sconnesse del centro, scosso da lievi tremori che si fanno sempre più forti.

Le campane suonano a festa, e una confusione di gente si accalca sulla scalinata, travolge il corpo che si stringe ancor più su sé stesso. In cima c’è una Chiesa, che mostra le luci intermittenti delle decorazioni natalizie, purché nel giorno del Signore tutti possano raccogliersi a pregare.

Intanto la ragazzina si sente sperduta, tutta quella massa di persone l’ha stravolta, e una lacrima solitaria lascia una scia, pulita, sul suo volto scuro di polvere e fango. Ai suoi piedi, la tazza di latta è quasi vuota, eccezione fatta per un mucchietto esiguo di monetine. Il rumore dei pezzi di metallo gettati nel contenitore ammaccato è ricordo lontano, per la bambina. Il tintinnare allegro che per lei significa pane è anch’esso una reminiscenza distante. Lì, sullo scalino sporco di pietra, non chiude gli occhi, non si abbandona al sonno imminente, ma guarda la sua futura cena con bramosia e stanchezza antica. Desidera che domani nevichi. Quando cade la neve, per lei significa niente lavoro.

Qualcuno sta suonando un’armonica, a qualche isolato di distanza. Forse è uno come lei. Si sente l’eco della melodia a volte sconnessa e un po’ ridondante di una canzone di Natale. Vorrebbe cantarla, ma le labbra sono secche, se prova solo ad aprirle in un finto sorriso si spaccano come crepe in un vaso d’argilla cotta. E poi non sa le parole, le ha sentite in giro, questo è vero, ma non ne ha mai compreso il significato.

Vede la gente che si scambia cenni per la strada, e quasi tutti sono avvolti in caldi paltò lunghi fino in terra. Portano pacchi rivestiti di colori sgargianti, e nella loro fretta c’è qualcosa di nuovo ed eccitante, che manca nel resto dell’anno. Tornano a casa.

Il freddo si attenua, o forse è lei che non sente più le mani e i piedi, e che ormai ha abbandonato la testa sul muro al lato del suo angolo di gradino. La guardano, alcuni con pietà, altri con scetticismo. I bambini sono curiosi, ma si lasciano lo stesso trascinare via dalle madri preoccupate del dolore. Non vogliono che i loro figli conoscano il male del mondo, errano nel ritardare l’inevitabile e illuse crescono solo corpicini senz’anima.

È ora di andare, non può più sostare nei pressi della Chiesa. Fra un po’ la Messa sarà finita, e non vuole essere calpestata nuovamente da fedeli che ormai si sentono redenti da ogni peccato, ma che ignorano la regola dell’aiutare il prossimo. Ingenui, a credere che inginocchiarsi basti, a non portare soccorso e poi chiedere scusa. Sciocchi.

Stringe quindi la tazza di latta, e si avvia lentamente. Si mantiene al lato della strada, cerca di passare inosservata, ombra lacera in quel tripudio di colori. Non gira la testa verso le vetrine, non vuole rispecchiarsi in una vita che non è la sua. La presa sulla tazza si fa più forte, mentre osserva gli altri, quelli come lei, che si affacciano come buie finestre nel paesaggio freddo e festoso del centro città.

Allora prende con fatica una moneta. È lucida, tonda, incredibilmente bella fra le sue mani rovinate dal gelo. Si piega leggermente sulle ginocchia, e la lascia cadere nel cappello riverso in terra di un uomo. I loro occhi s’incrociano per un attimo, poi lui torna a guardare fra le memorie del suo passato.

Ripete questo gesto mille e mille volte, o almeno così le pare. Lo fa con ogni persona che trova agli angoli delle vie, anche col suonatore d’armonica che l’aveva accompagnata nel suo sostare. Lo fa finché la tazza non è vuota.

Vaga per la città, senza meta. Forse anche oggi dormirà sulla panchina del parco. Era comoda, la notte prima, sempre meglio della stazione dove loschi individui avrebbero potuto derubarla. Ma tanto adesso non ha più nulla di cui privarsi.
Lei ha sempre creduto che bisogna aiutarsi fra simili, perché i più grandi non capiscono, non comprendono. Se oggi non cena, non se ne farà un problema. È la vigilia di Natale. E forse domani nevica.

PostHeaderIcon The Broken Glass


In questi giorni mi sento come un bicchiere travolto per il peso eccessivo del cucchiaino che aveva all’interno, quel bicchiere che anche se lo rialzi poi ricade di nuovo, spargendo il suo contenuto in un macchia in continua espansione. Il bicchiere sono io, il cucchiaino è il costante peso dei miei pensieri, la macchia è la mia ispirazione che viene assorbita dalla tovaglia e non trova sbocco. Forse il bicchiere si è rotto scivolando giù dal tavolo...
Ho tante, troppe storie che vorrei raccontare, piccoli aneddoti che sono venuti a trovarmi nel sonno, racconti che cercano di spiegare qualcosa ma che alla fine restano fatti fini a se stessi. E poi c’è il disegno di Kendra e il Veggente (a cui ho finalmente trovato un nome…), il Tyrsek che si culla nell’incompletezza dei suoi dieci episodi. C’è la partenza, che sembra così imminente che io non ho nemmeno tirato fuori la valigia dall’armadio a muro, ma che ha già intaccato la mia voglia organizzatrice facendomi scrivere tutta una lista degli oggetti inutili che mi vorrei portare.
Che c’è nella lista? Il cellulare per le foto con tanto di caricatore, libri, le tracce dei due temi d’italiano che dovrei farmi nelle vacanze, la penna USB con i “My Works” ovvero la cartella con tutti i miei scritti, il set da disegno, qualche cd di buona musica. E se trovo un po’ di spazio anche dei vestiti.
Odio il periodo natalizio. Nella sua perfezione si lascia odiare. Perché c’è la scuola che ti riempie di compiti, tutto qui. Il fatto che ogni anno sono costretta a partire, mi mette in condizione di fare i compiti nei giorni più impensabili e agli orari più incredibili. Non sono i compiti in sé che mi spaventano o mi fanno irritare, alla fine sono semplici esercizi o riassunti di brani che riesco anche a ripescare e copiare dal web, ma mi spiace dovermi sbrigare e spesso allontanarmi dal buon lavoro che vorrei fare solo per non portarmi chili di libri scolastici appresso e di cui alla fine avrei utilizzato poche pagine per poche ore. Insomma, forse è anche questo che inibisce la mia voglia di scrivere, sarà la parafrasi di Eneide e il tema sulla pietas che mi girano per la testa gridando “scrivimi, scrivimi” e che fanno a boxe con le mie storie, storie semplici, fragili come fogli di pergamena, fatte della mia stessa pasta mutevole e spesso sottomissiva.
Penso che proverò col buttare su carta quel racconto un po’ triste, un po’ cattivo, che da giorni preme per uscire. Spero solo di riuscire a scriverlo bene, perché altrimenti perderebbe tutto il valore del contenuto. Chissà, forse fra un paio d’ore troverete un nuovo post
giovedì 10 dicembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo X








Un breve brano, dopo il bombardamen- to... tenevo
a pubblicarlo in serata :)








Una coltre di fumo spesso e denso vegliava sulla città, avvolgendosi in pigre nubi che oscuravano il cielo. Le fiamme lambivano ancora alcuni grattacieli, che come mostri uncinati si erano ripiegati su se stessi pronti ad estendere le loro mani imbevute di sangue nei tranquilli vicinati. Uno scenario apocalittico che trasudava panico e rabbia, repulsione; e sorda vendetta che echeggiava lugubre fra le vie, requiem incessante.
Era entrato solo per avvertirmi.
Mani tremanti stringevano convulsamente il cornicione di una finestra, e si sentiva lo stridere delle unghie curate contro il laminato. La donna digrignava i denti, una furia violenta che le solcava gli occhi spalancati a contemplare la pianura dell’orrore che la sottostava. Osservò una ragazzina trascinarsi a tratti, zoppicante, che si manteneva il braccio piegato in una posa scomposta e arrancava lungo una strada a un paio d’isolati di distanza. La pelle lacera in più punti, e abiti che non si potevano definire tali, lacrime nere a incorniciarle il volto spento e intriso di inconsapevolezza e terrore. A poco a poco, decine di figure simili a lei si affacciarono da sotto alcuni detriti. Parevano quasi anime vaganti senza meta, rinchiuse in silenzi opprimenti ove solo il rombo di un ciottolo che rotolava in lontananza, o il cadere delle travi che resistevano ancora in angolazioni precarie, oppure il rantolo di un altro essere in pena, faceva compagnia.
Ma la città sopravvive sempre, risorge dalle macerie, forse più forte. Ogni male porta con sé una goccia di bene, che si trascina pura nel mare del buio per far rifiorire il mondo.
Mi voleva avvertire che i caccia stavano arrivando, e ci dovevamo riparare casomai qualche missile sbagliasse obiettivo.
La donna, tuttora immobile, stava lasciando andare l’ira, che si sostituiva a un vago senso di solitudine e commiserazione. Poi anch’esse se ne andarono, e fu solo vuoto. Un uomo le si avvicinò, guardingo, e si fermò dietro di lei. Le cinse i fianchi con le braccia, dolcemente, e poggiò il volto sulla spalla della donna, assaporando il dolce profumo dei suoi capelli di fuoco. Egli sorrise lievemente, e volse lo sguardo verso lo scempio che si estendeva ai suoi piedi. Il suo sorriso non s’increspò, bensì assunse una lieve piega soddisfatta, mentre un lampo maligno gli attraversava il viso. Tutto era distruzione, eccezione fatta per pochi edifici che parevano incredibilmente illesi, come se il bombardamento li avesse evitati con un’accuratezza esemplare. Uno di essi era quello in cui i due sostavano, un alto grattacielo dalle pareti di vetro oscurato. Alcuni pannelli erano incrinati, altri avevano ceduto, ma nessun danno che non fosse rimediabile in poco più di un paio di giorni.
“Sei un mostro” disse la donna, mostrando un contegno che probabilmente non possedeva.
“Si riprenderanno, vedrai.” Rispose l’altro, e la sua bocca percorreva lenta il collo della sua compagna, disegnando figure invisibili sulla pelle ambrata.
“E forse ti dispiace anche, non è così? Godi a vederli cadere, ma ti roderai una volta che si rialzeranno.” Continuò. Faticava a credere alla sua indifferenza glaciale.
Se si rialzeranno. E allora basterà colpirli di nuovo. Non possono resistere così a lungo, Kendra, non come possiamo noi.”
“Ma ci sarà sempre qualcuno che combatterà per la salvezza.” Soggiunse lei, girando leggermente il volto verso il suo interlocutore.
“Vorrà dire che il gioco sarà più lungo. E tanto più divertimento per noi.”
Il Veggente era il tipo d’uomo che non si fermava davanti a nulla. Crudele e spietato, perseguiva mete solo a lui note. Ma Kendra a volte dubitava che avesse dei veri scopi, e che facesse tutto per il sublime piacere che gli donava la morte.
mercoledì 9 dicembre 2009

PostHeaderIcon Multi-ethnic, Multi-cultural

Oggi è stata una giornata lunatica, direi piuttosto fuori dalla mia solita routine.
Sono un po' giù perchè mi manca da morire una persona.
Sono come al solito un po' arrabbiata perchè certa gente non riesce a comportarsi a dovere nemmeno nei giorni di festa.
Ma d'altra parte sono schizzata e felice perchè mi sento multi-etnica, libera da ogni pregiudizio, aperta all'integrazione della specie; sono contenta di manifestare queste mie (credo) qualità, perchè poi d'altra parte chi si accoglie rende il suo ringraziamento più prezioso. E gli italiani non lo capiscono ancora.
Ho passato il pomeriggio a lavorare in albergo, e lì ho finalmente potuto provare l'Hennè che mi aveva donato una donna marocchina amica di mia zia. E non m'importa dei commenti vari, del 'non fidarsi', dell'evitare alcuni tipi apparentemente loschi, che tali non sono nemmeno a prima vista.
Ho cenato cinese, roba deliziosa a mio parere. E non m'importa se dicono che i cinesi sono poco igienici, se sputano in terra, se sono tutti uguali. Cucinano da dio, e sono persone dolcissime.
Da questi 'stranieri' incompresi, che ogni volta mi parlano dei loro problemi d'integrazione, mi sento quasi capita, apprezzata. Sarà perchè da loro ricevo attenzioni che mi fanno sentire bene, sarà che con loro sono felice, e tanti altri motivi che ancora non mi sono ben chiari.

Ma è pensando a questo che mi godo il mio nuovo tatuaggio.
martedì 8 dicembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo IX

Si aprono nuovi quesiti, nel mondo del Tyrsek: segreti insvelati, nuovi avvenimenti che sconvolgono la mancata quiete dei protagonisti, e tanta voglia di sbrogliare gli intrighi che si intravedono sullo sfondo.
Lo so, non riesco ad accontentarvi abbastanza. Proseguo con brani minimalisti che sanno porre solo nuove domande, e quello che si intende non basta mai.
Lo so, volete sapere che cosa è successo prima, invece di limitarvi ad assistere a questi piccoli avvenimenti che si susseguono a ritmo sconnesso. Ma, lo ammetto, non lo so bene neanch'io.


Le immagini scorrevano veloci, proiettate sulla parete. Una figura scura che si aggirava rapida fra gli intricati corridoi dell’edificio; completamente abbigliata di nero, si accostava alle camere, ascoltava le conversazioni, disseminava microspie agli angoli delle porte. Il demone sentiva perfettamente quell’alone di marcio che si portava dietro; benché da un semplice video non poteva dedurre altro, seppe con certezza che l’individuo che stavano cercando era ancora all’interno della struttura. Uomini, tutti uguali, avviluppati nelle loro coltri cupe che cercavano costantemente di sopraffare l’altro. Sovrastare, schiacciare, eliminare. Giochi di potere in quel pianeta ormai devastato dai suoi abitanti incauti e che si vantavano di essere rimasti incolumi ai disastri dell’universo, quando forse per primi avevano intrapreso la lunga e ardua via del degrado.
“Riesci a percepirlo?” l’uomo che le stava mostrando le pellicole aveva posto una domanda. Sciocco a dubitare di lei.
“Certo. Procedo?” voleva altro sangue. Maledetto! L’uomo di prima non l’aveva ascoltata. Il suo ventre muscoloso vibrava, sentiva le vene pulsare di quella passione effimera in attesa del cibo. Abituata a dare ordini, ora doveva sottostare a quel trio strambo che l’aveva catturata per un puro scherzo del destino.
“Vai pure.” Disse l’altro scrollando le spalle con noncuranza.
Quindi si concentrò, decisa a trovare il prima possibile la sua nuova preda. Risentì lo strano olezzo di prima, quel sapore amaro di tradimento che permeava il corpo della vittima. Ora nella sua mente di demone risuonava anche il forte battito del cuore, le ritmiche pulsazioni. Non avrebbe più avuto di che battere, povero cuore, perché ormai il sangue stava pian piano abbandonando la spia. Il liquido dolciastro prese a scendere nella gola della Sam-rjah, ancora caldo, inspiegabilmente buono.
In un’altra stanza, il Veggente osservava su un monitor la figura accasciarsi alla parete, respirare a scatti, per poi morire.

“No!” gli scappò un grido. La spia in questo momento si trovava dietro la porta della camera di Kendra. Lei era all’interno, e se fosse uscita si sarebbe trovata il suo corpo esanime ai piedi, con la pelle rinsecchita che aderiva alle ossa, la bocca aperta in un muto grido, gli occhi vitrei. Uno scheletro che si portava ancora dietro abiti, pelle, capelli e il dolore della morte. No, Kendra non sapeva nulla di tutto questo. Non sapeva della spia, e non poteva per nulla al mondo venirne a conoscenza adesso che si erano liberati di essa. Così il Veggente abbandonò la camera di sorveglianza e si allontanò correndo.
Arrivato davanti al corpo, si apprestò a prenderlo in spalla, quando sentì il chiavistello della porta girare. I secondi passavano a una lentezza unica, mentre il pomello seguitava a ruotare lentamente. Non c’era più tempo. Doveva bloccarla dentro, almeno finché Elynar non avesse tolto il morto.
Si maledisse. Perché proprio ora doveva andare tutto storto?
Finì di aprire la porta ed entrò nella stanza, chiudendola immediatamente dietro di sé e spingendoci Kendra contro. Ora la donna dava le spalle alla porta, e il Veggente la bloccava tenendola per le braccia, il suo viso a pochi centimetri dal suo. Pregò che non avesse visto niente, aveva tentato di fare tutto con la velocità di un fulmine.
La camera era stranamente buia, solo un filo di luce proveniente dalla piccola finestra schiariva i contorni delle cose. Riusciva a distinguere i riccioli che cadevano morbidi sul volto della Sacerdotessa, i suoi occhi che riflettevano pagliuzze dorate nonostante lui le facesse ombra. Vedeva le sue labbra rosse aprirsi in un sospiro di stupore, e formulare parole inespresse. Sentiva il suo petto, schiacciato contro il suo, alzarsi ed abbassarsi in respiri lievi.
Doveva trovare una soluzione per giustificare la sua presenza lì, ma nulla gli veniva in mente. La sua calma glaciale adesso vacillava, di fronte a una donna, per di più. Se fosse stato in guerra, o in pericolo di morte, avrebbe di certo affrontato tutto, senza esitazioni. Ma adesso…
“Che cosa vuoi?” Kendra era riuscita a vincere la sorpresa, e ora la sua voce tagliente andava ad occupare il silenzio di quei pochi attimi. Non so che cosa voglio, non lo so! Avrebbe voluto risponderle l’uomo.
Ma non ebbe tempo per rimuginarci su, perché un forte scossone distrasse entrambi. Alcuni calcinacci caddero dal soffitto basso, e il lampadario spento oscillava stridendo. Kendra corse prontamente alla finestra, e affacciandosi da quel piccolo pertugio scorse dei caccia sorvolare la città, sfiorando i grattacieli e abbassandosi per gettare quelle che avevano tutto l’aspetto di essere bombe. Il sole riluceva sui vetri oscurati degli aerei, mentre essi si muovevano in cerchi concentrici sopra l’esteso agglomerato urbano, quasi mirando con precisione a luoghi scelti, avvoltoi beffardi, platea del delitto.
“Vieni via di lì!” esclamò il Veggente tirandola a sé. Si accovacciò in un angolo, la donna stretta fra le braccia, cercando solo di proteggerla ogni qual volta pezzi di soffitto cadevano loro addosso. Il sibilare dei motori dei caccia rimbombava lugubre, e le esplosioni si susseguivano a ritmo serrato. Dalla strada si sentivano alcuni allarmi urlare il loro ripetitivo segnale.
Nella stanza si era formato un cumulo di polvere grigiastra che si cullava placido nell’aria, scuotendosi all’impatto di nuovi attacchi e prendendo direzioni impossibili. Tutto sommato, la struttura reggeva bene, ma forse era solo perché l’obiettivo degli aerei bombardieri era ben diverso. Infatti abbandonarono velocemente la zona, una toccata e fuga eclatante, poiché l’atmosfera ritornò calma in un baleno.
Il corpo di Kendra che si muoveva sotto di lui lo riscosse, e il Veggente tornò in piedi, scrollandosi i detriti di dosso. Pareva stessero entrambi bene, anche se dopo qualche secondo si accorse di un forte dolore al labbro, e il sapore del sangue mischiatosi alla saliva. Un piccolo taglio solcava le sue labbra, all’angolo della bocca, formando una piega tetra sul suo volto scuro.
“Ma che cosa vi prende a tutti oggi?” Kendra, stizzita, lo scostò malamente e si diresse alla porta. Uscì dalla stanza a passo deciso, senza voltarsi a guardare il caos che vi regnava.
Il Veggente si passò un mano sul taglio e sorrise, compiaciuto. Elynar aveva tolto il cadavere.


Ah, e trovatemi un titolo per la storia! Che ne dite di "Anime Nere"? Nell'incertezza... ^^
martedì 1 dicembre 2009

PostHeaderIcon Omaggio alla musica


Se si potesse solo rivivere, ammirare ancora una volta il cielo splendente.

Se solo fossi in grado di guardare nei tuoi occhi,

saprei che un piano suona dolci note, srotolando scale di tasti…

e mano per mano, appigliandoci al corrimano di stelle,

raggiungere la volta di violini, che muovono nel loro triste sonetto.

Una nota – che sia un sol, un fa, un si diesis –

Che possa riavvicinare i nostri cuori, riappacificare le distanze,

unire i mari per un oceano di malinconici desideri.

E sulla balconata, ove graziose colonne sorreggono questo notturno,

giurami il non abbandono, trattienimi nell’infinito.

Come un guanto da infilare piano, le dita che vibrano al contatto con la soffice neve;

come una serenata alla luna nelle notti di nubi, dove si chiede di affacciarsi, e illuminare la via.

Se solo si potesse creare armonia nell’universo che tuona,

una canzone, capace di capovolgere lo spiacevole dramma.

Una fenice solca questo pentagramma,

cantando voci di chi non ha paura, e di chi ne ha tanta ma non lo dimostra.

Se solo tu potessi farmi rivivere ancora

Quella libertà, quella gioia, che altro non è che flebile musica:

battute di una danza sublime che si svolge nell’orchestra del presente,

crescendo di una ballata dell’assurdo,

ombra,

reminiscenza.
sabato 28 novembre 2009

PostHeaderIcon A voi capire...

...di che cosa sto parlando ^^


Quando il suo sorriso tocca la vita, non v’è giustizia. Che tu possa viver in eterno, giovane! Che il tuo magnifico viso, e le labbra scarlatte, come fiori vermigli, e i tuoi occhi di ghiaccio, come acqua nel fiume; che essi vivano per sempre! Ma, giovane, non deturpare la tua anima… rendi schiave le tue donne, e trascini all’inferno i tuoi amici. Perché fai questo? Nel piacere che cerchi deve pur esserci un tocco di bontà. Ma come biasimare, o solo creder di cambiarti (e, addirittura, rimproverarti! Chi sono io?), quando io per prima cado prigioniera della tua bellezza.

Rimpiango la notte in cui squarciasti la tua anima. Mai perdonerò il tuo gesto, se solo si potesse tornare indietro… sarà perché il degrado, il Male che reincarni e la deliziosa passione che adoperi nella rovina; sarà che essa mi ha stregato più del tuo viso da fanciullo?
venerdì 27 novembre 2009

PostHeaderIcon Waiting for Christmas

Il Natale è una delle feste più amate e celebrate al mondo, che siano bambini o adulti, tutti amano questa festa. Perchè rende allegro un altrimenti povero e buio inverno, e lo colora con le sue luci multicolore e gli abeti vestiti a festa. Perchè, nonostante sia stata trasformata in una festa commerciale (una fine che ogni festività attende, ma a cui nessuna aspira), trattiene quel poco di spirito e lo rilascia gradualmente, donando sorrisi un po' ovunque.
Il Natale è un dono prezioso, e chi è nato e cresciuto con la contemplazione di tutte le tradizioni legate ad esso, è consapevole di non saperne fare a meno.
Il Natale è momento di riunione, dove le famiglie addobbano alberi e creano presepi, dove le madri cucinano i piatti tipici, dove i bambini attendono la preziosa neve.
Il Natale è anche attesa, magari manifestata da un lucchichio egoista negli occhi davanti a qualche regalo, oppure semplice comunione aspettando la Messa di mezzanotte.
Per me il concetto natalizio è un po' diverso, si tratta di tornare in Polonia, più che altro. Si tratta di aiutare mia madre ad addobbare tutta casa e giardino, ed è poca cosa dire che è una faticaccia, e ci mettiamo quasi sempre una settimana o anche più.


Ecco quindi alcune foto del nostro work in progress...


La scalinata in marmo che porta al piano superiore con le camere da letto.


L'albero di natale che abbiamo allestito nel salone.


Il mini-presepe in cartapesta.


Il bellissimo angelo in cartapesta, il mio preferito, con come sfondo l'albero.


E l'ultimissima: l'abete bianco che abbiamo in giardino, con luci e decorazioni sui colori argento-blu.

Per le altre foto dovrete aspettare un po', primo perchè molti addobbi sono da finire, secondo perchè per le foto in giardino sto cercando la luce giusta, perchè di notte sfoca troppo e vengono male.

lunedì 23 novembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo VIII


L'ottavo episodio, alquanto esiguo anche questo. Consideratelo un piccolo assaggio prima di postarvi un pezzo più interessante :)


Stormi di gabbiani si incrociavano con altrettanti gruppi di pipistrelli scuri come petrolio, e combattevano nei cieli nebbiosi della città. Numerosi i caduti che negli ultimi respiri si lasciavano trascinare dalle correnti, stillando un liquido dorato dalle ferite, che come brillanti spargeva i tetti delle case del suo luccichio blasfemo. Gli stridii degli uni incontravano i lamenti degli altri, nella battaglia dei popoli del mare contro le creature delle grotte. Lontani i tempi in cui le acque lambivano le superfici corrose delle caverne, plasmando l’unico dominio delle due razze.
I candidi gabbiani sbattevano le ali, e le loro piume volteggiavano nelle stradine sottostanti, mentre odi gregoriane scandivano il ritmo del conflitto, giunte dalle profondità dei templi sotterranei.
I pipistrelli uncinati aggredivano i nemici con i loro denti e gli artigli, lacerandone i petti, mentre rulli di tamburi e di chitarre elettriche sottostavano al canto celeste.
Lo scontro monocromatico proseguiva atono, senza vinti o vincitori, e solo una figura umana assisteva avvolta in un mantello dall’alto di un tetto, ignara che quella fosse la guerra che da anni campeggiava nel suo cuore, ormai prossimo alla deflagrazione.

Il Veggente si alzò sudato dalla branda. Ancora un altro sogno inspiegabile, forse più di tutti quelli che l’avevano preceduto. Immerse le mani nell’acqua gelida che scorreva dal rubinetto, per poi bagnarsi tutta la faccia. Si guardò allo specchio sopra il lavandino, che rifletteva la sua immagine sfocata, e constatò nuovamente il suo stato. I capelli castani erano bagnati, e più ciuffi ricadevano sulla fronte, lasciando scorrere piccole gocce d’acqua che si posavano fra le lunghe ciglia, per poi proseguire sulle guance come lacrime amare. O forse con esse si confondevano, speranzose di lavare le preoccupazioni, di lenire i dolori, di schiarire i segni scuri che circondavano gli occhi dell’uomo. Si udì un sospiro nel silenzio della camera buia.
Nella stanza attigua, Kendra si girava nel letto, incapace di cadere in un sonno senza incubi.

“Dormito bene?” chiese Elynar con voce allegra, rimestando col cucchiaio il latte nella ciotola. La sua misera colazione.
Kendra sbuffò, le gambe accavallate e la sedia leggermente discosta dal tavolo, già vestita di tutto punto. Addentò una mela, e non disse altro. Di fronte a lei il Veggente la guardava sottecchi, evitando accuratamente di accennare alla notte appena trascorsa. Sembrava che in quella situazione solo il Luminare fosse capace di chiudere occhio durante notte. “Vado a portare un po’ di sangue fresco alla Sam-rjah.” Disse il Veggente, e così dicendo lasciò il tavolo, senza aver toccato cibo.

“Perché non lo assorbi direttamente?”
L’uomo sostava appoggiato alla parete, ed osservava incuriosito il demone che succhiava il sangue da un recipiente di plastica. Piccole linee scure colavano dai lati della bocca, ma non avevano tempo di prolungarsi sul collo che già erano assorbite dalla voracità della Sam-rjah.
“Perché così c’è più gusto.” Rispose il demone, la voce cristallina e leggermente rimbombante che si confondeva con il suono gutturale del suo respiro in estasi.
Avevano deciso di rinchiuderlo in una stanza sotterranea, quadrangolare, e da cui si accedeva per mezzo di un pannello di vetro scorrevole. Le misure di sicurezza consistevano solo in una barriera elettrica prontamente eretta da Elynar, che impediva anche alla Sam-rjah di estendere i suoi poteri. Per la pericolosità della razza era strano che fin’ora si fosse mostrata così accondiscendente, Kendra aveva accennato al fatto che gli individui femmina erano di natura più propensi alle trattazioni e al ragionamento, la quasi immortalità infondeva loro una calma ulteriore che acquietava i bollori demoniaci.
“Chi devo ammazzare?” chiese d’un tratto, interrompendo i fili di pensieri del Veggente.
“Prima di tutto, una spia.” Rispose.
“Sì, ma chi? Non posso andare a succhiare il sangue a destra e a manca cercando di beccare la tua spia, anche se mietere un così consistente numero di vittime non mi spiacerebbe… ho bisogno di indicazioni.” La vena ironica della Sam-rjah e la sua impazienza gli ricordavano Kendra, entrambi due fuochi rinchiusi in altari di ghiaccio. Ciò lo fece leggermente sorridere, mentre con una mano carezzava la barba di pochi giorni, ruvida e quasi pungente al tocco.
“A questo non ci avevo pensato. Ti mando Elynar, lui ha delle registrazioni del circuito di telecamere, lì potrai vedere la tua preda. Spero ti basti.”
“Sì. E portami altro sangue.” Ogni parola del demone pareva un ordine, ma il Veggente sapeva fin troppo bene qual era il limite per giocare. Lasciò la Sam-rjah sola e andò a cercare Elynar, ignorando l’ultima richiesta che gli era stata fatta.
martedì 17 novembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo VII


Ecco a voi un nuovo episodio del mio raccontino fantascientifico :)
E anche abbastanza lungo per compensare il precedente ^^
P.s.: per l'aspetto della Sam-rjah ho leggermente preso spunto da un personaggio di World of Warcraft, che potete vedere qui.
P.p.s.: ho aggiornato i sondaggi con i miei nuovi lavori, se volete votate nuovamente.


“Elynar, tu sei un Luminare, giusto?” il Veggente misurava a grandi passi la stanza, i tonfi della sua silenziosa marcia coperti dal fischiare delle macchine.
“Rinnegato, ma pur sempre un Luminare.” Affermò l’altro, annuendo.
“Bene” rispose il Veggente. Si teneva il mento con la mano, il cappuccio calato che lasciava scoperti i suoi capelli castani. “Dobbiamo trovare un modo -uno scudo, qualsiasi cosa- per bloccare il potere della Sam-rjah. Se Kendra riesce a liberarla, non sarà capace di controllarla a lungo.”
“Di quel che si dice in giro è una Sacerdotessa con grandi doti.” Disse Elynar, osservando di sottecchi il Veggente.
“Sì, ma lo stesso non all’altezza di un demone. Hai qualche idea?” L’uomo si fermò, aspettando che il Luminare reietto parlasse. Passò qualche minuto, in cui Elynar trafficò con i monitor che circondavano la sua postazione. Poi disse: “Si potrebbe creare un campo elettromagnetico attorno alla Sam-rjah. Però in tal caso dovrà essere liberata in questa stanza, e il rituale che la evocherà dovrà essere effettuato a scudo attivo.”
“Questo significa che Kendra si troverà all’interno…” constatò il Veggente.
“E dovrà rimanerci finché non troveremo un accordo. Anche se non credo che il demone le darà una buona accoglienza.”

La donna rovistava spasmodicamente negli armadi, usciva libri dalle teche per poi gettarli a terra. “Maledizione!” Imprecò. Non era facile trovare ciò che cercava, e per di più il Veggente le aveva dato solo mezz’ora di tempo. Finalmente, sullo scaffale più alto di una libreria logora, vide la pergamena che le serviva. Era un manoscritto piuttosto rovinato, che doveva avere molti anni, come tutti i libri di magia del resto. Nella scrittura fitta c’erano tutte le istruzioni necessarie per sciogliere i sortilegi che potevano relegare un demone in un corpo inanimato.
Kendra estrasse delle candele nere da un armadio, mentre da un altro prese una sorta di tovaglia quadrata di feltro, con inciso sopra un pentacolo. Ordinò su un tavolino tutta l’attrezzatura che le serviva, comprese alcune boccette contenenti polveri colorate. Fu quando stava per predisporre tutto al centro della stanza che il Veggente entrò, senza bussare.
“Prendi le tue cose, farai il rituale nel laboratorio di Elynar.” Disse con voce impassibile.
“Perché?” chiese la donna, rimanendo immobile, le cinque candele strette fra le braccia. “C’è un modo per limitare il potere della Sam-rjah senza che tu sprechi i tuoi poteri, però per farlo abbiamo bisogno delle macchine nell’altra stanza. Seguimi ” e detto questo il Veggente prese alcuni oggetti per aiutarla e si diresse da dove era entrato. Kendra gli venne dietro senza protestare: abbandonare il suo antro mistico era poca cosa contro l’ira demoniaca che avrebbe affrontato. Un aiuto in più non poteva nuocere.
Preparò l’occorrente a terra, nel luogo che il Luminare le indicava. Stese il panno con il pentacolo, la rosa al centro di esso, e a ogni punta della stella accese una candela. Le piccole volute di fumo vennero immediatamente circoncise all’interno, e formavano quasi un muro di vapore circolare attorno al drappo. Dopodiché chiese al giovane se poteva iniziare, ricevendo un limitato cenno di assenso. Contemporaneamente prese a percepire una forza estranea sempre crescente, e si accorse dell’ulteriore barriera adamantina che si era creata fra lei e il resto della stanza. La associò come lo scudo di cui aveva parlato il Veggente, e senza soffermarcisi troppo riprese il rituale. Sussurrava parole incomprensibili, e il fumo delle candele si muoveva alterno con esse. Una polvere vermiglia con dei granelli color onice fu sparsa in cerchio, poi Kendra chiuse gli occhi, le mani congiunte. Si poteva dire un rito di magia nera, tanto la donna somigliava sempre più a una strega, i tratti del volto tesi, le labbra rosse come un bocciolo di fiore stese in un ghigno. L’aria all’interno della barriera era densa, e danzava macabra al ritmo della voce della Sacerdotessa. La polvere si trasmutò in un serpente dagli occhi di sangue, fari struggenti nella notte. La serpe si avvolse su sé stessa, si strinse con spasimi e scatti angosciosi, vibrava in attesa del colpo mortale che di lì a poco sembrava avrebbe scoccato. Invece si limitò a continuare a volteggiare nell’aria, sibilando il suo odio. Con cerchi concentrici cominciò a misurare lo spazio delimitato dai ceri, spostandosi sempre più in alto e creando con il suo corpo oscuro e senza fine una colonna impenetrabile avvolta dal vapore, togliendo la rosa dalla vista.
Il tempo parve fermarsi, non si riusciva a scorgere nulla con anche una sola parvenza di movimento. Poi, all’improvviso, il serpente si dissolse e le candele si spensero, lasciando al suo posto una creatura orripilante. La rosa giaceva avvizzita ai suoi piedi, così deturpata e secca che si sarebbe trasformata in polvere anche al tocco di una bambina innocente. Benché avesse svolto il rituale seduta sul pavimento, Kendra si accasciò un attimo, con un respiro forte e affannato che le squassava il petto. Alla vista della Sam-rjah, però, si riprese subito, e senza recuperare gli occorrenti dei rituali si scagliò contro la barriera, con in mente l’unico pensiero di allontanarsi da lì il più presto possibile. Grande fu la sorpresa quando le sue mani toccarono un muro evanescente, ma invalicabile. Il Veggente sorrideva leggermente, e Kendra comprese. Era in trappola.
La mostruosità del demone, ancora confuso, contrastava con la bellezza inconcepibile del suo corpo, che richiamava le sembianze di una donna. Gli arti lunghi, con mani e piedi artigliati; il corpo sinuoso, gli occhi completamente bianchi tanto da non poter distinguere dove si dirigeva il suo sguardo. Un paio di ali diafane da pipistrello erano chiuse sulle spalle ossute. Il volto della Sam-rjah incontrò la paura impressa in quello di Kendra, che picchiettava invano sulla barriera. La donna ebbe un momento di dolore acuto, e fu prossima a cadere in terra, ma qualcosa la trattenne. Eresse a sua volta uno scudo protettivo prima che fosse troppo tardi, e così si accucciò lontano dal demone. Era stata liberata da poco, ma la Sam-rjah aveva già tentato di rimediare un po’ di sangue per il suo corpo provato da secoli di astinenza. Il suo respiro era colmo di collera repressa, usciva in rantoli raspanti come il fiato di un drago di dimensioni immani, e Kendra non si sarebbe stupita se avesse visto delle fiamme uscirle dalle narici.
La donna si era indebolita, un po’ per il rito complesso, ma anche per l’attacco a sorpresa. Abbassò per riflesso lo sguardo sul suo petto, lì dove una sottile catenina reggeva una collana dalla forma di un serpente alato dalle fauci spalancate, e che tratteneva fra le sue spire una boccetta colma di un liquido rosso. Da che ne aveva memoria, l’aveva sempre portata al collo, ma la fiala l’aveva riempita lei stessa pochi anni prima. Subito si accorse che adesso era piena solo per metà, e inveì pensando che se non fosse stata così pronta di riflessi ora ne sarebbero rimaste solo poche gocce. Quella collana era ciò che di più importante possedeva, e non poteva permettere che un insulso demone succhiasangue la rovinasse. Indusse uno sguardo eloquente al Veggente, mentre dalle mani si diramavano piccoli fulmini a protezione della Sacerdotessa.
Il demone intanto aveva raccolto la rosa da terra, e ora stringeva in pugno le sue ultime polveri. Sorrideva compiaciuto, scoprendo lunghe fauci immacolate. “Sam-rjah, ascoltami.” Proruppe all’improvviso il Veggente, mantenendo il suo solito tono che difficilmente ammetteva repliche. “Abbiamo bisogno del tuo aiuto.” soggiunse. “I tuoi poteri adesso sono relegati allo scudo magnetico, ma se ci darai la tua parola d’onore rifocilleremo il tuo organismo con tutto il sangue che vorrai. Ci sono persone, al mondo, che abbiamo bisogno di eliminare senza lasciarci scoprire, e in questo la tua razza è forse la migliore, e l’unica. Se rifiuti, manderemo delle scariche elettriche all’interno dello scudo che ti uccideranno all’istante, o peggio ti rilegheremo in un altro oggetto a patire nuovamente la fame. Non hai bisogno di sapere altro, credo.”
Il demone osservava piuttosto tranquillo la stanza e le due figure oltre la barriera. I visi del Veggente e di Elynar erano rischiarati da lievi bagliori azzurrini. La Sam-rjah, immobile, sembrava ponderare la questione. Sebbene la sua razza fosse relegata in un pianeta lontano e isolato quasi da tutti gli altri, non era raro che venissero assoldati come mercenari: i loro omicidi non lasciavano tracce, di alcun genere. Inoltre il demone non poteva permettersi ulteriori riflessioni, aveva fame, una fame accecante che solo la rosa aveva potuto mantenere in vita per tutto questo tempo, oltre ogni aspettativa. Una Sam-rjah può essere uccisa solo dalla denutrizione o dall’elettricità, perché c’erano alcune sostanze nella dura corteccia della loro pelle che reagivano male alle scariche, e lasciavano deflagrare il fenomeno a una velocità esorbitante. Dopodiché erano immortali, il che le rendeva ancora più pericolose.
“E sia.” Risuonò una voce nell’aria. Le labbra del demone non si erano mosse, ma le parole erano risuonate tutte attorno e sembravano ancora rimbombare nelle menti dei tre umani. Era una voce soave, quasi malefica, che strascinava le lettere esse e produceva un eco breve ma assordante. “Portatemi il cibo.” aggiunse poi, passandosi la lingua biforcuta sulle labbra carnose.
sabato 14 novembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo VI


Come brano è cortissimo, e me ne rendo conto. Ho avuto poco tempo per prepararlo, e ho dovuto prestarci più attenzione perchè vengono svelati degli aspetti più pratici, attinenti al mondo del Tyrsek. Aspetti dove non posso errare e devo cercare di far incastrare i pezzi alla perfezione, visto che l'ambientazione sta prendendo la piega di una Terra post-futuristica. Insomma, se c'è qualche incongruenza, errore di vario genere, segnalatela. E in tal caso perdonatemi :)


Se si affacciava a una delle numerose aperture e volgeva lo sguardo verso il basso, Kendra poteva osservare una città capillare che si estendeva fino all’orizzonte, fatta di rovine antiche, edifici recenti e templi tirati a lucido. Un assemblaggio in cui si faticava a trovare un nesso, un luogo dove tutte le epoche si congiungevano per crearne una nuova, forse più potente e maestra, in cui scegliere quando e come vivere. Ma l’aspetto non scusava le dure regole di quel posto, terra martoriata da secoli di incomprensioni, in cui il rigido principio della libertà individuale si era fatto strada nel tempo, accompagnato da leggi ancor più assurde che dichiaravano il possesso dei primogeniti allo Stato. Una confusione totale, intrico dei problemi dell’uomo; una matassa in cui potevi solo affogare, e mai emergere. Questo Kendra lo sapeva bene.
Per lo sviluppo dell’umanità era stata sancita una norma, inflessibile: i primogeniti erano figli assoluti della scienza e della magia, e fin da piccoli sarebbero cresciuti compenetrandosi con esse. I maschi venivano rinchiusi in roccaforti di ferro, dove imparavano a distillare soluzioni e creare armi, o semplicemente a maneggiare la tecnologia ed amarla. Le femmine venivano portate ai templi d’oro, dove apprendevano magie e sortilegi, maledizioni, pozioni e tutto ciò che la scienza non avrebbe potuto fare. Si sperava che queste due fazioni, collaborando insieme, creassero un connubio perfetto che avrebbe svelato i misteri dell’uomo. E così era stato.
Questa regola vigeva da poco, e non vi erano Sacerdotesse o Luminari (così venivano definiti i giovani) che superavano i trent’anni di età. La Legge veniva considerata come tale, e non vi erano mai state proteste di alcun genere. I primogeniti venivano istruiti all’interno delle rispettive Accademie, e non avevano possibilità di conoscere realtà ulteriori da mettere a confronto. I genitori, d’altro canto, fornivano di spontanea volontà i figli; la maggior parte rifiutava di incontrarli in seguito, come dimenticandoli, obliando il loro ricordo.
Kendra soffermò il suo sguardo su un tempio leggermente rialzato, avvolto da un’aura di potere. Riluceva di riflessi aurei, e il suo aspetto rimandava all’epoca classica, millenni orsono. Ghirigori argentati percorrevano le austere colonne, come acqua che scorre sul corpo di una ninfa, la dolcezza della seta che scivola dalle mani.
Lì la donna aveva trascorso i suoi primi diciotto anni di vita, ma la facciata dolce del tempio fungeva da anticamera all’inferno; sotto la collina vi erano corridoi e caverne umide, le ragazze erano costrette a passare le notti in piccoli anfratti, a volte anche privi di sbocchi all’esterno. D’altra parte, alle Sacerdotesse, seppur novizie o prossime al congedo, era concesso il libero accesso a ogni stanza, e non di rado avevano ore da trascorrere in giro per la città o da dedicare alla cura personale. Nella comunità magica erano usi esserci tali contrasti, le privazioni venivano puntualmente mitigate con piccole possibilità di svago. Era come accontentare un bambino orfano con un giocattolo: l’ingenuità del momento poteva farti credere che fosse un buon gesto, ma poi tutto ritornava uguale a prima, o forse ancora peggio.
Non si poteva decidere il proprio destino lavorativo: dopo gli anni di addestramento alla magia, esercitavi le pratiche da Sacerdotessa come un mercenario assoldato al peggiore dei nemici, con le varie parti che si disputavano la maga migliore. Alcuni gruppi di ragazze venivano spedite a lavorare con i Luminari, altre sceglievano liberamente come impiegare il loro potenziale magico. Lei era stata reclutata dal Veggente. Un puro caso, visto che non andavano per niente d’accordo.
Erano questi i pensieri che le attraversavano la mente, vecchie reminescenze del passato che ogni tanto facevano capolino dall’antro dei suoi ricordi.
Si voltò di scatto, dirigendosi a uno degli armadi accostati alle pareti. Non valeva la pena perdere tempo inutilmente. Ancora una volta il suo lavoro la chiamava, e ancora una volta non poteva che assecondarlo.
mercoledì 11 novembre 2009

PostHeaderIcon Fato e Destino II: il mito


Questo post è per lo più riferito al suo precedente, o almeno è da esso che trae spunto. Negli ultimi versi si fa riferimento a "Fato che confabula con Destino", benchè siano in verità una cosa sola. Il dubbio me lo ha fatto sorgere mia sorella, che appunto mi ha chiesto la differenza fra i due... mettendomi addosso un complesso che necessitava di essere spiegato :)
Non sono un'esperta di mitologia, e non pretendo di esserlo. Ho cercato di informarmi per far quadrare il mito con gli altri diffusi nella cultura greca, e nonostante tutto potrebbero ancora esserci delle incomprensioni che pregherei di farmi notare. Nella mitologia Fato e Destino sono solo due nomi associati a un unico Dio, poi impersonato dalle Parche Cloto, Lachesi e Atropo.
Il mio mito ha solo alcuni riferimenti reali, e non è una riscrittura di credenze già diffuse.
Ma non stiamo qui a divagare... buona lettura ^^


Nelle Ere degli Dèi, quando gli onnipotenti giostravano con le ingiustizie del Mondo, fra le grotte più buie del Monte Olimpo, il Dio Caos e la Dea Notte si possederono. In quel tempo di passione, da quel congiungimento fatale, nacquero due fratelli gemelli: Fato e Destino. Molti li confondono come un solo individuo, e così è stato per lunghe epoche e ancora ora, ma pochi sanno che agli albori erano due entità separate.
Fato, figlio della forza, grande e imperturbabile. Egli amministrava le vite degli umani e persino le discordie degli dei come un fanciullo conta le decine con l’abaco.
Destino, figlio dei sentimenti, insicuro e indeciso. Egli mitigava le decisioni del fratello spartendo letizie e vittorie con saggezza d’animo, e a volte permetteva che il libero arbitrio rivedesse il futuro già prescritto.
Non correva buon sangue fra i due, e le scelte dell’uno contraddicevano con le scelte dell’altro. Ma Fato e Destino, alla stregua di due facce di una stessa medaglia, procedevano nel loro lavoro incauto, perché unici sopra gli altri, e indispensabili per le sorti dell’Universo.

Un giorno, mentre camminavano affiancati per le vie di un villaggio affetto da una grave epidemia, disperdendo i morti fra le viuzze e i vicoli infangati, si imbatterono in una vecchia che sbarrò loro la strada. Le rughe solcavano il suo volto, come pieghe di una coperta logora. Gli occhi infossati presero ad osservare i fratelli, li oltrepassavano per scrutare nelle loro menti. Così diversi… eppure così inseparabili. L’anziana donna, vestita di stracci strappati in più punti, proseguì incespicando con la sua andatura lenta e caracollante, senza però distogliere lo sguardo dai due imponenti giovani.
Fato uscì un mazzo di filamenti di lana dalla sacca che portava a tracolla. Ogni filo equivaleva a una vita umana, e un taglio poteva cessarne il corso. Tale compito poi passò alle Parche, ben più severe del suo predecessore; ma questa è già un’altra storia.
Fato districò la matassa per cercare il filo che corrispondesse alla vecchia che avevano appena incontrato. Era di una lana spessa e scura, forte, tessuta dalla pecora più saggia del branco.
“Fratello, cosa fai?” chiese Destino.
“Tolgo la vita a chi non ne ha più bisogno.” Rispose con voce perentoria l’altro.
Ma Destino, sempre dalla parte dei deboli, non desistette: “Non vedi che quella donna è la più sana del villaggio? Non merita di morire insieme agli altri.”
Le forbici di Fato si stavano già chiudendo sul filamento nella loro morsa fatale, ma il giovane preferì rimandare il momento per chiarire la situazione col fratello. “Se non vuoi, Destino, farò come meglio credi. Ma il suo futuro è ormai segnato dalla vecchiaia e, se non oggi, domani dovrò tagliare il filo.”
“Attendi ancora pochi giorni, fratello. La sua più adorata figlia sta per partorire un primogenito maschio, e non c’è gioia più grande che assistere a una vita che viene al mondo, prima di esalare l’ultimo respiro!”
Discussioni del genere erano pane quotidiano fra i due fratelli, e il più delle volte Destino faticava a raggiungere compromessi. Anche quel giorno Fato ebbe la meglio, e la vita della vecchia fu stroncata pochi minuti dopo il loro muto incontro.

Ma fu ben diverso l’episodio che li fece unire.
Destino si era invaghito della bellissima Pleiade Alcione. Quando, secondo il mito, Fato prescrisse che le sette ninfe attendevano una sorte da colombe, per sempre allontanate dalla loro natura terrestre, il fratello già da subito non fu d’accordo. Le parole si sprecarono, e nella loro dimora risuonarono acuti strilli e imprecazioni: ormai non v’era più nulla, eccettuato il legame di sangue, ad accumunare i due.
Eppure, Destino aveva errato. Per chi amministra il futuro non può esserci vita propria, ed è tenuto a dedicarsi al suo dovere senza risentimenti. Ma il giovane, incauto, aveva ceduto alla bellezza ammaliante di Alcione, ed ella, approfittando dei poteri dell’uomo, giacque con lui, e lui solo mentì di amare. La bella Alcione aspirava, come ogni ninfa semidea, all’immortalità.
Ritornando al nostro mito, Fato e Destino non cessavano di combattere nei reconditi accessi delle loro grotte, tanto che lo stesso Zeus venne loro incontro.
“Chi turba la sorte di tutti noi? Voi, che foste scelti per questo arduo compito, come potete sprecar tempo in tali fandonie, mentre l’umanità intera attende i vostri responsi? Gli oracoli tacciono, e molti meritori di morte camminano ancora sui nostri suoli.”
I fratelli, intimoriti dal Signore degli Dèi, benché potessero giocare anche sul futuro di egli, cessarono la loro guerra solitaria per volgergli l’attenzione. L’ira del Dio era palpabile nell’aria, tanto che Fato e Destino furono costretti ad abbassare lo sguardo per non essere travolti dalla sua rabbia omicida.
“Per una volta ancora, deciderò io di voi come quando vi feci nascere. Sarete corpo solo, unica entità senza volto, chiamata sia Fato che Destino a seconda della personalità che si invoca. Non si serberà ricordo del vostro duplice passato, e sarete costretti a combattervi in silenzio per decidere ciò che è meglio. Così ho decretato.”
Non fu dato loro tempo per ribattere, che il corpo flessuoso dell’uno si unì ai possenti muscoli dell’altro, e la chioma rossa e fulgente di fuoco di Fato divenne unico capello con la candida e dorata capigliatura di Destino. Le loro bocche si aprirono all’unisono in un muto grido di dolore, quando fra spuma e nuvola bianca divennero il nulla. Ora vagano come entità trasparenti, unite, per ascoltare le preghiere degli altri, e spartiscono gioie e dolori in eguali misure.

Sul fondo della grotta che sancì la loro fine, giace ancora una moneta d’oro sulle cui facce è scolpito il viso dei due fratelli. Nelle notti buie e silenziose, si sente il ticchettio metallico della moneta che si gira e si volta, simbolo del prevalere dell’uno, o dell’altro.
lunedì 9 novembre 2009

PostHeaderIcon Fato e Destino

Questa avrebbe dovuto essere una descrizione, per dare la possibilità a Crystal, come per gioco, di disegnare una persona. A una descrizione non ci somiglia nemmeno lontanamente... e allora mi chiedo, perchè quando mi prefisso di scrivere qualcosa il risultato è sempre diverso da ciò che voglio? E perchè, oltretutto, questo risultato per me risulta appagante, mi piace? La mia fantasia è un cavallo a briglie sciolte, per di più alato, una di quelle cose che è impossibile controllare. Neanch'io sono capace di farlo, e pian piano me ne sto rendendo conto.
Quindi godetevi questa sorta di poesia, scritta nella notte fra ieri e oggi, e che narra il frutto dell'incontro di Fato e Destino...


Un bacio.

L’immagine di cui il ricordo si spegne, assonanza di scatti cui ti appigli, ché desideri rimangano al tuo fianco suadente.

Un sorriso.

Silenzio di gesti che rimanda a giorni perduti, l’inseguimento di due anime che si bramano e muoiono nella frenesia di aversi.

Uno sguardo.

E vorresti non esserci stata, obliare i pozzi in cui continui a perderti, erba di un giardino di meraviglie, droga di un cuore assetato.

Un addio.

Risuonano nella mente danze di fortuna, lampadari di cristallo che riflettono gioia arrivista, l’incontro di eventi che Fato confabula con Destino.

Un piccolo cenno ove riponi le speranze di una perfezione, o la fuga …
sabato 7 novembre 2009

PostHeaderIcon Tyrsek, la bussola del cielo V

Il quinto capitolo del Tyrsek, a quanto pare la mia saga più seguita ;) Enjoy!


“Codice Dem0971R.”
“Cosa?”
“Una Sam-rjah.” Il silenzio scese cupo fra loro.
Tre figure sostavano in un ambiente asettico annesso alla stanza dove Kendra e il Veggente erano apparsi. La visualizzazione era avvenuta perfettamente, e la coppia non aveva perso tempo per mettersi al lavoro. Un bianco abbacinante dominava il luogo dal soffitto alto. Al centro vi erano numerosi macchinari e monitor di svariate dimensioni, da cui proveniva un ronzio sommesso. Un giovane uomo li controllava tutti dalla sua postazione, sotto l’occhio attento dei viandanti.
La rosa galleggiava in una teca trasparente; attorno alla sua superficie vorticavano filamenti azzurrini, scariche elettriche dalla forma mutevole di saette. Su uno schermo comparivano scritte e codici a ritmo sostenuto, intanto che la sagoma tridimensionale di un mostro si delineava pian piano sullo sfondo nero. Aveva parvenze di donna, con lunghi artigli che si propagavano dalla pelle scarlatta. Due corna taurine spuntavano dal capo ricoperto da una fitta peluria nera. Occhi vitrei, senza sguardo, e lunghe zanne che si allungavano dalla bocca, piccola e suadente. Le labbra erano carnose, piene, assetate di sangue.
“Potevi dirlo subito di cosa si trattava!” sbottò Kendra, incrociando le braccia. “Che senso ha tutta quella sfilza di numeri e lettere? È una Sam-rjah, e questo basta.” Aggiunse, avvicinando il volto alla rosa, che circondata da quella gabbia d’energia pareva ancora più eterea, e fragile. “Letale”, pensò la donna, storcendo lievemente il naso.
“I codici sono informazioni essenziali per individuare il corpo intrappolato nell’oggetto da analizzare. Sappiamo ora che si tratta di un demone, precisamente la 971a specie catalogata.” L’uomo posto a comando degli strumenti elettronici prese a snocciolare varie informazioni, noncurante della poca attenzione ricevuta. Indossava una lunga veste dorata, che contraddiceva con la folta chioma di un colore adamantino dai riflessi cerulei. Capelli che quasi toccavano terra, e che non avevano mai incontrato la luce del sole. “E sappiamo anche che si tratta di un codice rosso, ovvero…”
“Che dobbiamo procedere con la massima cautela.” Concluse Kendra al suo posto.
Il Veggente era rimasto tutto il tempo discosto, ad osservare la scena. La sua mente lavorava febbrilmente, gli occhi percorsi da impercettibili guizzi. “Ci puoi dire qualcos’altro sulle Sam-rjah?” chiese d’un tratto.
“Oltre a quello che sapete già? No, null’altro.” Rispose l’uomo, quasi trattenendosi dall’aggiungere le sue perplessità.
Lo schermo che circondava la rosa si fece più sottile, per poi dileguarsi. Il fiore ora appariva indifeso, adagiato sul tavolo come in attesa di una ragazza che l’avrebbe posto con cura in un vaso colmo d’acqua, e che l’avrebbe ricordato dono di un amore ingenuo. “Letale”, pensò il Veggente, mentre un’ombra scura sfiorava il suo sguardo di ghiaccio.

Kendra si era lasciata trascinare dal suo compagno di viaggio in una stanza attigua, abbandonando così quella sorta di laboratorio e l’uomo che vi albergava. Il nuovo ambiente appariva più sobrio: impiantito nero, soffitto basso e cosparso di appigli, pareti ricoperte da lunghi scaffali di libri e armadi chiusi da lucchetti. Non c’era bisogno di illuminazione, perché tutto il versante rivolto a est era fatto di finestre di vetro spesso. Quel lato, dalla forma semicircolare, mostrava un cielo limpido ma spento, dai toni grigiastri. Si dovevano trovare molto in alto, perché non v’erano altri edifici in vista.
Se la prima camera era moderna, tecnologica, innovativa, questa conservava l’austerità tipica dei monasteri medievali. Il contrasto con la precedente lasciava il dubbio di aver attraversato un altro varco spazio-temporale, invece di una semplice porta.
“Cosa c’è?” chiese Kendra, cercando di spingere il Veggente a parlare.
“Forse non ti rendi conto che la questione è molto più grave di quanto ci aspettavamo. Non abbiamo a che fare con un oggetto dotato di poteri, o semplicemente maledetto. In questa rosa c’è un demone, che ha sfruttato le condizioni di Keren’hir a suo vantaggio, per poi rimanere intrappolato all’interno del fiore quando gli stregoni ne hanno circoscritto il raggio d’azione. Al momento è solo assopito, ma non sconfitto. E soprattutto ci vuole molto per sottomettere un demone al nostro volere, al contrario se avessimo trovato una pianta che agiva di sua spontanea volontà.” Disse il Veggente, guardando di sottecchi la donna. Kendra non proferì verbo, preferendo che l’uomo continuasse con le sue considerazioni. “Devo parlare con la Sam-rjah.” Aggiunse dopo. La donna fece per ribattere, ma fu fermata da un gesto del Veggente. “È l’unica soluzione che abbiamo per sfruttare questo suo potere, che al momento ci serve più di ogni altra cosa. Libererai il demone, ma dovrai imporgli un sortilegio immobilizzante per tutto il tempo di cui avrò bisogno.”
“E tu che farai?”
“Io parlerò con la Sam-rjah e la farò scendere a compromessi. Chissà da quanto tempo non si nutre… Hai mezz’ora di tempo per preparare il rituale, poi ti raggiungerò e procederemo come stabilito.” Concluse l’uomo, prima di voltarsi e lasciare Kendra da sola.
mercoledì 4 novembre 2009

PostHeaderIcon Biliardo


Un’atmosfera buia e appannata si affaccia alla mente, prendendo sembianze di luoghi chiusi avvolti da nebbia. Neon giallastri pendono dal soffitto invisibile, rischiarano un tavolo alla volta. Spirali di fumo si alzano dalle sigarette, come ciminiere che soffocano il cielo. Si sente lo schiocco cupo delle stecche che toccano l’obiettivo, colpi decisi che si lasciano scivolare da abili dita esperte. Il verde del tessuto che riveste il banco riluce come colore dominante, graffiato a tratti. Un chiacchiericcio di sottofondo, respiri puntualmente mozzati, rumore di bocche che aspirano nicotina. Radio Montecarlo risuona sommessa, eco lontano. Alcune risate femminili, tentatrici assistenti che percorrono con mani suadenti i bordi del legno intagliato, per poi raggiungere una preda su cui richiudersi, avvolgersi, altre mani di altri giocatori accorti. Flebili toccate di labbra, sospiri congiunti, e si riprende il gioco.

"… sei le Rive dell’Eden, Nemesi mia, dove fra Zone d’ombra Occhi s’incrociano per annegare nella passione..." voce assurda alla radio canta le mie pene.

Gioca con me, uomo, che non c’è avversario più forte di chi crede in sé stesso. Gioca con me, uomo, tralascia l’anello che porti al dito e che mostri con tanta vigliaccheria. Gioca e forse vincerai una giusta partita.



Tutto questo per dire che a Imola ho giocato a carambola, o meglio, ho guardato giocare gli altri. L'ho sempre trovato uno sport circondato da un'aura di charme, che si concedeva a pochi. Ho passato dei giorni nel lusso, inutile negarlo. E si è fatto più vivo in me il piacere per questi aspetti della vita, che ho sempre amato. Eleganza, fascino, quella muta modestia da acculturato... non avarizia e attaccamento ai soldi, solo il sorridere alla finezza, apprezzarla. E non posso fare a meno di constatare che già quei giorni mi mancano, e quelle persone la cui compagnia si paga con un sorriso nostalgico fin dal primo istante... Il rispetto, l'attenzione, il baciamano... l'uomo e il suo modo di frapporsi alla donna, o il semplice fatto che forse mi sono presa una cotta.
sabato 31 ottobre 2009

PostHeaderIcon Amore di Strega


Mentre io metto a posto quel po' di spesa che ho fatto alle Befane di Rimini, vi lascio qualcosina da leggere ;) Nei prossimi giorni programmo di scrivervi un resoconto delle mie serate a Imola.
Avendo passato la prima fase del contest della Ragazza Drago (con il racconto Tyrsek, la bussola del cielo, parte I), ecco il racconto della seconda fase. Tema: Halloween


“Il mio compito è finito qui, lo sai. Perché ti ostini a chiamarmi ancora?” Una voce nell’aria, che sussurra austera con respiri stridenti, come foglie d’autunno mosse dal vento, come il crepitio del fuoco da cui il suono proviene.
“Mi manchi. Non puoi togliermi il piacere di sentirti, di parlarti. È solo una volta l’anno, per giunta.” Replica una donna con tono triste.
“Una volta in cui sempre giuri a te stessa che sarà l’ultima. Una volta in cui ti ricordo sempre di andare avanti e dimenticarmi.”
“Ma io non posso! Non posso! È stata tutta colpa mia se…” ma i singhiozzi interrompono la frase, mentre una foschia aleggia nella mente della donna, i pensieri si fanno confusi, e mille immagini sfocate irrompono le barriere del presente.

Forti strepitii arrivano dalla strada. L’acciottolato stride sotto i colpi delle forche, gli stivali che pestano pesantemente il terreno. Si avvicinano a passo svelto verso una capanna un po’ discosta dalle altre, più malandata e con un orto ben curato sul retro. Nell’interno non ci sono luci accese, ma due persone conversano animatamente.
“Stanno arrivando…” dice un uomo. È di bell’aspetto, con uno sguardo penetrante ora velato da una sorta di preoccupazione. Una donna giovane e attraente è seduta sull’impiantito, costituito da assi di legno impolverate. Accucciata in un angolo, si stringe le gambe al petto, mentre lacrime nere le solcano il pallido viso. “Vai nel seminterrato. Nasconditi, fai presto!” le ordina l’uomo, costringendola ad entrare in una botola che conduce in un vano sotterraneo, prima di porvi sopra delle casse per nasconderla alla vista.
Intanto un manipolo di contadini fa irruzione nella casa. Imbracciano attrezzi da lavoro, alcuni dei fucili. “Dov’è la strega? Dimmi dov’è!” gridano, e cominciano a perquisire la piccola stanza, buttando a terra mobili e sedie. “Qui non c’è nessuna strega. Andatevene.” Dice l’uomo, dissimulando falsa sicurezza. Ma non riesce nel suo intento, perché la furia degli abitanti del villaggio è più forte. Uno di essi lo trapassa da parte a parte con un forcone. L’uomo cade piano a terra, gli occhi aperti in una muta richiesta. Sembrano invocare a quel sordo potere che alberga nella natura di accettare il suo sacrificio, e di salvare la vita della sua amata. Forse qualcuno, o qualcosa, ha sentito il suo disperato richiamo.
I contadini escono, ancora più infervorati per non aver trovato ciò che cercavano. “L’arpia se n’è andata. Quando ci ha visto arrivare ha preferito fuggire con i suoi trucchetti da maga, e lasciare suo marito a morire.” Urla uno sputando a terra. “In ogni caso, la casa ormai è infestata. Diamole fuoco.” E le fiamme iniziano a lambire la piccola capanna, estirpando il male; ma non si tratta del male di un incantesimo, o di un’invocazione: estirpano il male dell’omicidio, dell’ingordigia degli uomini dalla mente chiusa.
Fra le fessure delle assi di legno, la donna ha osservato ogni istante della scena. Sentiva i passi pesanti sopra la sua testa, e le ragnatele che si stavano impigliando nei suoi folti capelli neri mentre cercava con lo sguardo il suo amato. A stento reprime un urlo quando vede il sangue infilarsi dalle fenditure dell’impiantito, e bagnarle l’abito. Piange in silenzio, maledicendo i suoi poteri. Non si accorge del fumo che pian piano le sta mozzando il respiro, sente solo le parole della sua Dea Madre bisbigliarle di andare nel bosco, e lì restare per notti intere. Arranca fino alla botola, esce. Tossisce violentemente: non le resta più molto tempo. Così lascia a malincuore il corpo dell’uomo a bruciare nella sua dimora, e scappa fra gli alberi finché non raggiunge un ruscello. Immerge la testa nell’acqua, e le idee si fanno più chiare. “Madre, perché mi hai salvato? Perché mi hai condannato a questa eterna solitudine?” urla alla notte. Ma non le giunge risposta.

La festa quest’anno è uno sballo. La palestra del liceo è irriconoscibile: hanno fatto proprio un bel lavoro. Palloncini neri e arancioni ricoprono l’alto soffitto, mentre altri sono legati ai canestri da basket o ai pali per la rete di pallavolo. Alle pareti sono stati appesi lunghi striscioni che dicono frasi sanguinolente tipo: “Buon Halloween!” o “Qui troverai il tuo riposo, vampiro!”. Forse non sono poi tanto originali, ma si nota l’impegno. D’altronde, sono una che si accontenta facilmente.
Valerie si avvicina con due bicchieri di sidro in mano. “Che bella festa!” urla per sovrastare la musica a palla, con il suo sorriso smagliante stampato in faccia. Mi porge la bevanda e poi parte a caccia di qualche ragazzo con cui scatenarsi in una danza sensuale. Questo suo modo di fare non mi è mai piaciuto, ma per il resto è una buona amica. Sorrido osservandola. Stasera è vestita come un angelo, i capelli biondi acconciati in voluminosi boccoli, la bocca rosea, un vestito bianco e un paio d’ali piumate a coronare la scena. Io, invece, ho preferito uno stile total black, cercando di passare inosservata. Quando all’entrata hanno chiesto che costume avevo, così da poterlo segnare sulla lista dei candidati al ‘miglior travestimento dell’anno’, ho biascicato un “vampiro” poco convinto. Sospetto che non mi abbiano nemmeno segnato.
Pensandoci, ne sono proprio sicura. Non sono mai stata tanto popolare nella scuola, se non per gli eventi inspiegabili che accadono in mia presenza. Quando mi fanno arrabbiare, i vetri si spaccano da soli. Fino adesso ho distrutto l’intero laboratorio di biologia, e dopo non ho osato mettere piede in quello di chimica per almeno una settimana, perdendomi tutte le lezioni. Poi c’è stata la volta degli armadietti. Il mio ex mi aveva appena lasciato con un sms lapidario, e all’improvviso tutti i lucchetti della mia fila sono caduti a terra. Decine di armadietti saccheggiabili. Quando sono felice o particolarmente allegra mi va meglio. Riesco a far nascere i fiori dal nulla, oppure condiziono il tempo e anche in una giornata di pioggia faccio apparire un caldo sole primaverile. Lo psicologo della scuola ha spiegato questo dicendomi che sono ‘troppo emotiva’, e che erano per lo più coincidenze. Fatto sta che hanno cominciato tutti a evitarmi, casomai facessi scoppiare loro i cellulari o lo specchietto della cipria. Tutti tranne Valerie.
La festa procede a ritmo costante, abbiamo una notte intera per fare baldoria. Ma io non ne ho voglia, e sinceramente sento che comincia a mancarmi un po’ l’aria; così decido di uscire a farmi due passi.
Il liceo si trova vicino a una riserva naturale, piena di alberi secolari e leggermente inquietanti. Ha un grande spazio verde attorno, una sorta di parco per noi ragazzi. Appena uscita noto subito qualche coppietta sulle panchine, e i più imprudenti sono seduti sulle foglie secche a coccolarsi. Non mi va di disturbarli, e mi dirigo verso il limitare del bosco. Girano brutte voci sulla riserva, e anche i professori intimano di non avvicinarci troppo. In verità è solo perché è così fitto che è facile perdersi, e non ci sono sentieri sicuri. Valerie dice che vi abita una vecchia strega che ha maledetto tutto il bosco, e che nella notte di Halloween accende un fuoco per attirare gli incauti.
Smarrita fra i miei pensieri, m’inoltro sempre più nel folto della foresta. La scuola adesso è solo un edificio bianco in lontananza, a tratti coperto da rami di betulla. Non lo perdo di vista, così da poter ritornare indietro appena lo desideri. Guardo avanti a me, e mi sembra di scorgere una luce rossastra pochi metri più in là. Aguzzo la vista, e sono quasi certa che sia un fuoco. Sento anche una voce femminile spezzata dal pianto. Proseguo, incuriosita.
Fra gli aghi dei pini vedo una donna: folti capelli neri intrecciati a foglie, un abito logoro stretto da un corsetto in vita. Probabilmente un tempo era bellissimo, perché noto dei filamenti dorati fra le pieghe della gonna nera. Anche la donna ha un aspetto un po’ trascurato, ma che non offusca la sua incomparabile bellezza.
Si è accorta di me. Butta una polvere strana sul fuoco, che si spegne all’istante. Prende la sacca che aveva con sé e comincia a correre dalla parte opposta alla mia.

“Sento qualcuno, nella foresta… Ci sta guardando. Presto, interrompi il rituale!” grida l’uomo, e la sua voce assomiglia sempre più al suono della legna scoppiettante. La strega non se lo fa ripetere due volte, nonostante le dispiaccia abbandonare così il suo amore, e butta della polvere occultante sul fuoco. Le fiamme s’interrompono senza produrre un filo di fumo. Ma l’incantatrice non si ferma a guardare, perché si sta già dirigendo verso la sua capanna nel bosco. Sente che quel qualcuno la sta seguendo, e perciò affretta il passo tanto quanto la lunga veste le permette. Il velluto s’impiglia nei rami, provocando nuovi strappi al tessuto già rovinato.
La capanna è in vista, e la strega vi si barrica all’interno.

Mentre corro all’inseguimento della donna misteriosa, per un istante mi sfiora il pensiero che si tratti della strega di cui parlava Valerie. Ma le streghe non esistono, e se così fosse, sono state tutte bruciate nei primi del 1600. Sempre se la storia di Salem non affermi il falso, il che è molto probabile.
Scaccio queste strane congetture dalla mente, e cerco di convincermi che sia solo una vagabonda o una zingara che sopravvive di elemosina, e che ci siamo entrambe trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato. Sì, è così. Aveva un’aria talmente triste e depressa che non lasciava presagire una bella vita.
Sono arrivata nei pressi di una baracca. Sembra una di quelle che disegnano nei libri per bambini, le casette di un villaggio medievale. Sotto il tetto sono appese strane erbe a seccare, e diversi amuleti pendono dagli alberi vicini. “Superstizioni, vecchie credenze” mi dico, mentre una strana sensazione mi attanaglia lo stomaco. Io non dovrei nemmeno essere qui! Dovrei trovarmi alla festa e divertirmi e fare casino! Ma qualcosa mi ha portato quasi forzatamente a seguire la donna, e io non ho potuto far altro che accodarmi a questa specie di istinto. Busso alla capanna, attendendo una risposta. “Non voglio farti niente!” dico, scoraggiata, come se così potessi abbassare i suoi pregiudizi.

La strega per un attimo sussulta. Avverte un’aura magica, attorno alla fragile ragazza che ora batte incessantemente i pugni sulla porta della sua casa. È potente, ma incontrollata. Comprende che si tratta di una novizia, una strega che non ha ancora scoperto la sua vera natura. Se adesso fosse stata con la sua congrega, avrebbero deciso insieme di prendersene cura e insegnarle l’Arte. Ma tutte le sue compagne sono morte, e la Dea Madre l’ha rinchiusa in quest’isolamento eterno, violandole il diritto di cercare una nuova congrega. Forse sa che un giorno lontano le streghe di Salem si sarebbero risvegliate. E quindi è compito suo, dell’ultima, istruirle per ricreare l’Ordine.
Apre leggermente l’uscio e lascia entrare la ragazza. Ora la sua aura è più forte, e si manifesta con un leggero tremolio attorno al corpo. Segue ciò che le dice il cuore, le racconta tutto. E quando la ragazza le chiede del falò che aveva visto nella radura, parla anche di lui, del suo amore. Nessun segreto.
“La prima cosa che si insegna a una futura strega è l’amore. Una strega vive in eterno, è immortale. Solo se uccisa o per ordine della Dea Madre può lasciare il mondo dei vivi, per il resto è chiamata a servire la natura per decenni, secoli a volte. L’amore di strega è speciale perché anch’esso eterno. Una strega non s’innamora che una sola volta nella vita, e poi è legata per sempre all’anima dell’uomo a cui ha donato il cuore… per questo, ogni anno, nella notte di Samhain, quando il divario fra il mondo dei vivi e quelli dei morti si fa più sottile, compio il rituale per rivedere il mio marito defunto.
“Ricorda, ragazza, l’amore di strega è ciò che di più duraturo esista al mondo, varca confini invalicabili, e si protrae per tempi che i comuni mortali faticano a concepire. Solo in una strega risiede il vero spirito di ciò che noi chiamiamo Amore.”


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